- Ciao Alessandro, nel tuo ultimo singolo “Clash” canti “chissà per non farsi del male se poi esiste il trucco”. Ci stai riuscendo a trovarlo?
- Non ancora sarò sincero. Penso che sia una ricerca che prosegue per tutta la vita fino a quando non si capisce abbastanza di se stessi o si incontra la persona giusta per non farsi del male. Parte da noi stessi imparare a vivere una relazione senza pungere l’altro, trovare i propri spazi e capirsi che non è semplice.
- Dal punto di vista musicale ho letto che il pezzo è stato scritto con Francesco Bacci. Come è nata questa vostra collaborazione?
- Francesco per essendo giovanissimo ha una storia lunghissima nella scena it pop italiana, è stato il chitarrista degli Ex Otago. Diciamo che avevamo amici in comune e io a un certo punto prendo coraggio, mi faccio dare il numero di telefono, lo chiamo e gli dico “Franci guarda io attualmente vorrei fare un album, ho questi brani e vorrei concludere questo percorso tematico. Il tuo suono mi è sempre piaciuto, incontriamoci”. Gli ho mandato il provino di un brano che si chiama “Disordine”, che uscirà poi a ottobre se non sbaglio. Da lì e nato tutto e dopo un po’ di brani abbiamo trovato questo suono. “X stare meglio” e Clash” sono stati prodotti da lui. Abbiamo trovato queste chitarre molto alla Mac DeMarco, un passato comune di ascolti punk per entrambi, abbiamo provato a metterli un po’ in italiano ed è uscito questo”.
- In “X stare meglio” canti “sono un infelice, questa è la mia condizione”. Il filo rosso della tua produzione musicale sembra essere quello dell’infelicità. I testi sono tristi in contrasto con la musica che invece dà delle vibrazioni positive.
- Sì l’idea era quella, riuscire a comunicare con molto trasporto, mascherando con la musica. Sono brani che vorrei che le persone cantino dal vivo, però i testi sono anche il riflesso di un periodo, sono stati scritti negli ultimi due anni che sono stati molto amari e riflessivi per me in cui stavo cercando ancora la forma sia musicale che mia come persona e sono il riflesso di quella malinconia. Devo ammettere che adesso che sono in un nuovo capitolo della mia vita e quindi usciranno cose sicuramente diverse. Per questo album che uscirà in autunno di quest’anno il filo rosso era proprio la crescita e trovare il mio posto nel mondo. E quando cerchi il tuo posto nel mondo passi anche momenti in cui ti senti un po’ perso. Da qui quella malinconia di adesso, però non sarà sempre così. Mi rendo conto che essendo quella la tematica i pezzi possano sembrare un po’ stucchevoli, ridondanti, però era mirato.
- Certo, poi si sa che la musica che un artista produce, se non è costruita a tavolino, riflette anche una certa fase della vita di una persona.
- E’ vero era un momento in cui cercavo, capendo poi anche con un’autoanalisi che il problema delle relazioni non era solo l’altra persona, ma anzi se porti delle tue pesantezze, delle infelicità non puoi sperare che l’altra persona ti salvi.
- Sei un cantautore piemontese, ma appari molto legato al mare, per esempio nel tuo video di “X stare meglio” suoni proprio davanti al mare. Da cosa nasce questo tuo particolare legame con l’elemento acqua?
- Ho fatto l’Università a Genova poiché mio padre abitava lì ed ho quindi vissuto per un periodo a Genova. E soprattutto d’inverno la prima cosa che ti veniva in mente era fare una passeggiata sul lungomare e laddove la Riviera ligure d’estate si anima e vederla autunnale, invernale ti porta alle volte più malinconia rispetto a vivere sulle colline piemontesi. Sì è sicuramente riflessa nella mia musica quella sensazione del mare d’inverno. Il mare ti dà questo sguardo verso l’infinito e diciamo che è molto malinconico e riflessivo. Poi i cantautori genovesi hanno sempre avuto questo imprinting, da Gino Paoli a Tenco fino a De Andrè molto riflessivo diciamo.
- Parliamo un attimo del brano “Febbre”. Leggendo il testo ma guardando anche l’immagine in copertina mi sembra che, in questo caso, più che parlare del distacco da una donna, da un amore il tema sia il distacco dalla propria famiglia d’origine.
- Come moltissimi della mia generazione, ma penso ancora attualmente i nonni hanno un ruolo fondamentale, vuoi perché i genitori sono sempre al lavoro si passa molto tempo con i nonni e si viene cresciuti un po’ da loro. Per cui la perdita inevitabile con l’avanzare dell’età di figure cardine come i nonni ti porta un po’ a crescere e senti questa perdita. Il verso “chiamo ancora te quando ho la febbre” si riferisce a mio nonno. Comunque diciamo che il bello di una canzone è che può essere interpretata in modi diversi.
- Sempre in febbre c’è una semi citazione di De Andrè perché scrivi “noi che siamo fiori tra la merda e siam diamanti. Quali sono i cantautori dai quali hai tratto maggiore ispirazione? Non solo i cantautori classici ovviamente, ma anche quelli contemporanei, le nuove leve.
- Diciamo che un certo pop degli anni 60, quindi diciamo Gino Paoli, Luigi Tenco, ma anche altri cantanti come Mia Martini, diciamo che c’era questa velata malinconia. E nel pop che ho ascoltato crescendo diciamo che non ho ritrovato quel tipo di malinconia. Poi certamente quando ho approcciato la musica diciamo un po’ più alternativa con l’esplosione nel 2016 della scena indie italiana diciamo che con I Cani Niccolò Contessa o il primo Calcutta ho trovato tanto, poi andando anche indietro nei primi anni 2000 ho scoperto anche artisti che mi ero perso perché semplicemente ero piccolo e non li conoscevo, quindi ad esempio gli Afterhours, Vasco Brondi. Lì ho trovato delle sensazioni più di malinconia che cercavo.
- Pensi che l’affermazione di cantautori come Lucio Corsi possano portare a una maggiore attenzione verso questo genere di artisti da parte del pubblico e, perché no, magari anche da parte delle case discografiche che possa aiutare a far crescere questa nuova generazione di cantautori?
- Ci spero. Non so se poi veramente avverrà, ma sicuramente ci spero anche perché poi le case discografiche vanno dove ci sono i soldi e credo che l’ondata della musica trap o di tanta altra musica più leggera sia un po’ agli sgoccioli. Anche nel mondo dell’hip hop si cerca qualche artista che porti contenuti migliori e guardi magari anche a sonorità più vecchia scuola. Stanno andando benissimo cantanti come Sayf e Ele A che stanno portando dei contenuti e delle sonorità molto interessanti che mancavano nella scena hip hop quantomeno mainstream degli ultimi anni e hanno suonato anche su palchi importanti come il Festival MI AMI. Penso che con loro e il podio di Lucio Corsi e Brunori si possa far emergere bene il cantautorato perché, secondo me, ha tantissimo da dire e, soprattutto, non ha una data di scadenza. Perché ci sono delle storie vere, non usa e getta e ci siamo stufati di un certo pop di plastica scritto da venti autori quando poi c’è un brano scritto magari da due persone come Lucio Corsi e Tommaso Ottomano che arriva a tutti, anche in Europa e quella sincerità per me non ha prezzo. Se le etichette discografiche vedono che questa cosa funziona magari tornano a reinvestire sul cantautorato ed è una cosa di cui abbiamo bisogno perché è quel genere che ha quella bella condivisione dal vivo e diciamo che c’è bisogno di questa musica più reale, sincera. Certamente, diciamo che c’è bisogno di testi più profondi che diventino delle hit perché se tu, per esempio, vai a prendere una hit rock degli anni 90 come “Supersonic” degli Oasis ti rendi conto che il testo non significa assolutamente nulla, una parola dietro l’altra, mentre invece per contrasto il cantautorato ha testi che rimangono, non hanno data di scadenza dicevo, hanno un peso e un fascino immortale, secondo me è un investimento sul lungo periodo più giusto.
- Come cantautore sei stato definito indie, emo, poprock. Ma secondo te ha ancora senso dare delle etichette alla musica o esistono diciamo, due grandi categorie che sono la “musica bella” e la “musica brutta”?
- Io direi musica sincera e musica di plastica. Per me in effetti le etichette hanno perso un po’di senso, siamo molto fluidi come influenze, oggi una canzone cantautorale può avere dei bassi che arrivano dall’hip hop e quindi ha sicuramente meno senso. Queste distinzioni per carità possono servire per dire cosa ascolti, per metterti in una playlist ma di per sé ha poco senso come distinzione.
- Ci puoi anticipare qualcosa sul tuo prossimo album?
- Sì, si chiamerà “Un posto cui appartengo” che è una frase estrapolata da “Clash” che è un po’ il centro e il tema è il percorso di crescita che avviene tra i 20 e i 30 anni in cui, per me almeno è stato così, devi capire chi sei, in cui finita la scuola e iniziando a lavorare ti formi come persona, perdi degli amici, ne acquisti di nuovi e vuoi trovare un luogo che chiami “casa” e non è propriamente semplice. Per cui tutte le canzoni parlano della crescita e di tutto quello che succede crescendo. Comunque sarà anche più chiaro una volta uscito l’album.
Come ci ha detto Alessandro Forte nella sua stessa intervista vedere che sta crescendo ed acquisendo spazio una nuova leva di cantautori decisi a dare alla propria musica un senso profondo, a trattare temi sinceri e accorgersi che ci sia un pubblico che se ne innamora e li segue dà finalmente qualche speranza in un futuro migliore per la musica stessa. Intanto aspettiamo il nuovo album di Alessandro Forte per scoprire gli altri pezzi che lo comporranno e vedere in che direzione stia andando la sua arte.
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