ULTIMO TOUR SULLA LUNA


Torna il Romanzo d'Appendice sulle pagine del blog di Riserva Indie e lo fa con il nuovo libro di Ljubo Ungherelli, "Ultimo tour sulla Luna". Il romanzo è una grande satira del mondo indie italiano visto attraverso le vicende di una band, 2 Dualità, e del loro tour realizzato attraverso una campagna di crowdfundingQui sotto, sul player di Mixcloud, potete riascoltare la presentazione del romanzo di Ljubo nella puntata di Riserva Indie di Lunedì 1 Febbraio e, a seguire, tutti capitoli. Per scaricare in free download tutto il romanzo cliccate qui.



Capitolo 1
L’ebbrezza di viaggiare sulla Luna

Con la coda dell’occhio la vidi che armeggiava sullo smartphone. Fu quasi un riflesso condizionato. Si era zittita di colpo da un paio di minuti, interrompendo un monologo sullo stile architettonico a suo dire fumettistico delle fabbriche che costeggiavano quel tratto d’autostrada. Prima ancora, stava ammorbando l’abitacolo con l’ennesima sigaretta.
“Dicono qualcosa di noi?”, le domandai, annoiato dallo scenario. Nel giro di qualche decina di chilometri, boschi, montagne e gallerie avrebbero rimpiazzato in larga parte ciminiere, loghi di cartiere e cementifici e campi incolti.
“Veramente ora stavo controllando altre cose”, mi rispose lei sovrappensiero. Ma si riscosse all’istante. “Tu invece cosa stai controllando? La strada o le smagliature del mio collant?”
“Tutti uguali voi uomini”, la imitai io, canzonandola con uno dei suoi cavalli di battaglia che, a ben pensarci, poco le si addiceva.
“Guida, Guy”, mi esortò con indifferenza, prima di tornare a concentrarsi sullo schermo del telefono.
Alzai il volume dello stereo. I Violent Femmes minacciavano di pubblicare un nuovo disco. Il repertorio classico aveva sempre il suo fascino, però. Quando si chiudeva in sé stessa, non c’era che da attendere che le passasse. Finché non decideva di estraniarsi dal suo estraniamento, Vicni ed io eravamo due strade parallele. Due pianeti che ruotavano attorno alla Luna. Due dualità a distanza di sicurezza.Gettai uno sguardo al sedile accanto al mio. Ebbi l’impressione si fosse smaterializzata. Era in realtà sprofondata; già era piccolina e in quelle circostanze lo era ancor di più.
“Gioia, tutto ok?”, mi azzardai a domandare.
“Carrie… Dawson… I miei batuffoli di pelo. Chissà come staranno adesso. Tutti questi giorni senza di me…”
“Li hai lasciati a tua mamma, no? Se ne occuperà lei.”
“La mamma non è stata in grado di occuparsi di non far andare via papà con un’altra! Me li farà finire schiacciati sotto un camion! Accidenti a quando non li ho affidati a qualcuno meno irresponsabile.”
“Non devi preoccuparti, dai retta a me. O perlomeno, se ti preoccupi tu, io dovrei avere attacchi di panico ogni cinque minuti se penso alla mia Sheena.”
“Sheena è la regina della giungla?”
“No, Sheena è una punk rocker. Oltre che una micia adorabile. E ho dovuto alloggiarla a casa di mia sorella più grande, e soprattutto di quel bestione del suo fidanzato. Io ti farei vedere il soggetto. Un bomber patentato che a trent’anni passa ancora le giornate ai giardinetti insieme ai suoi degni amici. Mia sorella non poteva che cedere al suo irresistibile fascino da avanzo di galera. Povera Sheena. Il tempo di abbassare la guardia mezzo minuto e quello me la scuoia viva e la vende a tranci ai cinesi.”
Si accese un’altra sigaretta.
“Se già il primo giorno fumi a nastro, tra una settimana qua dentro l’aria si sarà solidificata. I tizi della Luna ci faranno un cazziatone quando gliela riportiamo esalante nicotina anche dalle guarnizioni.”
“Quelli là ci devono solo ringraziare”, sentenziò Vicni con la vocina pedante che sfoderava per impartirmi grandi lezioni di vita. “Un gruppo famoso va a giro sul loro pidocchioso minivan, su e giù per le strade di tutta Italia a sbandierare la sigla ‘Autonoleggio La Luna’ che quei megalomani hanno appiccicato davanti, dietro e su tutt’e due le fiancate, insomma gli facciamo un casino di pubblicità, e vorrebbero aver da ridire per un paio di sigarette?”
“Fatina, non credo la loro concezione di gruppo famoso vada molto più lontano dei Pooh.”
“Problemi loro. Facciano una ricerca su Google. Dovrebbero ringraziarci in ginocchio se ci spostiamo a bordo di uno dei loro catorci”, insisté.
“Ci spostiamo a bordo di uno dei loro catorci perché non ci possiamo permettere nulla di meglio”, le feci notare, cozzando contro le sue sparate sul gruppo famoso. “E poi io ci sono affezionato alla Luna. Si lascia guidare, ci puoi caricare tutto l’occorrente e ci rimane un sacco di spazio vitale. Senza contare l’ebbrezza di viaggiare sulla Luna!”
“Ma quale ebbrezza. Io sono affezionata a quello che stiamo portando avanti insieme. Ai risultati che abbiamo ottenuto finora. A chi sta credendo in tutto questo.”
“Ci stanno credendo perché tutte le cose che hai appena elencato funzionano. Perché ne vale la pena. Perché nessuno ha mai osato proporsi con questa convinzione come la risposta italiana ai White Stripes.”
“Anche se noi con i White Stripes non c’entriamo un accidente!“Appunto. Ma nessuno ci fa caso. I White Stripes sono finiti da secoli. La gente qui da noi si ricorda il coretto, i mondiali di calcio, l’uomo e la donna. Il resto sono dettagli. Il genere musicale, la strumentazione… dettagli, banalissimi dettagli di nessun peso. Un paio d’ingredienti vagamente simili e puoi convincere chiunque!”
Vicni abbozzò un sorriso, per quanto non convintissimo. Con la sua testa corvina e le stimmate dark disseminate in un corpo esile e minuto, piuttosto che la metà femminile dei White Stripes, pareva una Christina Ricci poco più che adolescente. Certe volte dubitavo avesse realmente ventisei anni.
“Beato te che credi ciecamente in queste trovate di marketing da strapazzo”, aggiunse poi, increspando il sorriso fino a trasformarlo in un broncio.
“I fatti ci danno ragione. L’importante è dare al pubblico due o tre cosine di cui parlare, su cui costruire un minimo d’immaginario. I White Stripes, nel nostro caso, erano il punto di partenza. Da lì abbiamo tirato su il nostro universo, restando in quella scia ma riuscendo a distinguerci. Tu per esempio suoni molto meglio di Meg White. Io invece sono molto meno figo di Jack White; però in compenso sono molto più scarso di lui come chitarrista. E poi…
“E poi essendo in due ci risulta molto più semplice trovare ingaggi per i live”, cantilenò lei, interrompendomi. Di solito mi rinfacciava questa mia uscita nei periodi di ristagno dell’attività concertistica.
“Preciso. Al momento, la situazione dei locali italiani dove si suona dal vivo si commenta da sé. Un gruppo come il nostro lo puoi proporre tranquillamente nelle più svariate situazioni. Dal centro sociale al locale pseudofighetto in orario da aperitivo. Due è il numero perfetto!”
“Però se tutti ragionassero così, dovrebbe esserci molta più concorrenza. Fai conto che una band di quattro elementi si sciolga. Dalle ceneri della band nascono un duo e un solista, e mettiamo pure che il quarto si dedica ad altro. Se da ogni gruppo vengono fuori altri due o tre progetti, sarà il caos più totale!”
“Eh? Cos’è, l’albero genealogico dei falliti dell’indie italiano?! Di questo passo, il prossimo tour lo faccio con una street band di otto elementi anziché con un’aspirante prof di matematica!”
Intanto, la cartellonistica autostradale e il navigatore segnalavano che ci stavamo avvicinando alla nostra destinazione. Il cielo era scuro e il clima aspro, ma i nostri cuori battevano forte in previsione di ciò che ci attendeva.
“Questo tour sarà radicale distruttivo!”, esclamai, vedendo un numero di chilometri inferiore ai dieci sotto il nome dell’uscita che dovevamo imboccare.
“Mi piace!”, fece lei di rimando. Era il suo grido di battaglia da stacanovista dei social network. Alzò il pollice per ribadire. Il suo smalto nero non rendeva l’idea del ditone celeste di Facebook, ma per me andava bene.
Adoravo quella ragazza. Le sue diecimila complicanze non m’impedivano di adorarla. Quella storia dei White Stripes italiani, sì, era una forzatura, buttata lì per farci pubblicità, per creare hype. Ma io mi ero ormai convinto che potessimo in qualche modo ripercorrere le loro orme, con le debite proporzioni all’interno di quel microcosmo musicale ristretto di numeri e di vedute che era l’indie italiano.
E chissà com’erano le tournée dei White Stripes agli esordi. Chissà di cosa parlavano Meg e Jack durante gli spostamenti in furgone da una città all’altra. Chissà se erano davvero (ex) marito e (ex) moglie che facevano finta d’essere fratello e sorella, stratagemma che anche noi cercavamo di portare avanti. Chissà se invece erano tali e quali a noi due.
Il motore della Luna a pieno carico fece qualche rumore non granché rassicurante, mentre scalavo le marce per uscire dall’autostrada e pagare il casello. Feci un gran sorriso al tipo dietro lo sportello, che si guardò bene dal ricambiare. Prese i soldi, mi dette gli spiccioli di resto e tirò su la sbarra. Tutto senza dire una parola né degnarmi d’uno sguardo. Vicni non protestò perché avevo scelto di perder tempo da quello zombi anziché usare la carta di credito in una delle tante casse automatiche con l’ingresso a strisce blu sull’asfalto. Anche lei sentiva l’adrenalina entrare in circolo. Il gioco stava per iniziare.
La prima data del minitour italiano di 2 Dualità era in programma quel giovedì sera a Genova.


Capitolo 2
Conoscendoti sarà una lunga serie

La Luna approdò nello spiazzo buio e acquitrinoso che era il parcheggio sul retro del Sandy’s, locale genovese che avrebbe ospitato il primo dei loro sette concerti.
“Fermo lì!”, intimò Vicni a Guy, il quale, sceso dal minivan, si apprestava a dirigersi dentro. “Dobbiamo farci una foto di trionfo annunciato da condividere su Instagram, Facebook e Twitter per ricordare al nostro pubblico che esistiamo e stiamo per dare il via a un supertour!”
“Nemmeno il tempo di sgranchirmi le gambe, che sono già chiamato al primo shooting di quella che conoscendoti sarà una lunga serie?”
“Non è il primo, sciocchino. Una foto l’ho già condivisa un paio d’ore fa, cosa credi? Un bello scorcio di cavalli al pascolo sul lato dell’autostrada. Bello ma sfocato. Ora prendi per l’orecchio quel tipo appena uscito ciondolante dal locale, ficcagli in mano il mio smartphone e digli di farci una foto qui davanti al furgone. E mettiamoci in modo da coprire quel cavolo di logo della Luna!”
“Certo sei proprio una professionista dello spam! E a livelli ossessivi!”
“A ognuno il suo. D’altronde, voi uomini siete interessati più che altro alla virilità. A me invece interessa la viralità!”
Erano quattro anni che il progetto 2 Dualità era in piedi. Guy all’epoca era appena diciannovenne ma, cresciuto in un ambiente familiare con più musicisti che parenti, si era avvicinato giovanissimo alle sette note e poteva già vantare una notevole esperienza in vari gruppi di zona.
Una sera era stato invitato a provare con una band di amici fresca di separazione dal bassista. Lui, che si dilettava con diversi strumenti a corda, aveva accettato, e al momento di tornarsene a casa era un membro effettivo del quartetto. Suonavano un indie folk che era abbastanza in auge, e per questo nutrivano l’ambizione di emanciparsi dalla loro nicchia provinciale, che gli consentiva comunque di suonare parecchio nel circondario.
Fatto sta che quel gruppo, quattro anni più tardi, era ufficialmente ancora attivo, benché i tentativi di allargare il giro fossero stati vani e all’orizzonte non vi fosse null’altro se non un paio di concerti al mese nei soliti posti dove si esibivano da sempre.
Viceversa, la sezione ritmica, riscontrata un’intesa musicale e personale, aveva dato vita a quello che inizialmente era un progetto parallelo “da cameretta”, che permettesse alla percussionista e al nuovo bassista di sperimentare sonorità alternative a quelle della band in cui militavano.
Guy e Vicni avevano così iniziato a incontrarsi nella medesima sala prove del gruppo madre. Parlavano di gatti, della frustrazione per l’inconcludenza del gruppo, di ciò che avrebbero desiderato fare “da grandi” (ossia di lì a pochi mesi). E soprattutto suonavano, alla ricerca di un’identità che li definisse.
Tante erano le cose che li univano, quante quelle che li dividevano. Lei era umorale, cinica, talvolta intrattabile per quanto sapesse essere dolce e comprensiva. Lui cercava in modo finanche eccessivo di apparire cazzone, di non prendersi sul serio, nonché di mantenere un contegno equilibrato, che però tradiva una vivacità che, sovreccitata dall’alcol, tendeva a renderlo arrembante.
Il nome che si erano scelti, 2 Dualità, ne inquadrava bene affinità e contraddizioni. Lavorando tanto sulla musica quanto sui loro personaggi, erano riusciti ad abbattere qualche barriera che all’altro loro gruppo appariva insormontabile, in primis farsi conoscere fuori dalle mura cittadine. Pervasi da una costante tensione emotiva, intellettuale e artistica, si erano evoluti da piacevole passatempo ad attività primaria.
I primi singoli, “La luna di ieri” e il lentone “Continua”, non erano passati inosservati. Alcune webzine li avevano elogiati in sede di recensione, e una di esse li aveva addirittura chiamati a suonare (seppure in uno slot di rincalzo) in una rassegna che patrocinava ogni estate con discreto clamore mediatico.
I due ragazzi, colti sulle prime alla sprovvista, avevano poi cavalcato l’onda con disinvoltura. Concerti, interviste, la realizzazione dell’omonimo album d’esordio, autoprodotto ma patrocinato dalla struttura che nel frattempo li aveva presi in cura, e fungeva con i rispettivi referenti da etichetta discografica, ufficio stampa e booking. Si trattava pur sempre di numeri esigui in termini di vendite, ma erano numeri in crescita, e gli stavano procurando una certa credibilità nell’ambiente cosiddetto indie. Credibilità rincarata da un’assidua presenza live e social, col pubblico reale e virtuale tenuto sulla corda dalla pubblicazione dell’EP didascalicamente intitolato “Gioco esteso”, che raccoglieva i primi quattro singoli, “Asma cardiaca” e “Mangiatori di loto” oltre a “La luna di ieri” e “Continua”.
L’imberbe cantautore western con le pistole giocattolo legate alla vita e la camicia sbottonata per metà, e al suo fianco la presunta sorella–amante, una psicotica dark lady che univa a una scabrosa sensualità il talento di polistrumentista non convenzionale. Funzionava, con buona pace dei pretestuosi accostamenti con i White Stripes, peraltro fomentati da loro stessi.
Con la pubblicazione del secondo disco, “Due di coppia”, il duo aveva deciso di alzare ulteriormente l’asticella. Mentre fioccavano recensioni entusiastiche, spesso manovrate dall’ufficio stampa, che a colpi di conflitti d’interesse s’insinuava nelle redazioni per ottenere voti elevati ed elogi da critici compiacenti, e i concerti erano numerosi, sia nei locali in primavera, sia in sagre e festival estivi, 2 Dualità avevano lanciato una curiosa iniziativa: una campagna di crowdfunding per portare la band in tour per una settimana filata. Al bando i tautologici live del weekend, baldoria venerdì e sabato e mortorio gli altri giorni: loro avrebbero suonato ogni sera!
Come prima mossa, i fan erano stati chiamati a votare via Facebook e Twitter il luogo dove avrebbero voluto assistere a un’esibizione del gruppo, così da localizzare sette zone d’Italia dove 2 Dualità avrebbero avuto terreno più fertile per organizzare i concerti. A quel punto, era partito il crowdfunding vero e proprio: erano stati creati sette “gruppi d’interesse locale”, ossia dei fan club virtuali nelle cui casse era possibile donare i soldi necessari all’ingaggio della band in una delle aree votate tramite il sondaggio sui social network. Se anche una sola delle sette collette non avesse raggiunto il 100%, l’intero tour non avrebbe avuto luogo. Ma trattandosi di cifre non esorbitanti, e orchestrando un efficace battage online, 2 Dualità erano riusciti a raggiungere e superare l’obiettivo, coprendo in massima parte le spese che avrebbero dovuto sostenere, incluso il loro cachet.
Naturalmente, coloro che avevano finanziato il tour avrebbero ricevuto in cambio svariate ricompense a seconda di quanto avevano versato. C’erano i premi più scontati e banali, dischi, magliette e altri gadget, così come ingressi omaggio ai concerti, fino alla cena assieme alla band prima del live. Non mancavano neppure retribuzioni più originali, quali la possibilità d’essere riportati a casa dopo il concerto a bordo della Luna (purché in un raggio di 20 chilometri dal locale), o quella di salire sul palco per una non ben precisata “performance estemporanea”. Gli amici degli animali potevano poi scegliere di ricevere a domicilio una fornitura di cibo per gatti griffata 2 Dualità, il cui logo veniva apposto su normalissime scatolette da discount.
Infine, per cifre astronomiche, ai fan di sesso maschile era concessa l’opportunità di godere di un lungo bacio in bocca con la lingua da parte di Guy. Allo stesso prezzo, le fan di sesso femminile potevano ricevere analogo trattamento da parte di Vicni.
A domandare di chi fosse stata l’idea, ogni membro del gruppo e del suo entourage ne avrebbe rivendicato la paternità: in realtà, il piano era stato messo a punto in maniera progressiva col contributo di tutti. Vicni aveva apposto la prima pietra, sostenendo che per il livello che avevano raggiunto, era il momento giusto per giocarsi la carta del crowdfunding, divenuto strumento basilare di sopravvivenza per gli artisti indipendenti, privi del supporto di una discografia estinta al pari dei dinosauri e della capigliatura mullet.
Il “Tour sulla Luna”, com’era stato ribattezzato, partiva da Genova e doveva rivelarsi un successo. Dalle riunioni che avevano tenuto nell’ufficio del management, era emerso che quel breve giro di concerti aveva maggior rilievo rispetto al cruciale terzo disco, che pure avrebbe dovuto rappresentare la loro consacrazione e al quale avrebbero iniziato a lavorare nei mesi successivi.
Intanto, là fuori era soprattutto un senso di desolazione ad avvolgere lo scenario. Guy si riscosse al pensiero che di lì a qualche ora l’atmosfera sarebbe stata calda e frenetica. La musica, la gente che ballava e beveva, le ragazze, e i ragazzi. Vicni era invece assorta nella digitazione sul touch screen del suo prezioso cellulare.
Guy le accarezzò la testa, com’era uso fare con la sua gatta Sheena. Distolta dallo smartphone, fu pronta ad aiutarlo a scaricare strumenti e quant’altro e portare tutto nel locale per montare il palco.
“Due!”, gridò, lanciando in aria la custodia della chitarra e riprendendola al volo con studiata leggiadria.

“Dualità!”, fece di rimando lei, e gettò in avanti il trolley a guisa di palla da bowling. Quello, percorso qualche metro in linea nemmeno troppo retta, si accasciò al suolo, in attesa che la proprietaria lo raggiungesse e lo conducesse al sicuro in camerino.


Capitolo 3
L’imminente chiamata alle armi

Vicni era alle prese col caffè. Per fortuna il bar del Sandy’s era in funzione. Non di rado, si erano presentati in orario in locali dove non c’era neppure il fonico al loro arrivo.
“Ciao!”, si sentì gridare all’orecchio sinistro. Non c’era musica di sottofondo né altri rumori, perciò quel tono era del tutto ingiustificato. Voltandosi in direzione del seccatore, inquadrò un ragazzetto all’apparenza poco più che ventenne, sorridente, rosso, lentigginoso, lo sguardo stralunato e una plateale faccia da schiaffi. Vicni sapeva che fino a un certo limite doveva essere condiscendente con gli addetti ai lavori. E uno che alle sette di sera imperversava in posto lugubre e semivuoto, o lo era, o non aveva un cazzo da fare nella vita. O entrambe le cose: una non escludeva l’altra.
“Piacere, Vicni”, gli disse, accompagnandosi con una debole stretta di mano.
“Vicky?”, domandò Vuligno, con gli occhi ancor più sgranati.
No. Vicni”, ripeté lei.
“Certo, Vicni. Io sono il direttore artistico del Sandy’s, faccio la programmazione delle serate, quest’anno sicuramente…”
“Hai partecipato anche alla campagna di crowdfunding”, lo interruppe con voce neutra. Sospettava che quello lì non avesse la benché minima idea di chi fossero 2 Dualità. La data, in effetti, era stata chiusa con la semplicità con cui un gruppo abbastanza noto si propone senza richiedere un compenso, pagato in anticipo dai fan tramite l’azionariato popolare. A lui, invece, si doveva senz’altro la brillante pensata di un coheadlining con un gruppo della città. Infatti non mancò di ascriversene i meriti.
“Sì, sì…”, cincischiò, salvo poi risollevarsi grazie alla parlantina da teleimbonitore sotto anfetamine. “Stasera mi piaceva l’idea di abbinare colori diversi, sfumature diverse. Per questo ho chiamato gli Agnelli Tonnati, sicuramente li conoscerai, almeno di nome, sono tra i migliori nel pop d’autore, quello che si rifà alla famosa scuola genovese. Ancora non sono riusciti a farsi conoscere a livello nazionale, ma qui sono sicuramente dei campioni!”
“Tu invece non sei di qui”, lo interruppe ancora Vicni. Le sue chiose glaciali non avevano però il potere di smontare Vuligno, che proseguì con l’impeto di un fiume in piena.
“Si sente dall’accento, vero? Vengo dalle Marche, dall’entroterra marchigiano. Non ti sto nemmeno a dire il nome del paesino dove sono nato, non l’avrai mai sentito prima d’ora. Ma non sono il classico studente fuorisede come puoi pensare.”
E Vuligno prese a descriverle le vicissitudini che l’avevano portato a trasferirsi a Genova. Avrebbe potuto riassumere all’osso dichiarando che aveva seguito una ragazza conosciuta in vacanza sul litorale marchigiano e, non volendosi lei giustamente andare a rinchiudere in un borgo sperduto tra Macerata e il deserto dei tartari, era stato lui a doversi spostare. Ma preferì prenderla larghissima, partendo dai suoi nonni, contadini illuminati che quand’era piccolo lo portavano tutta l’estate al mare, in una zona che a suo dire non aveva nulla da invidiare alla più celebrata riviera romagnola.
Nel frattempo, Guy aveva trasbordato la strumentazione sottopalco e stava parlottando col fonico. Vicni invocò dentro di sé l’imminente chiamata alle armi, cioè al soundcheck, ma nulla si muoveva e rimase in balia del logorroico promoter. Oltre alla stucchevole abitudine di fare le domande e darsi le risposte da solo, Vuligno assalì Vicni con una miriade di profferte. La benedizione sopraggiunse con l’entrata in scena degli Agnelli Tonnati, che alla spicciolata fecero la loro apparizione nella sala concerti. Vuligno si fiondò al loro capezzale, non prima d’aver ripetuto per la ventinovesima volta che se Vicni abbisognava di qualcosa, bastava chiedesse a lui.
“Così di primo acchito, il fonico non promette nulla di buono”, le sussurrò Guy, avvicinandola mentre il resto del Sandy’s era dedito a stendere ponti d’oro al passaggio degli Agnelli Tonnati.
“Tossico? Alcolizzato? Sessuofobico?”, domandò Vicni.
“La due e la tre, molto probabili. Il problema più grosso, però, è che non pare granché collaborativo.”
“Non ha voglia di fare un cazzo”, tradusse lei.
“Ho paura di sì. È il classico ligure sfavato, con addosso tanta di quella rassegnazione al destino che nulla può smuoverlo. Il ricciolino, che dice?”
“Troppe cose, e nessuna interessante. Appena i fenomeni avranno portato dentro la loro roba, noi potremmo iniziare il check, così poi ce ne andiamo a cena. Abbiamo due dei nostri fan che hanno scelto come ricompensa il pacchetto ‘cd autografato+ingresso omaggio a un concerto+cena preconcerto insieme alla band’.”
“Solo due? Sbaglio o ce n’erano di più?”, si stupì Guy, che demandava in massima parte le pubbliche relazioni telematiche alla collega.
“Sarebbero stati cinque. Ho provato a contattare gli altri tre. Una non ha risposto, un altro ha detto che non ce la fa per cena ma arriva direttamente per il concerto, il terzo non può venire perché è malato e ci fa gli auguri.”
“Ci fa gli auguri di ammalarci anche noi? Grazie tante! Io mi tocco… A che ora gli hai detto di venire a quei due della cena?”
“Le otto e mezzo… ma gli ho consigliato di prendersela comoda.”
“Mi sai che hai fatto bene, tesoruccio. Sì?”
Furono convocati a rapporto da Vuligno. Si radunarono più o meno in cerchio. Oltre al giovane direttore artistico, c’erano il fonico, che sprigionava l’entusiasmo di una larva dentro un sarcofago, e i quattro componenti degli Agnelli Tonnati. Sbrigate in fretta le presentazioni, Vuligno venne al dunque.
“Bene ragazzi, ci sarebbe da decidere chi suona per primo.”
“Mi sembrava che fosse stato deciso da un pezzo”, disse con la massima calma Vicni. Seguirono alcuni istanti di imbarazzato silenzio.
“Sì, cioè…”, riprese Vuligno, per una volta non sostenuto dalla sua irruenza retorica. “Gli Agnelli Tonnati pensavano che sarebbe meglio se loro suonano dopo di voi.”
Con abilità da medaglia olimpica nello sport nazionalpopolare dello scaricabarile, Vuligno aveva mollato la patata bollente in mano ad altri. Fu diabolicamente abile a sfilarsi dal resto del conciliabolo.
“E perché?”, si limitò a chiedere Guy.
Belìn, noi qui a Genova siamo gli animatori della festa, ogni concerto è un’esperienza mistica. E mitica. E il nostro pubblico è una parte importante della festa, non se la perde mai. Belandi, se suonate prima di noi, ci sarà tutto il nostro pubblico a vedervi. Invece, se apriamo noi, c’è il rischio che il nostro pubblico poi va via e non rimane quando tocca a voi suonare. Per questo abbiamo pensato questa cosa.”
Ezio Dell’Ultimo, in arte Ulvezio, era il cantante, frontman e leader degli Agnelli Tonnati. Per essere un animatore di feste, era sfavato quasi al livello del fonico. Portava gli occhiali, era tarchiato e aveva una fisionomia anonima, dozzinale, benché cercasse di atteggiarsi a bel tenebroso. Si era sfilato la giacca e la teneva sottobraccio, scoprendo così una spiegazzata camicia da viveur che, c’era da giurarci, sarebbe stata la sua divisa da concerto.
“Sai che non hai tutti i torti? Però se suoniamo prima di voi, c’è il rischio che tutta la gente inorridita scappi via e non rimanga nessuno quando tocca a voi suonare”, se la rise Guy, fingendo di voler sdrammatizzare. In realtà, preferiva parlare lui, sapendo che un’uscita fumantina di Vicni era dietro l’angolo e avrebbe solo aggravato la situazione.
“No, macché, siete bravissimi voi, lo sappiamo…”, balbettò Ulvezio, colto alla sprovvista dal basso profilo tenuto dal cantante del gruppo cui voleva far le scarpe. Quest’ultimo ne approfittò per colpire di rimessa e stroncare le flebili argomentazioni del rivale.
“Noi andiamo a fare il check”, concluse asciutto Guy, allontanandosi assieme a Vicni. Nessuno tentò di controbattere. Primo round vinto.
Come paventato, il soundcheck fu un martirio. Ogni richiesta al fonico pareva un’offesa personale, atta a ledere il suo indefesso fancazzismo. Impiegarono un’ora prima di lasciare il campo agli Agnelli Tonnati, che in quanto gruppo d’apertura erano di prassi gli ultimi a fare il soundcheck.
Il pop rock degli Agnelli Tonnati era contraddistinto, oltre che da sonorità leggere da canzonetta dell’estate, da una vena ironica nei testi, che erano sostanzialmente storie d’amore descritte in chiave adolescenziale e nostalgica, sempre appunto con quel pizzico di leggerezza che ricercava con insistenza il tormentone. Ricerca che proseguiva, dato che per il momento la band genovese non pareva avere in repertorio una sola canzone che potesse assurgere a singolo. Tutto era piatto, dai giri armonici ai ritornelli, fino alla voce di Ulvezio. Se ne sentivano a decine, di cantanti impostati in quel modo, col tono basso da crooner che si apriva, ma non più di tanto, durante i refrain.
“Guy, sono arrivati i ragazzi della cena”, annunciò Vicni, ricomparendo al suo fianco dopo un buon quarto d’ora.
“Arrivo!”, esclamò sollevato lui, ponendo fine all’ascolto delle prove degli Agnelli Tonnati. Già le canzoni erano tutt’altro che memorabili. Seguirli che facevano i suoni rasentava il masochismo.
Guy sorrise andando incontro ai due ragazzi, che evidentemente si conoscevano tra loro. I loro nickname sulla piattaforma di crowdfunding erano “Il custode del faro” e “Il custode del faraone”. Si presentarono altresì come Ormezio e Urmezio. Erano entrambi gracili e macilenti, sebbene millantassero di lavorare come portuali. Amici e colleghi, nonché fan di 2 Dualità. Vicni, che era la regina della comunicazione social, lasciò che fosse Guy a tener banco.
“Belli! Fatevi dare un bacio!”, esordì sfoderando il suo fascino di aspirante rockstar con un’innata fiducia nei propri mezzi.
“Allora, si mangia?”, incalzò ancora, rivolto però a Vicni.
“Se ero la tua cuoca personale, mi ero licenziata prima ancora di mettere i coperti in tavola”, ribatté lei.
“Se eri la mia cuoca personale, ero ricoverato in ospedale con seri principi d’avvelenamento”, sparò lui per offrire una battuta a effetto ai nuovi arrivati.
Richiamati dall’odore del sugo di pomodoro, lo seguirono fino a una sottospecie di privè. La qualità del cibo era giusto di poco superiore a quella delle mense militari o degli ospedali. Guy tergiversò a lungo, muovendo la forchetta a vuoto sopra il piatto, e perché non molto stimolato da ciò che vi era dentro, e per chiacchierare con i fan.
Guy e Vicni se la svignarono non appena gli Agnelli Tonnati fecero capolino. Ormezio e Urmezio rimasero imbambolati, indecisi sul da farsi. Infine seguirono i musicisti nell’area fumatori. Mancava ancora tantissimo tempo prima dell’inizio della serata. Guy era di buonumore, merito anche dell’alcol ingollato durante il pasto.
“Sarà un concerto radicale distruttivo, ve lo promettiamo! Grazie di esserci, ragazzi, il vostro sostegno è la nostra linfa vitale!”
E li strinse a sé, ciascuno con un braccio. Il tutt’altro che corpulento Guy pareva un colosso in confronto a quegli scriccioli sedicenti scaricatori di porto.



Capitolo 4
Nella bolgia dei nuovi idoli adolescenziali

“Hanno finito, grazie al cielo in terra.”
Il sollievo di Vicni era comunque distratto dalla contemplazione compulsiva dello smartphone.
“Duecentododici partecipanti confermati”, mormorò scorrendo la pagina dell’evento su Facebook. “Quanta gente ci sarà stata in sala mentre suonavano gli Agnelli Tonnati? Una sessantina?”
“Più o meno”, concordò Guy. “E una ventina fuori a fumare. E quelli che devono ancora arrivare. E quelli che arriveranno dopo che avremo finito.”
Si erano rintanati in camerino dopo aver seguito metà abbondante del concerto degli Agnelli Tonnati. Il Sandy’s non era enorme, cosicché il colpo d’occhio era lusinghiero anche con un’affluenza non da tutto esaurito.
Ulvezio, come prevedibile, si era esibito con la medesima camicia che aveva a inizio serata. Solo gli occhiali erano spariti. Per il resto, cercava di gigioneggiare tra un brano e l’altro, raccontando storielle sconnesse dalle canzoni che precedevano e seguivano i suoi monologhi. L’esecuzione di tutta la band, invece, era piuttosto formale e didascalica.
Il problema degli Agnelli Tonnati era l’esasperato adeguamento ai dogmi dell’indie tricolore: suonavano, cantavano e somigliavano ad altri triliardi di gruppi e, cosa peggiore, non avevano nulla che li facesse spiccare. Facevano bene il loro compitino, intrattenevano il pubblico e fine.
2 Dualità, paradossalmente, soffrivano del problema opposto. La loro miscela d’influenze era fin troppo eclettica, tanto che il management spingeva perché definissero il sound in una direzione meglio delineata. E tale direzione avrebbe preferibilmente dovuto esser più confacente agli ascolti basilari del pubblico indie.
Partendo dal garage rock’n’roll più essenziale, Guy e Vicni avevano iniziato ad arricchire le composizioni con uno spruzzo di folk danzereccio che tanto andava nelle feste universitarie, rivestito da una patina electro, grazie alle tastierine synth lo-fi e ai campioni che Vicni manovrava unitamente alle bacchette della batteria.
A decretare la loro maggior fortuna, tuttavia, era stato senz’altro l’innesto di furbeschi ritornelli melodici, retaggio della migliore o peggiore tradizione del pop italiano da classifica. Guy si divertiva un sacco a scrivere in quel modo, gli riusciva facile e non aveva remore nell’esplorare un mondo che né lui né nessuno nella sua famiglia o nel suo giro aveva mai apprezzato più di tanto.
Non a caso, le recensioni si focalizzavano su quell’aspetto: due righe sulle sonorità sgangherate e vagamente vintage, sugli intrecci di voci maschile e femminile, quindi partiva il florilegio sul potenziale “da classifica” di alcuni pezzi, uno su tutti “Quasi uguali quasi diversi”, che aveva beneficiato di svariati passaggi radiofonici e figurava in qualche dj set alternativo.
Spesso veniva adombrato il ragionamento secondo cui, con i debiti aggiustamenti e una produzione di un certo tipo, 2 Dualità avrebbero potuto lanciarsi a capofitto nella bolgia dei nuovi idoli adolescenziali che si davano il cambio ogni tot mesi. Quella strada, in Italia, passava soprattutto per i talent show. Ne avevano discusso, non escludendo nulla. La barzelletta dell’indie italiano era proprio l’essere underground per necessità e non per convinzione, pronti a tutto per saltare sul carrozzone qualora ve ne fosse l’opportunità.
Il riflusso che dai tardi Ottanta alla prima metà dei Novanta aveva condotto alla situazione degli anni Dieci del nuovo millennio era impressionante: in Italia, il sottobosco musicale era dominato da gente che suonava tale e quale a chi stava nel mainstream. Quasi nessuno si azzardava a proporre sonorità meno standard, e chi lo faceva, era bacchettato come anacronistico e bisognoso di un rapido svecchiamento per destare l’interesse del pubblico. Gli unici in grado di sopravvivere erano i nomi già affermati da anni, il cui status gli consentiva di campare di rendita delle glorie passate. Se viceversa mettevi su una band nel 2016, o facevi indie o cantautorato o avevi le gambe segate.
“Per sempre! O finché dura!”, esclamò Guy. Erano pronti a salire sul palco. Già da qualche ora vi avevano apposto il loro fondale, un drappo nero col nome del gruppo scritto in caratteri dorati. Alle estremità stavano le teste di due gatti, ciascuno di profilo rivolto verso l’interno, con le fauci spalancate, come fossero in procinto di papparsi 2 Dualità in un sol boccone.
Proseguendo nel rituale, porse entrambe le mani a Vicni, che gliele strinse, quindi ne lasciò libera una. Mano nella mano, senza quasi rendersene conto si ritrovarono di fronte al pubblico.
“Ehi!”, esordì Guy a mo’ di prova microfono. Quindi imbracciò la chitarra e senza ulteriori cerimonie si girò verso Vicni e attese che lei battesse il tempo con i quattro canonici colpi di bacchetta.
La lunga permanenza in camerino gli era servita anche per cambiarsi e indossare i vestiti di scena. Guy si era portato dietro una camicia diversa per ognuno dei sette concerti. Al Sandy’s di Genova ne sfoggiò una di seta rossa, con solo il bottone più in basso attaccato, di modo da scoprire il torace rifinito e bianco. A ventitré anni era glabro come un dodicenne. Il suo look da uomo vissuto intrappolato nel corpo di un ragazzino piaceva alle ragazze, e la sua posizione di frontman lo avrebbe senz’altro agevolato in tal senso.
In testa aveva un improbabile cappello da cowboy, calato stretto sulla fronte temendo gli cadesse mentre suonava. Sotto, pantaloni neri di pelle attillati. Ne aveva visti portare di simili a Jon Spencer e Courtney Love.
Vicni, che sedeva alla sua sinistra, per il debutto aveva optato per uno dei tre look che avrebbe alternato durante il tour. Nient’altro che una corta sottoveste nera; spalle, gambe e decolleté erano ben in vista. Le scarpe col tacco non erano il massimo per suonare la batteria, ma ormai c’era abituata. Il trucco era abbastanza ordinario, nero intorno agli occhi e rosso fuoco sulle labbra.
Suonarono tre pezzi senza soluzione di continuità, quindi fecero una pausa. Guy si tolse il cappello, facendo al contempo un inchino al pubblico che li stava applaudendo, quindi si rassettò i capelli con la mano. Vicni si alzò dal suo sgabello e lanciò degli sguardi conturbanti in direzione delle prime file, che pure si tenevano a distanza di tre–quattro metri dal palco.
Riattaccarono con intensità ancora superiore. Avevano impostato la scaletta di modo che i cinquanta minuti di concerto fossero un ottovolante di ritmi e atmosfere. Con i primi due brani erano andati in crescendo, pigiando sul lato più rock’n’roll, per poi piazzare un ballabile elettronico e, a seguire, un episodio più smaccatamente pop e una disorganica ballata lo-fi, “Asma cardiaca”, dove la vocina squillante di Vicni si elevava a cantante principale, mentre il comparto strumentale era costituito da ukulele, tastiera e un quasi impercettibile loop di batteria elettronica.
Come ovvia logica commerciale, avevano proposto canzoni per lo più da “Due di coppia”, concedendo meno spazio al disco d’esordio.
I presenti avevano applaudito, con compostezza, restandosene per lo più fermi, a parte chi andava e veniva da bar e/o area fumatori. Ordinaria amministrazione in situazioni del genere.
 “Quasi uguali quasi diversi” era posizionata al terzultimo posto, una sorta di chiusura del set regolare prima dell’uscita e del ritorno per il bis. Guy aveva prolungato la coda strumentale in stile anni Settanta. Vicni l’aveva seguito in quella sorta di jam, fino al dissonante feedback conclusivo. A quel punto, anziché salutare e tornare dietro le quinte, 2 Dualità avevano proseguito con ciò che restava della scaletta.
“Continua”, una ballata piano e voce che mostrava il lato più romantico del Guy compositore, era sfumata nei power chord del pezzo che portava il loro nome. Vicni doveva frettolosamente suonare le ultime note di “Continua” e rimettersi in posizione per quell’ultima, poderosa cavalcata. “2 Dualità” rappresentava l’impeto del progetto agli esordi, la rabbia quasi violenta per demarcare le differenze col loro gruppo indie folk. Eppure, già in quell’embrione deflagrava la sagacia di Guy nell’inzuppare un brano punk in una melodia cristallina.
Con Vicni di nuovo in piedi, sexy e ammiccante, e Guy che sorrideva con candore, tenendo la chitarra dritta parallela al corpo, 2 Dualità incassarono l’ultimo applauso. Ogni volta la botta d’adrenalina era micidiale. Rincularono nel camerino barcollando, accaldati e stanchi. Si scambiarono uno sguardo d’intesa, soddisfatti e pronti a ciò che rimaneva della serata.
Il tempo di darsi una rinfrescata, che uscirono per allestire il banchetto del merchandising e incontrare i fan. Al solito, fu Guy ad andare in avanscoperta, mentre Vicni si attardava sempre qualche minuto in più nel backstage.
Lo raggiunse nell’anticamera del Sandy’s dove, con una buona illuminazione e il dj set ovattato, birra alla mano, era già dietro al tavolino imbandito con dischi, magliette, spille, adesivi e scatolette di cibo per gatti.
Prima di lei, però, si precipitò un ragazzo ad approcciarlo.
“Grande Gài, complimenti!”, gli disse il tipo, porgendogli la mano.
Ghì”, replicò compostamente, ricambiando la stretta di mano, “alla francese, come Guy Pardies, hai presente?”
“Gerard Guypardies”, chiosò Vicni, incombendo alle spalle del fan con quel calembour privo di senso.
“Eh?”, fece quello, girandosi in direzione della ragazza.
“Poppa”, poté leggere lei sulle labbra di Guy. Sorrise, e il tipo, ignaro di tutto, credette forse fosse rivolto a lui.
“Seratona!”, riprese Guy con entusiasmo, catturando di nuovo l’attenzione del ragazzo, “e come si suol dire, è solo l’inizio! Dimmi un po’, sei di Genova o arrivi da fuori?”



Capitolo 5
Gridava al culto dell’oscurità

Il Down By Law di Madonna dell’Acqua, un paesino sperduto nei dintorni di Pisa, era il classico posto che più lo cerchi, meno riesci a trovarlo. Invisibile dalla strada, ci si arrivava prendendo una viuzza sterrata che pareva portare a un terreno agricolo, mentre finiva davanti all’edificio solitario che era la nostra destinazione. Non male come scenario del nostro secondo concerto. Con gran sorpresa, dato che non avevamo mai suonato da quelle parti, Pisa era stata tra le zone più votate dai nostri fan per essere inserita nel tour sulla Luna. E infatti, al momento di trovare la location, c’eravamo resi conto del perché non avessimo mai suonato da quelle parti: le situazioni adatte erano pochissime.
Il mio amuleto portafortuna, il mio fratellino Guy scese dalla Luna saltellando tutto contento. Era un contrasto buffo, pareva un bambino appena sbarcato al parco divertimenti, piuttosto che un ragazzo indiscutibilmente maturo arrivato a suonare in uno scenario lugubre a dir poco.
Fo-to! Fo-to!”, cominciò a canticchiare, dato che ancora non avevo ordinato l’autoscatto da condividere sui social network come primo promemoria del concerto che avremmo fatto di lì a poche ore.
“Troppo buio qui. Facciamone una dentro. Sperando ci siano delle luci. Vista da fuori pare una casa disabitata da secoli.”
Se da fuori esprimeva tetraggine, l’interno del Down By Law gridava al culto dell’oscurità. La stanza d’ingresso aveva i muri color rosso sangue. In un angolo, un unico lume diffondeva una luce fioca, incastonato in una specie di tabernacolo profano, incorniciato d’oro e delimitato da due statuette che raffiguravano delle streghe o comunque delle creature fantasy maligne. Iniziavo a pensare che, nel bene e nel male, ci trovavamo in un locale fuori dagli schemi triti e asettici dell’indie.
“Ricorda il nostro logo”, suggerì Guy, avvicinandosi alla luminaria. “Le streghe al posto dei gatti, la luce dove c’è il nome…”
“Il top sarebbe sradicarlo e metterlo stasera sul palco!”
“Buonasera”, c’interruppe una voce maschile proveniente dalle nostre spalle. L’uomo appena entrato era meno caratteristico del posto di cui ci disse essere il capo. Anzi, più che un impiegato del catasto non avrebbe potuto apparire. Era tozzo, col cavallo basso e il torace sformato. Calvo, con pochi capelli grigi intorno alle orecchie e sopra il collo. Non si faceva la barba da qualche giorno, a giudicare dall’ispida peluria bianca che gli era cresciuta sul viso. Una quarantina d’anni portata maluccio. Aveva un odore strano, pungente, e parlava mangiandosi le parole, piegando la bocca verso destra come in un tic.
Seguimmo Lamporecchioni oltre la porta sistemata perpendicolare a sinistra rispetto a quella donde eravamo entrati. Facemmo qualche metro in un cunicolo completamente buio prima d’entrare in una nuova stanza, illuminata con dei neon molto potenti, simili a luci d’emergenza. C’erano tavolini, sedie e divani, tutto in nero. Sui divani erano sedute quattro ragazze, scosciate e vestite provocanti. Avevano poggiato borsette, pacchetti di sigarette e telefoni sui tavolini. Non calcolarono nessuno di noi tre. Guy, che camminava dietro il gestore e davanti a me, si voltò e alzò il sopracciglio. Non capii se fosse un verso ironico, meravigliato o di preoccupazione.
“Per quella porta là in fondo si sale di sopra”, ci spiegò Lamporecchioni, indicando un passaggio fatto con una volta in muratura del tutto stridente col design moderno del salotto del Down By Law. “Potete usare la vostra camera come camerino perché un camerino vero non c’è. Il bagno è sul piano, e durante la serata lo può usare anche il personale.”
“Grazie, andiamo subito a prendere la nostra roba in furgone, la portiamo su e poi iniziamo a montare il palco”, disse Guy, ordinando il dietrofront.
Lasciando aperta la portiera, si sedette sul bordo del posto del conducente, imitando la posa di una delle ragazze che c’erano nella stanza. Gambe accavallate, testa reclinata di tre quarti all’indietro, mani intrecciate, sguardo enigmatico e lingua che andava avanti e indietro lungo le labbra.
“Escort d’alto bordo?”, gli domandai.
“Alto non direi proprio. Avranno una tariffa standard. Il che comunque significa che stasera guadagneranno più di qualunque gruppo indie in un mese di concerti ogni venerdì e sabato.”
“Ma…”, non mi venne nulla da aggiungere. Lui capì e tradusse.
“Cosa ci fanno qui? Probabilmente l’ominide vuole unire l’utile al dilettevole. Anche se non sembra, è un appassionato di club culture e tendenze musicali alternative, che però non gli garantiscono entrate sufficienti, sicché ha messo su un giro di troie per arrotondare e tenere alto il vessillo dei concerti e delle discoteche più emancipate!”
“A me sembra più un pappone che usa il locale e la musica come copertura per la sua attività principale.”
“Sei sempre la solita malpensante. Quello è un insospettabile cultore di new wave, techno pop, dub, e poi EDM, EBM, CGIL, ANAS, AIDS… Le ragazze fanno parte del suo piano di rilancio culturale. Ed io sono orgoglioso di contribuire a questo rilancio! Guarda, ora aggiorno il mio status su Facebook: ‘Stasera 2 Dualità in concerto al Down By Law di Madonna dell’Acqua. Seconda data del nostro tour sulla Luna. E chi non viene, ha sicuramente più possibilità d’andare in bianco rispetto a chi viene!’ Quello là si merita un monumento nella piazza del paese!”
“Quello là entro fine serata cercherà di strofinarmi le palle sulla batteria, per vedere se tra un colpo e l’altro avanza qualcosa pure per lui, altro che.”
“Se ci prova, gli strofino io qualcosa su quel muso di ciuco”, s’incupì all’improvviso con tutta la serietà che gli riusciva di racimolare.
“Guy, non sei credibile come maschio possessivo. Torna a sederti nella posa da escort.”
“A proposito di escort: pensa che bello, stanotte dormiremo stretti stretti in un romantico letto a baldacchino dove di solito i più lerci puttanieri si sfogano con quelle valchirie del sesso a pagamento che il buon Lamporecchioni gli mette a disposizione!”
“Io non dormivo stretta stretta nemmeno coi peluche da bambina, Guy.”
“E non a caso sei diventata quel che sei diventata…”
Sbrigammo il check abbastanza agili, tanto che eravamo una ventina di minuti in anticipo sull’orario previsto per la cena. Eravamo quindi liberi fino al momento del concerto. Liberi al punto che, nemmeno il tempo di bere una cosa al bar, mi voltai e vidi che Guy era stato abbordato da una delle lavoratrici del Down By Law.
Mi appoggiai al bancone per seguire la scena. Guy era troppo preso nella sua parte di ambasciatore di 2 Dualità per liquidarla. Quando suonavamo in giro, cercava di prestare attenzione a qualunque persona lo approcciasse. Raccontava storie, s’interessava dei suoi interlocutori, faceva domande, e sorrideva di continuo. E del resto, non aveva motivo di star lì in attesa che lei gli proponesse le sue prestazioni. Decisi dunque d’entrare in azione. Li raggiunsi facendo un largo giro, fino a mettere una mano sulla spalla di Guy.
“Il capo dice che vuol parlare d’affari con te. Ho provato a spiegargli che in quanto più anziana, nel gruppo sono io che porto i pantaloni, ma ha detto che lui con le donne di queste faccende non ci parla. Dice che gli affari è roba da uomini, e che le donne servono per altri scopi”, raccontai strategicamente.
“Vado”, obbedì lui, e sparì in fretta dalla zona delle operazioni. Ci capivamo al volo su certe cose. Quella invece era rimasta lì interdetta. La bloccai prima che avesse modo di ritirarsi.
“Piacere, Vicni”, mi presentai dandole la mano.
“Vicky?”
No. Vicni. E tu come ti chiami?”
Capii che si chiamava Andrea. Andrea De Accm, o qualcosa del genere. Era una stangona di un metro e ottanta più tacchi. Fisico da fotomodella insomma. Il look invece era più consono al marciapiede che alla passerella. Un top laminato in argento, minigonna con cintura ornata di perline taroccate e stivaloni che le arrivavano al polpaccio. In testa, una parrucca esageratamente posticcia, una lunghissima cascata di capelli biondi appartenuti a chissà chi. Aveva un brillantino all’ombelico, al centro di una pancia più che piatta, seppure a giudicare dall’alito non disdegnasse l’alcol.
“Sei dell’est?”, le domandai ancora.
“Ucraina”, dopo di che aggiunse una parola incomprensibile che doveva essere il nome della città da cui proveniva.
Le feci qualche altra domanda. Scoprii che aveva ventidue anni ed era in Italia da tre. Che abitava in paese insieme alle altre ragazze del Down By Law, dividendosi un appartamento di proprietà di Lamporecchioni, che tra l’affitto e la percentuale che s’intascava sui loro servigi al locale, le sfruttava per benino. Ad Andrea De Accm quella vita andava a genio perché la considerava un grosso miglioramento rispetto a come se la passava in Ucraina. Durante la giornata aveva un po’ di tempo libero e poteva andare a fare shopping a Pisa o a volte a Firenze, oppure al mare.
“È bello il mare. E quando vai in spiaggia ti togli tutto?”
“No!”, sbottò lei, come l’avessi svegliata di soprassalto. “Con costume. Con costume bagno.”
“Certo. Sarai sicuramente uno schianto anche in costume. Gli uomini ti faranno mille complimenti.”
“Sì”, concesse lei, restando sulla difensiva. “Uomini passano e guardano. E vengono qua, tanti. E fanno complimenti.”
“E le donne? Non vengono a dirti quanto sei bella?”
“No. Donne non lo dicono.”
“Le donne sono invidiose di te, questa è la verità. Ti vedono come una minaccia, una loro nemica. Hanno paura che i loro uomini non le guardino più dopo che hanno visto te. Per questo sei segregata qui dentro. Gli uomini si godono la tua bellezza e tornano dalle loro donne facendo finta di nulla. È nobile da parte tua dare un po’ di gioia a questa gente triste, e farlo in segreto così che nessuno passi dei guai, no?”
Non rispose.
“Sei mai stata con una donna?”
Di sicuro non si aspettava avance così dirette. La sua aggressività di adescatrice si era del tutto sgonfiata. Peccato che da me non avrebbe ricevuto un centesimo per fare sesso, e anche se avesse accettato di appartarsi, c’era il rischio che Lamporecchioni non prendesse con sportività quella distrazione dal lavoro. L’arrivo della cena in tavola mi aiutò a spegnere l’interruttore e mettere da parte quei pensieri. Mi allontanai a malincuore da Andrea De Accm per andarmi a sedere accanto a Guy.
Le ore trascorsero lentamente, d’altronde non avremmo iniziato a suonare prima di mezzanotte. L’ultima mezzora ci ritirammo di sopra per prepararci.
“Nulla di fatto con la zozzona finta bionda?”, mi domandò Guy mentre s’infilava la sua divisa da concerto: a parte il cappello, quella sera era in total black. Il suo profilo su Facebook era pieno di foto in cui era taggato da ragazzine che l’avevano immortalato mentre cantava, o si facevano il selfie con lui dopo il concerto. Il suo segreto era la consapevolezza del suo fascino, la sicurezza di riuscire a piacere agli altri. Io quella consapevolezza non ce l’avevo mai avuta. Mi sembrava sempre ci fosse qualcosa che non andava in me.
“Le ho proposto di mulinarle la lingua in mezzo alle gambe meglio di una mazza di venti centimetri. E soprattutto meglio dei cazzettini flaccidi dei suoi clienti. Ma giustamente voleva esser pagata e ci siamo lasciate da amiche.”
“Gran professionista, massimo rispetto”, declamò lui col tono aulico che gli piaceva usare quando diceva frasi fatte.
Anch’io, come d’altronde quasi sempre, ero per lo più in nero. A parte la camicia bianca, sopra avevo un gilet aperto e, sotto, gonnellino e collant. Tacco alto e makeup pure quelli di prassi.

Scendemmo le scale mano nella mano; nella semioscurità della sala concerti del Down By Law avanzammo rapidamente, e senza dare a nessuno il tempo di identificarci apparimmo sul palco. La musica di sottofondo si ammutolì e dopo qualche istante di assestamento attaccammo a suonare.




Capitolo 6
Un po’ slang anni Ottanta

Armeggiando nelle tasche dei pantaloni, che aveva appallottolato ai piedi del letto per mettere quelli da concerto, recuperò i tre buoni consumazione rimastigli. Era determinato a non lasciarne inevaso neppure uno.
Ridiscese per primo, mentre la sua collega, sfilatasi la camicetta, si lamentava che quel reggiseno la strizzava troppo durante il live.
“C’è la fila là fuori per vedere i tuoi capezzoli, gioia. Tienilo presente per i prossimi concerti”, le fece di rimando Guy, uscendo di gran carriera per dedicarsi ai suoi passatempi postconcerto: bere, curare le pubbliche relazioni e cercare di “vendere” il brand 2 Dualità.
Lui, invece, faceva di tutto per non vederli. Benché il loro rapporto fosse sempre stato improntato a una totale intimità, e soprattutto scevro da pulsioni sessuali, su quell’aspetto aveva mantenuto un pudore finanche eccessivo. Non si era mai spogliato completamente di fronte a lei, e quando lei con naturalezza accennava a denudarsi in sua presenza, si voltava di scatto in direzione opposta, o usciva dalla stanza.
Ad ogni modo, Vicni decise di dargli retta. Si tolse il reggiseno, mostrando allo specchio le sue curve appena accennate e i capezzoli che apparivano ancora più scuri, contornati dalla sua pelle lattea. Quindi si mise addosso una canotta elasticizzata, che usava spesso quando col suo gruppo di amiche e amici frequentava in incognito le feste gay organizzate nella loro zona, si coprì ulteriormente con la sua giacchetta di pelle e, cambiata da capo a piedi, attese ancora qualche minuto prima di ridiscendere nel locale.
Guy era intanto alle prese con tre ragazzi e due ragazze, tutti sostenitori del crowdfunding. Aveva smistato le ricompense, confrontando le mail stampate a mo’ di ricevuta con i dati in suo possesso e garantito un paio di volte che Vicni li avrebbe raggiunti a breve.
Quelli là erano alquanto smorti, e sembrava non vedessero l’ora di piantarlo in asso, sebbene nessuno accennasse ad andarsene. A un certo punto, al capannello creatosi nei pressi del banchetto merchandise si aggiunse un uomo. Guy lo aveva notato a inizio serata, intento a confabulare con una delle prostitute. A giudicare dalla fisionomia, doveva essere un cliente abituale, che poche altre occasioni avrebbe avuto di scopare una figa di quel rango senza un esborso economico. Era alto e scheletrico, tanto da sembrare un malato terminale piuttosto che un ultracinquantenne male in arnese. Indossava un logoro giaccone imbottito e un cappellino con visiera. Fin quasi a metà schiena gli scendeva un’avvizzita coda di cavallo.
Il dj set rimbombava in pista, mentre il cosiddetto salotto consentiva alla combriccola di discutere con tranquillità. Guy perciò si chetò e alzò gli occhi, ritenendo che Normanno gli si stesse rivolgendo. In realtà, parlava da solo a voce alta. Stava inoltre armeggiando sul telefono, un apparecchio antidiluviano col display a cristalli liquidi in bianco e nero che consentiva a malapena di leggere gli sms. E nel digitare, proseguendo nel suo monologo, faceva risaltare una miriade di tic facciali.
“Una serata di revival slang”, disse ancora Normanno, accentuando la sua parlata meridionale e avvicinandosi dopo aver rimesso in tasca il cellulare.
Slang”, ripeté Guy, perplesso ma sorridente verso il nuovo arrivato.
“Io ne ho visti di concerti in vita mia. Ci vengo spesso in questo posto, e anche in altri posti qui in zona dove fanno concerti. Non vi conoscevo, vi ho visto stasera. Fate cose un po’ slang anni Ottanta.”
“Più o meno”, si schermì Guy, restio a contraddire quell’argomentazione di cui gli sfuggiva il significato.
“Suonavo anch’io giù al mio paese, nel sud della Campania. Poi venticinque anni fa sono emigrato qui e non ho più trovato persone per suonare.”
“Peccato. Come mai, non sei riuscito a trovare la gente giusta, qui?”
“I gruppi giovani gli manca quel modo di fare, nella musica dico”, cambiò repentinamente argomento Normanno, muovendo la testa in modo convulso tra un tic e l’altro. “Quel modo slang di fare le cose, tipo come le fate voi, ecco, si sente e non si sente, dipende dal gruppo che sta suonando…”
Andò avanti per un bel pezzo a imperversare con le sue sconnesse teorie musicali. Vicni nel frattempo si era presa in carico i ragazzi del crowdfunding, facendosi fotografare assieme a loro e riciclando l’invito del suo socio affinché pubblicassero gli scatti sui vari social network. Se col più esuberante Guy, l’atteggiamento dei fan era stato all’insegna di un timoroso riserbo, con Vicni, che non si sforzava granché di mostrarsi espansiva, si rasentava il film muto. Persino le foto apparivano più scure con lei in campo.
Il petulante e saccente Normanno infine se ne andò. Stava pontificando su pregi e difetti di un non ben specificato genere musicale, a meno di non voler considerare tale lo slang, quando senza alcun motivo apparente troncò la dissertazione e si congedò in modo sbrigativo. Guy lo seguì con lo sguardo, fino a vederlo sfilarsi per un attimo il cappello e mostrare che il codino era ciò che restava dei suoi capelli, dato che in testa era completamente calvo.
Cercò quindi di ravvivare il clima da bocciofila creatosi attorno a Vicni, ma di lì a poco i fan se ne andarono alla spicciolata. Guy e Vicni si ritrovarono soli. Disfecero il banchetto e tornarono in sala. La pista era animata da una ventina di persone che ballava o stava semplicemente lì ad ascoltare la musica.
Lui teneva sottocontrollo il tasso alcolico nel sangue e non era troppo sbalestrato. Scrutava gli avventori, ammiccando a chi passava nei paraggi, escluse le escort che ancora si aggiravano alla ricerca di tiratardi da spennare per qualche minuto di lascivo su e giù. Lei invece appariva un po’ immalinconita, e gli stava appresso come a utilizzarlo a guisa di stampella che la sorreggesse.
Risalirono soltanto a fine serata. Lo fecero su suggerimento di Guy, cosicché Lamporecchioni gli dicesse ciò che doveva, gli augurasse la buonanotte e soprattutto non venisse su lui. Il piano si rivelò vincente, giacché non lo rividero più. L’indomani, con calma, sarebbero usciti dalla scala esterna, simile a quelle antincendio degli appartamenti negli Stati Uniti, avrebbero lasciato la chiave nella cassetta della posta e sarebbero ripartiti.
“Ti confesso, mia bella statuina, che sono un pochino stanco. Ma contemporaneamente ti prometto che al mio risveglio sarò di nuovo in forma campionato, pronto per un altro concerto radicale distruttivo!”
“Io mi sento già meno stanca al pensiero che al tuo risveglio toccherà a te guidare fino a Spoleto”, sospirò Vicni, che si era struccata e cambiata e, in pigiama, si stava sdraiando sotto le lenzuola.
“Il karma è una ruota che gira. Allo stesso modo, girano i nostri turni alla guida della Luna. Oggi a me, domani a te.”
“E dopodomani di nuovo a te.”
Guy era seduto sul suo letto. Sembrava si fosse improvvisamente ritrovato un macigno sullo stomaco e avesse urgente necessità di scostarlo da sé.
“Non so se sia peggio essere imbroccati dalle ragazzine che vengono ai nostri concerti oppure dalle escort”, disse poi.
“Sicuramente dalle escort. Le ragazzine almeno te la darebbero gratis.”
“Sì ma non me la darebbero in ogni caso. Quelle dopo che si sono stropicciate due secondi a favore di smartphone, poi battono subito in ritirata. Certo, il fatto che io non collabori minimamente ha il suo peso, non lo nego…”
“Dura la vita dello sciupafemmine omosessuale”, lo sbeffeggiò Vicni. “Sempre col colpo in canna che non può essere sparato nel giusto canale.”
“Che gli devo dire, a quelle? Siete tanto carine ma non posso cacciarvi la lingua e poi il cazzo in bocca perché già a sedici anni ho realizzato e accettato d’essere gay, quindi al limite presentatemi i vostri fratelli? E non posso nemmeno usarti come scusa, dire che sei la mia fidanzata, giacché ufficialmente siamo due persone in una relazione non ben precisata che fanno finta d’esser fratello e sorella. Voi donne non capite proprio un accidente! È pieno di uomini che ve lo piallerebbero da ogni parte e perdete tempo con i gay.”
“Per tua fortuna tu fai impazzire le donne ma piaci anche agli uomini. Io invece alle donne incuto timore, si ritirano nel loro guscio ogni volta che tento di avvicinarmi.”
“Però gli uomini ti sbavano dietro. E non è vero che spaventi le persone. Le donne, proprio no. Se provassi a stare un’intera serata nel bel mondo che sono gli ambienti dove suoniamo, anziché far la spola tra il banchino e la tua cripta da vampira, otterresti più attenzioni di me, che pure sono il cantante. Ti sei creata un’immagine che dà un pizzico di soggezione.”
“Sai, Guy, mi capita spesso di odiarmi perché sono così complicata. Certi giorni vorrei essere tutto fuorché ciò che sono. Non vorrei essere donna, non vorrei essere lesbica, non vorrei essere musicista. Bassa, mora, pallida, le tette piccole… Non ti dico per sempre, ma almeno per qualche ora vorrei essere un’altra persona. Magari una persona più normale, tra virgolette.”
“Io penso che se fossimo tutt’e due più normali, tra virgolette, forse avremmo avuto una vita più semplice, ma di sicuro non ci saremmo mai trovati e non avremmo messo su quest’esperienza che si chiama 2 Dualità. Magari io sarei più assiduo e coscienzioso all’università, starei insieme a una mia compagna di corso e tirerei avanti la relativa routine. Tu avresti decine di uomini d’ogni estrazione sociale a farti la corte, potresti scegliere il miglior partito e campare alle sue spalle. Anche potendo, non farei mai a cambio con quello che sto vivendo, che stiamo vivendo adesso!”
“Grazie Guy, ti voglio bene, buonanotte. Svegliami al momento che dobbiamo ripartire. Ti assicuro che non ci metterò una vita e mezzo a prepararmi.”

Spensero le luci. Nel giro di qualche ora, sarebbe sorto un nuovo giorno a illuminare il loro cammino. Ognuno pensava alla propria controparte, a un legame consolidato da un amore viscerale per la musica e da un’intesa che sapeva abbattere le barriere erte da due personalità tanto imponenti quanto divergenti e in un moto perpetuo di tensione e irrequietudine. E a come sarebbe stato doloroso il momento in cui tutto fosse finito.



Capitolo 7
Se hai fede, non devi preoccuparti d’altro

Guy ancorò la Luna nel parcheggio sotterraneo. Avevamo appuntamento vicino alla stazione centrale, in un’area che ospitava fiere e convegni. Il luogo di ritrovo era il piazzale antistante. Non saremmo rimasti a Firenze per più di un paio d’ore. Il tempo dell’intervista e di mangiare qualcosa, poi ci aspettava il terzo concerto del tour, a Spoleto. Avevamo studiato un piano per cercare di sabotare l’intervista e ridicolizzare gli intervistatori e chi ce li aveva mandati.
“Mi raccomando, abbiamo fatto salti mortali per avere quest’intervista su Indie Italie. Lo so che vi stanno sulle balle, ma ognuno deve fare la sua parte. Noi facciamo la nostra, voi fate la vostra e loro fanno la loro.” Così c’aveva in sintesi ammoniti la tipa dell’ufficio stampa. C’aveva chiamato in mattinata, appena ripartiti da Madonna Dell’Acqua. Aveva chiamato Guy. Chiamava sempre Guy. Che mentre guidava, aveva messo il vivavoce per farmi ascoltare la ramanzina.
“Tutto sottocontrollo, mia cara”, s’era beato lui, dandomi di gomito con l’intenzione di non farmi intervenire. “Ho già messo la museruola alla mia collega, che è notoriamente la metà incazzosa e antipatica del gruppo, e mi palleggerò i nostri eroi nella maniera migliore. Faremo la figura dei santarellini dell’indie che ogni mamma vorrebbe vedere maritati al proprio figliolo… O figliola, sì, certo, a seconda dei casi. Abbi fede!”
“Io ho fede”, aveva risposto lei. “Però dicevo…”
“E allora basta! Se hai fede, non devi preoccuparti d’altro, tesoro. Ti faccio chiamare da Vicni appena ci rimettiamo in cammino. Così ti racconta lei, che non ha peli sulla lingua. Bacioni forti e chiari!” E aveva troncato la telefonata, prevenendo eventuali repliche.
Indie Italie era il male. Negli anni, era diventato il sito musicale italiano più autorevole del settore. I peggiori trend che dilagavano nel nostro ambiente erano fomentati sulle sue pagine, imponendo a tutti di fare musica secondo quei diktat del cazzo. Chi non si adeguava veniva emarginato a colpi di stroncature o, peggio, di omertà. Non essere menzionati da Indie Italie equivaleva a non avere rilevanza nel giro. Era addirittura meglio essere stroncati, anche in modo trasversale, tipo: “Il gruppo x prende il peggio dalle sonorità del gruppo y che già fa schifo di suo”. Era perlomeno un segnale d’attenzione.
Il sistema vagamente mafioso con cui amministravano la musica era accettato da tutti gli addetti ai lavori, musicisti compresi. Noi in realtà non avevamo problemi a prestarci a quel meccanismo, Guy in particolare era disposto a qualunque compromesso in cambio di visibilità, e io mi adeguavo.
Forse gli attriti, almeno da parte nostra, erano iniziati quando avevamo pubblicato le prime cose, ricevendo attenzioni dalle principali riviste e webzine di settore, ad eccezione di Indie Italie. Da allora, loro avevano continuato a ignorarci e noi, un po’ per ripicca, non avevamo fatto nulla per compiacerli e trovare spazio sul sito.
A comandare la baracca c’era Fosco Quiličić, uno dei personaggi più sgradevoli che avessi mai avuto la disgrazia d’incontrare. Per fortuna solo di sfuggita in un paio d’occasioni. Era gonfio di boria oltre che nel fisico, con la faccia da addormentato che però si sente in dovere di spiegarti la vita. La cosa peggiore era doverlo seguire su Facebook: condivideva ogni singola cazzata della sua vita, connesso ventiquattrore a raccontare storielle stupide con protagonisti lui stesso, la compagna e la figlia piccola. Ognuna di queste perle era accompagnata da foto altrettanto nauseanti, con i medesimi tre soggetti in campo, e Fosco Quiličić che giganteggiava tra le sue “preziose creature” (le chiamava così ogni volta) con l’aria da ebete e il viso tagliato all’altezza della fronte per nascondere la pelata. Ovviamente, nessuno di questi orrendi post riceveva meno di duecento like. E raffiche di commenti ossequiosi, specie di musicisti, anche importanti, che gli leccavano spudoratamente il culo.
Con quelle minacciose premesse, osservammo due tizi che ci venivano incontro a colpo sicuro. Noi, i musicisti che dovevano essere intervistati, eravamo arrivati con una decina di minuti di ritardo. Loro, infimi redattori, carne da macello mandataci contro dal subdolo Fosco Quiličić, si presentarono quasi mezzora dopo l’orario concordato.
Nella peggior tradizione, il tipo camminava tre passi avanti alla collega. Era agghindato come l’ultima ruota del carro di una gang di rapper dell’hinterland malfamato di una qualunque metropoli. Il clima era mite, sicché non aveva la giacca ma solo una felpa di almeno due taglie più larga e il cappellino con la visiera all’indietro. Sotto, pantaloni verdi multitasca neanche dovesse andare a pesca dopo l’intervista. Per il resto, il concetto di nerd gli stava generoso. Aveva gli occhialoni squadrati tanto in voga tra i giovani, che facevano sembrare cretine persino le ragazze più interessanti, mentre gli uomini ci facevano tranquillamente la figura dei babbei. Lui infatti ci faceva tranquillamente la figura del babbeo.
Cercai di distrarmi tramite la contemplazione della tipa. Mi resi conto che camminava a ruota di quel tordo perché aveva evidenti difficoltà di movimento. Era impacchettata in un abitino inguinale giallo canarino dove non sarebbe passato uno spillo, tanto era attillato. Aveva i capelli corti, nerissimi, con la frangetta, e orecchini che facevano pendant con la collana. E col vestito. Gli occhi parevano comunicare un misto di fastidio e disinteresse.
“Bene ragazzi”, esordì Varagano senza neppure scusarsi per il ritardo. Aveva la voce nasale e un accento indefinibile, non sembrava toscano. “Indie Italie, per volere del nostro direttore Fosco Quiličić, ci ha mandato fino a Firenze per intervistarvi e farvi delle foto per un articolo che uscirà sul sito.”
“Grazie d’averci dedicato un po’ del vostro tempo, un po’ del vostro spazio, un po’ di voi e un po’ di noi, insomma, le pari opportunità, le quote rosa”, gli rispose Guy cantilenando. “A proposito, come se la passa il buon Fosco Quiličić? È da parecchio che non lo incontro in giro.”
“Sì, benone”, tagliò corto Varagano, sempre in quel modo loffio che avrebbe reso difficile l’attuazione dinamica del nostro piano. Di primo acchito, dava l’impressione che se uno gli avesse dato un cazzotto, avrebbe manifestato la reattività di un sacco da allenamento per pugili. “Vi faremo un po’ di domande, e nel frattempo vi faremo delle foto, e poi se ci sarà ancora tempo faremo un breve shooting qui davanti. Proprio per questo sono venuto insieme a Erbafel, la bravissima fotografa ufficiale di Indie Italie.”
“Grazie, Varagano”, gli disse lei con noncuranza, frugando con gli occhi dentro la borsetta, che teneva appesa a una spalla, mentre l’altra sosteneva la tracolla della borsa con l’attrezzatura fotografica.
“Grazie, Varagano”, le fece eco Guy. Pure io mi accodai.
“Abbiamo preso il treno stamattina presto per essere in tempo qui a Firenze e intervistarvi per Indie Italie”, tenne a precisare ancora Varagano, forse per farci pesare che s’erano abbassati a tanto per gente come noi. “Allora, comincio da te, Gài…”
Ghì!”, lo corresse immediatamente lui. Per un attimo, calò il gelo. Persino Erbafel smontò dal piedistallo per assumere un’espressione accigliata.
Ghì?”, riuscì infine a domandare Varagano.
“Sì, Ghì. Non Gài. Il mio nome si pronuncia alla francese. Ghì”, ripeté un’ultima volta.
“Pensavo che si pronunciava all’inglese.”
“Pure io lo pensavo. Per questo canto in italiano.”
“Certo”, borbottò Varagano. “Erbafel, tu quando vuoi inizia pure a fare le prime foto, anche a noi tre tutti insieme.”
“Grazie, Varagano.”
“Dicevo, Guy, questo è il vostro secondo album.”
“Sì, questo”, rispose Guy, guardandosi attorno per cercare l’oggetto di cui gli veniva domandato. Non riuscì a trovare il nostro secondo album nei paraggi.
“Che cosa vi ha spinto a registrare un nuovo disco?”
Chi ci ha spinto? Beh, è una lunga storia, sai com’è…”
“Guy, ti ha chiesto che cosa ci ha spinto a registrare un nuovo disco, non chi!”, intervenni io.
“Ma che ne sai tu di chi o cosa ci ha spinto? Donna!”
“Infatti lo ha chiesto a te, mica a me. E rispondigli allora!”
“Certo che gli rispondo! Nel nostro primo disco avevamo esplorato uno spettro sonoro derivante più che altro dalle nostre precedenti esperienze musicali e dai nostri ascolti di gioventù. Col passare del tempo, ci siamo resi conto che avevamo la possibilità di arricchire la nostra musica, non solo grazie alle royalty, ma anche con influenze non necessariamente riconducibili ai nostri background. ‘Due di coppia’ è nato sotto questa stella.”
“Ma il primo disco aveva quelle vibrazioni roots urbane che su questo mancano completamente”, s’inserì Erbafel. Varagano non fece neppure caso a quell’uscita senza senso. Guy invece colse l’occasione per ricamarci sopra.
“C’hai sgamato! In realtà, è colpa del viaggio di tre mesi che Vicni mi ha costretto a fare da una costa all’altra della Corea del Nord. In quel lasso di tempo, abbiamo sviluppato un nuovo approccio alla musica, che secondo me è tutto di guadagnato, ma inevitabilmente qualcosa del vecchio repertorio è stato accantonato in favore del mood che hanno adesso i pezzi di 2 Dualità.”
“Vicni, anche tu credi che questo vostro viaggio è stato determinante per lo sviluppo della vostra musica?”
“Di sicuro”, gli risposi. “Anche perché io ho costretto Guy a fare questo viaggio, ma lui da solo. Io sono rimasta a casa a lavare e stirare, ma soprattutto a scrivere musica e sperimentare nuove sonorità nel mio home studio. Quando Guy è finalmente rientrato, la preproduzione era già bella che fatta. Lui ha aggiunto le melodie, i testi e ha arrangiato qualcosa in modo diverso.”
Andammo avanti a giostrarci Varagano con disinvoltura. Lui non aveva nulla da obiettare alle nostre argomentazioni, per quanto fossero assurde.
“Noi di Indie Italie siamo venuti fino a Firenze per intervistarvi anche perché voi siete nel corso di un tour molto particolare, realizzato tramite una colletta online.”
Crowdfunding”, precisai io.
“Certo”, annuì Varagano. “I vostri fan vi hanno aiutato a realizzare questo tour di poche date, e in cambio hanno ricevuto delle ricompense…”
“È stata un’esperienza fantastica!”, lo interruppe Guy, impedendogli di fare la domanda. “I nostri sostenitori hanno fatto a gara di velocità per aiutarci a tirar su questo ‘Tour sulla Luna’ di sette date in una settimana. Siamo stati bravi anche noi a fare una campagna efficace, con ricompense originali.”
“L’idea della fornitura di cibo per gatti 2 Dualità è un colpo di genio!”
“Infatti l’ho avuta io. Pensa, nei primi due concerti del tour sono venuti in diversi a ritirare le scatolette, e si sono portati dietro il gatto, nascosto in uno zaino per non avere menate all’ingresso. Che teneri! Noi li adoriamo, i gatti!”
“Noi adoriamo anche gli uomini. E le donne”, dissi io.
“Un giorno però dovremmo fare un concerto davanti a un pubblico composto esclusivamente da gatti”, propose Guy.
“Non sarebbe male. Potrebbe rivelarsi più divertente rispetto ad alcuni concerti che abbiamo fatto in passato”, mi accodai.
“Ma le ricompense migliori erano senza dubbio quelle in cui si poteva ricevere in cambio dei propri soldi un lungo bacio in bocca da uno di noi due!”
“Però questa cosa dei baci è una roba sessista”, esclamò Erbafel, continuando peraltro a scattare foto in modo compulsivo.
“Secondo me c’è differenza tra sesso e sessismo. Così come c’è differenza tra imbecille e imbelle.”
Il ragionamento algebrico di Guy non trovò opposizione né in Erbafel, che continuò a fare la superiore, né in Varagano. Il quale, non avendo più appigli, piazzò il domandone finale.
“Progetti futuri?”
“Se ne avessimo, non saremmo qui a fare i musicisti, vivendo alla giornata tra un tour e un disco, tra una serata al pub e una riunione tecnica per capire dove trovare i soldi per l’affitto della sala prove…”
“Guy, la domanda era sui progetti futuri come gruppo”, lo rimbeccai.
“Certo… i progetti futuri. Tutta la trafila che abbiamo fatto finora, comprese la serata al pub e la riunione tecnica per capire dove trovare i soldi per l’affitto della sala prove. Possibilmente più in grande. E così via. Questa è la nostra vita, questo vogliamo continuare a fare.”
La sessione fotografica non durò più di dieci minuti. Erbafel non aveva voglia di metterci a nostro agio e non ci dava alcuna indicazione. Noi stavamo lì e lei scattava, in piedi eretta oppure chinandosi e allargando le gambe in modo robotico ma reso comunque lascivo dalla sua innegabile bellezza.
Quando ci riavviammo verso la Luna, Guy fece un verso gutturale simile a un conato di vomito.
“Che gente brutta”, commentò disgustato quanto lo ero io. “Il ragioniere dell’hip-hop e la principessa sul pisello del teleobiettivo.
“Però li abbiamo cucinati per bene. Il nostro piano è filato liscio!”
“Come l’olio! Ottimo lavoro, mia sola divinità sconsacrata! Due!”

“Dualità!”, gridai, facendo rimbombare la mia voce nella struttura tubolare del parcheggio sotterraneo.



Capitolo 8
Lo straniero conquistatore armato di chitarra

C’era poca gente. Le porte erano state aperte da una quarantina di minuti e, pur essendo sabato sera, la clientela del Bencivenga di Spoleto, come d’altronde quella di qualsiasi posto del genere sparso lungo lo stivale, se la pigliava assai comoda.
Guy e Vicni, sapendo di non doversi esibire prima di un’ora e mezzo a dir bene, stazionavano nei pressi del bar, attorniati da alcuni finanziatori del crowdfunding. C’era Armendio, spilungone dall’aria goffa e impacciata, il cui amorfo maglione a bande orizzontali grigie e verdi era l’elemento di spicco della sua personalità. Accanto a lui, una tipa apparentemente giovanissima e apparentemente sordomuta, che se ne stava lì senza spiccicar parola. Poi due ragazze sui vent’anni, che pendevano dalle labbra di Guy come da un oracolo del nuovo millennio. Infine, Slisković666, così si faceva chiamare sul suo profilo, pure lui alto e dinoccolato ma più reattivo rispetto ad Armendio.
“Questa zona non è male a livello di movimento”, gli stava spiegando, scambiando al contempo cenni di saluto con chi transitava in quel momento lì vicino. Pareva conoscesse chiunque. “Ci stanno i posti per suonare, le feste, anche d’estate ci sta roba. Ci stanno i posti, ci stanno le cose da fare. Però la gente è chiusa, provinciale, ancora col dna del contadino. Se sta a lamentare che non ci sta mai nulla e non muove mai il culo da casa.”
“Questo è un problema un po’ da tutte le parti, caro mio”, intervenne Guy dandosi arie da uomo vissuto, ondeggiando la mano destra quasi in faccia a Slisković666. Lo straniero conquistatore armato di chitarra aveva un margine di vantaggio non indifferente sull’autoctono, bastava scrutare i volti e gli occhi delle due ragazzine. Slisković666 tentava di ergersi a guida illuminata della scena spoletina, forse anche nel tentativo di far colpo sulle suddette. Ma bastava un sorriso finanche abbozzato di Guy per precipitarlo in fondo alla pista.
Vicni, al solito, lasciava a Guy onori e oneri in simili situazioni. E lui era ben felice di salire al proscenio. Per inciso, non aveva alcuna intenzione di ridimensionare Slisković666, che anzi gli era moderatamente simpatico e soprattutto lo trovava attraente. Gli veniva semplicemente naturale comportarsi così in mezzo alle persone. A maggior ragione se già a inizio serata c’aveva dato dentro con la bottiglia.
“Io esco a fumare”, disse Vicni, apprestandosi a lasciare il capannello sotto la sapiente guida del suo compagno di giochi musicali.
“Sì, andiamo”, propose invece di slancio Slisković666, e partì lancia in resta, sicuro che tutti l’avrebbero seguito. Fuori, si accese tranquillamente un cannone, facendolo girare. Guy fece giusto un tiro, Vicni aveva la sigaretta in bocca e passò. Spuntò pure, imboscato chissà dove, un boccione di vino.
“Radicale distruttivo!”, proclamò Guy, dando una gozzata e alzando subito dopo la bottiglia a mo’ di brindisi.
“Non si direbbe che persone di corporatura piccola possano reggere così bene l’alcol, vero? Sapete come funzionano certe cose, quando si è giovani si guarda tutto attraverso prospettive più immediate, e questo ti permette di subire meno i contraccolpi negativi”, disse ancora Guy, facendo le domande e rispondendosi da sé. Il malcapitato Slisković666 era stato oscurato come durante un’eclissi. A parziale consolazione, Guy si rivolgeva per lo più verso di lui, lisciandogli in continuazione la spalla a corredo dei propri discorsi. Inoltre, la sua serata sarebbe proseguita in connessione con la band: dopo il concerto, avrebbe infatti incassato la sua ricompensa, consistente nell’essere riaccompagnato a casa a bordo della Luna.
Dopo un bel po’ di salotto, Vicni esortò Guy a tornar dentro per cambiarsi in vista del concerto. Il rituale della vestizione era molto importante per loro. Li estraniava dal casino, dai volumi alti della sala, dalla gente che andava e veniva. Quasi come fare yoga, come Piero Pelù, o stretching, come Henry Rollins, o spararsi una sega, come Eminem.
Guy aveva tolto di valigia una camicia argentata con i risvolti ricamati, oltre ai capi d’abbigliamento di sempre. Per Vicni, nella girandola di vestiti che avrebbe avvicendato durante il tour, toccava al terzo e ultimo travestimento: un completo tailleur più pantalone, rigorosamente nero, da perfetta lesbica in carriera. Erano pronti a darsi al pubblico accorso quel sabato a vederli.
Diversamente dalla maggior parte dei locali italiani, dove bisognava sgomitare per appoggiare la schiena alla transenna del mixer di sala ma sotto il palco c’erano praterie, al Bencivenga poterono contare su un certo calore dei presenti. In particolare, i ragazzi del crowdfunding si erano schierati in una prima fila credibile a poca distanza dai musicisti. Sul loro esempio, altri erano avanzati, garantendo in tal modo di evitare la surreale sensazione di sentire applausi preregistrati stile sitcom americana tra un pezzo e l’altro. Spesso succedeva davvero: dal palco non vedevano nessuno, però a ogni pausa udivano battimani più o meno intensi.
Slisković666 troneggiava nel mezzo, scuotendo il capo e battendo il piede in terra. E anche gli altri erano coinvolti, persino Armendio e consorte azzardavano qualche passo di danza sul posto al ritmo dei brani più sostenuti macinati da Guy e Vicni.
I reiterati sorrisi di Guy ricordavano quelli di Billy Zoom, chitarrista degli storici rocker californiani X. Difficile che qualche loro fan cogliesse il riferimento, pertanto se n’era appropriato dopo che un suo cugino più grande l’aveva introdotto alle meraviglie del punk americano anni Ottanta.
Vicni, austera nel suo abito di scena, fu però più scalmanata del solito, specie nei cori in cui quasi sovrastava la voce principale. Guy, sentendosi sparare nel monitor le urla stridule della batterista, credette fosse un problema di bilanciamento suoni sul palco e fece chiari cenni al fonico affinché gli abbassasse il microfono di lei in spia. Di fatto, con quella mossa per una sera perse inconsapevolmente il ruolo di cantante: almeno nei ritornelli, in sala arrivava soltanto la voce di Vicni.
“Quasi uguali quasi diversi” venne davvero bene. La band aveva ingranato le marce alte, il pubblico era dalla loro parte ed era il momento di calare gli assi. Vedere tutti là sotto cantare la canzone, dalle due smaliziate ragazzine alla torpida coppia, fino ad altre persone che si stavano facendo avanti, riconoscendo le note di quella piccola hit, fu emozionante. Come il primo giorno di prove, come la prima canzone che avevano scritto assieme, come il primo concerto di 2 Dualità. Come la prima volta che s’erano incontrati. Quel tipo di emozione, non semplicemente l’entusiasmo della novità, ma qualcosa di più profondo, il sentore di un respiro più ampio, di un tragitto che può condurre lontano. Oppure verso il nulla.
“Spoleto ci ama!”, si beò Guy a fine serata. Slisković666 annuiva compiaciuto. Oltre ai fan del crowdfunding, se n’erano presentati parecchi altri. Guy e Vicni avevano venduto dischi e gadget, firmato autografi e posato per foto, dispensando strette di mano e abbracci. Quel surrogato di rock’n’roll lifestyle non era così frequente: gli capitava non di rado di essere bellamente ignorati prima, durante e dopo il concerto.
“Tra un po’ si va a nanna, mio caro”, disse ancora Guy all’allampanato fan. “Ti senti capace di andare sulla Luna?”
“Grande”, confermò Slisković666. Vicni, col progressivo diradarsi di chi le stava attorno, era ridiventata laconica ed estranea ai lazzi che il suo collega perdurava a regalare a un uditorio ormai ridotto all’osso.
Arrivò infine il momento di ricaricare la strumentazione e dirigersi all’albergo, con tappa intermedia a casa di Slisković666.
“Taxi Luna in partenza. Via! Via! Via! Via! Via!”, disse Guy. Slisković666 sedeva davanti, su uno dei posti passeggero, appiccicando Vicni al finestrino. “Io non accendo il navigatore, guidami tu. Dove devo andare?”
“Io sto in una frazione appena fuori Spoleto. Prendi subito la strada come per tornare indietro da dove siete arrivati.”
“Ecco, appunto, mi son già perso! E non siamo ancora usciti dal parcheggio del Bencivenga… Destra o sinistra?”
“Di là”, spiegò Slisković666. Guy, che guardava il buio della strada, non fu in grado d’interpretare l’indicazione.
“Destra”, tradusse Vicni.
In poco più di cinque minuti, nonostante le pessime doti di navigatore di Slisković666, svoltarono in direzione di uno sbiadito cartello blu e giunsero in un vialetto campagnolo poco illuminato ma sufficientemente per mostrare una serie di case e ville tipiche di una certa aristocrazia contadina.
“Wow!”, esclamò Guy, accostando dinanzi alla villetta su due piani indicatagli da Slisković666.
“Ci abiti con i tuoi genitori?”, domandò Vicni. Aveva avuto il sospetto di aver a che fare col classico finto alternativo campato dai soldi di famiglia.
“Sì”, replicò lui senza imbarazzo. Anzi, rilanciò. “Ma la casa in pratica sta divisa in due, e io ho uno spazio tutto mio; ho anche un ingresso indipendente! Perché non entrate un minuto? Magari potete restare a dormire qui, volendo…”
“Perché no?”, acconsentì subito Guy, anticipando le proteste di Vicni. Che comunque non si fecero attendere.
“Guy, non mi sembra il caso di lasciare la Luna qui fuori, tutta la notte.”
“Potete lasciarla nello spiazzo del giardino”, la smontò Slisković666. “Chiudiamo il cancello e state più al sicuro che al centro de Spoleto!”
“A proposito di centro di Spoleto”, insisté ancora a opporsi Vicni, “in teoria avremmo un albergo prenotato.”
“Li chiamo io per sfissare”, finì di disarmarla Guy. “A quest’ora tanto non risponderà nessuno.”
Vicni si arrese. Credeva d’aver capito dove voleva andare a parare Guy. Slisković666 fece loro strada all’interno, prima spalancando il cancello alla maniera di un Mosè testimonial della ditta FAAC, poi precedendoli sull’ingresso nel retro, che tramite una scala conduceva di sopra.
“Voi potete dormire di qua”, disse Slisković666, indicando camera sua. “Il letto è a una piazza e mezzo. Ci dovreste stare tranquillamente.”
“E tu?”, gli domandò Guy mostrando stupefazione.
“Io dormo sulla poltrona che sta in salotto. È una specie de divano letto.”
“Capito, Vicni?”, esclamò teatrale Guy. “Vedi come sono i nostri fan?”
“Sono i fan più fan che esistano”, ripeté lei, a pappagallo e senza convinzione, lo slogan coniato in occasione della campagna di crowdfunding.
“Farebbero qualunque cosa per 2 Dualità. Svuoterebbero il loro piatto per riempire il nostro, se noi non avessimo nulla da mangiare. Ci cederebbero il loro letto, andandosi a rincalcare su una poltrona. Quando penso a queste cose, quasi non mi sembra vero! Però non lo posso permettere, mio caro. Sapere di averti relegato di là non mi farebbe dormire!”
“E allora che se fa?”, domandò Slisković666, disorientato dagli arzigogoli di Guy, che nemmeno a tarda ora rinunciava a dare spettacolo.
“Semplice: dormiamo tutti e tre insieme!”
Slisković666 rimase esterrefatto. Vicni, già da un pezzo rassegnata all’ineluttabile, si limitò a incenerirlo con lo sguardo. Però non disse nulla.
Nel più profondo imbarazzo di due terzi dei presenti, andarono a letto. Vicni scivolò sotto le lenzuola e si sfilò di dosso il minimo indispensabile, restando con una maglietta da notte molto lunga che la copriva fin quasi a metà coscia. Il pimpante e disinvolto Slisković666, re senza corona del Bencivenga, adesso legnoso all’inverosimile, si sdraiò completamente vestito sul ciglio.
“Altolà!”, gli intimò un Guy ormai a proprio agio meglio che a casa sua. “Quello è l’unico lato dove riesco a dormire sul fianco. Lì mi ci metto io. Tu stai nel mezzo.”
Al buio, tutti sottomessi alle capricciose direttive del frontman di 2 Dualità, rigidi si strinsero in quel letto che faticava a contenerli.
Fu Vicni a fare la prima, involontaria mossa che spianò la strada a Guy. Rigirandosi in un agitato dormiveglia, si adagiò addosso a Slisković666, che fermo come una sardina in scatola, con le braccia inchiodate parallele al corpo, non sapeva cosa fare, se provare a scostarla, col rischio di svegliarla, o che altro. Nel dubbio, rimase impalato.
All’altra estremità del letto, cioè pochi centimetri più in là, Guy emetteva profondi respiri come fosse pesantemente addormentato.
Perciò, quando poco dopo si sentì solleticare le parti basse, Slisković666 non ebbe dubbi che la ragazza gli stesse strofinando la mano sul cazzo, che gli si rizzò all’istante. Sentì quasi in sordina lo scorrere verso il basso della zip dei pantaloni, con quella stessa mano che aveva assunto il pieno ed eccitante controllo del suo uccello.
Raggiunse in fretta l’orgasmo. Una poltiglia appiccicaticcia e calda gli si posò sul bassoventre. Si era senz’altro macchiato maglia e pantaloni. Pace, pensò Slisković666 mentre la tensione si scioglieva nei suoi muscoli e prendeva sonno con la stessa rapidità con cui lo sperma era schizzato pochi istanti prima. Erano bastati pochi, sapienti movimenti di quella mano a farlo godere.
Trascorsero ancora parecchi minuti prima che Guy, che era sempre rimasto sveglio, passasse al contrattacco. Facendosi vicino a Slisković666, proprio come aveva fatto Vicni nel sonno, gli premette l’uccello sull’avambraccio, muovendosi su e giù simulando un coito. Fu una manovra estremamente piacevole. Fece appena in tempo a scendere fino alla mano di Slisković666, che accolse la sborrata, quasi fosse stata lei a condurre fin lì quel cazzo impertinente che aveva sfruttato il corpo inerme del fan addormentato per il proprio piacere.
Nessuno fece più movimenti sospetti. La notte, che pure stava per volgere all’alba, inghiottì il terzetto, concedendogli finalmente il meritato riposo.




Capitolo 9
I tipi che fanno strage di fica nel nostro ambiente

Per farsi perdonare la “scappatella”, aveva assunto il posto di guida per la seconda volta di seguito. Il cielo era fuligginoso, il motore della Luna pure.
Al risveglio, nessuno aveva fatto la minima allusione a quanto accaduto nottetempo. Nonostante avessero dormito rattrappiti in uno spazio angusto, erano di buonumore. Persino la scontrosa Vicni di poche ore addietro, piegatasi di malavoglia ad assecondare le voglie di Guy, appariva distesa in volto, e aveva conversato a lungo con Slisković666 quando, quasi all’ora di pranzo, s’erano ridestati. Lei, in realtà, non aveva idea di cosa fosse capitato sotto le coperte tra i due maschi, pur essendo certa che Guy fosse riuscito a soddisfare in qualche modo i propri istinti. Però l’essersi svegliata riposata e senza alcun sintomo di malessere aveva obliato ogni fastidio.
Congedato il fan, tanto felice d’aver ricevuto quell’ingannevole souvenir notturno da offrirgli la colazione e lasciarli ripartire senza ammorbarli con ulteriori richieste, 2 Dualità si ritrovarono di nuovo per strada.
“Tesoro, mica avrai lasciato lo smartphone a casa del nostro gentile ospite?”, domandò Guy, sbirciando sulla destra e vedendo la ragazza, infagottata in un maglione da badante moldava e col volto nascosto dagli enormi occhiali da sole alla Bono Vox epoca “Achtung baby”, scrutare il nulla dal finestrino.
“Eh? Dove?”, si riscosse lei. Presa da un’improvvisa isteria confinante col panico, si avventò sulla borsetta, rovistò con l’istinto tattile di un cieco che legge il braille e dopo pochi secondi estrasse l’oggetto del desiderio. “Eccolo, cazzo. Perché mi fai prendere questi spaventi, Guy?”
“Semplicemente mi faceva strano non vedertelo in mano da quando ci siamo svegliati. Eravamo sempre in tempo a tornare indietro a recuperarlo.”
“E sì. Guarda che alla luce del sole, sarà molto più difficile. Non cercare scuse per rituffarti sulla tua preda. Piuttosto: ma stanotte?”
“Radicale distruttivo!”, proclamò Guy. “E devo ancora finire di ringraziarti per essere stata tanto preziosa in quest’occasione.”
“Va beh, che potevo fare? Mica potevo boicottarti e costringerti ad andare all’albergo. Ormai eravamo lì…”
“Non hai capito, stellina. Il tuo assist è stato fondamentale per la piena riuscita del mio safari notturno!”
E le spiegò gli eventi succedutisi mentre lei dormiva. Vicni rabbrividì. Però era contenta per l’exploit del suo adorato socio. D’altronde, condividevano quel segreto, represso per meglio conciliare le istanze moralistiche imperanti nella scena. Inutile illudersi che non fosse così: l’omosessualità era ancora un marchio d’infamia in Italia. Con una carriera musicale in rampa di lancio, si erano detti che era meglio non uscire allo scoperto.
“Novità?”, disse Guy, notando la ricomparsa dello smartphone di Vicni.
“Indie Italie ancora non ha pubblicato nulla. Quel pezzente laido prima di mandare online la nostra intervista ci farà rosolare sullo spiedo. Vediamo Instagram, gli hashtag… Niente. YouTube… Zero. Twitter sulla fiducia non lo controllo nemmeno, aggiorno più tardi lo status e fine. Facebook… Tre nuovi mi piace sulla pagina.”
“Successone!”
“Commenti vari con complimenti sotto la nostra foto seduti sul palco del Bencivenga, soprattutto di gente che non è venuta al concerto. Ah, ecco: un tipo, o una tipa, non si capisce né dal nome né dall’immagine profilo, ci ha postato sulla pagina quattro foto di noi durante il concerto. Di te durante il concerto, a dire il vero.”
“Metti mi piace su tutt’e quattro!”
“E il cuoricino”, aggiunse Vicni. “Nell’ultima foto s’intravede una mia bacchetta. Mi taggo?”
“Sai bellezza, c’è una sola cosa che mi dà fastidio in questo tour che di per sé è impensabile persino ora che siamo praticamente a metà.”
“Il concerto più importante siamo costretti a farlo a Roma”, indovinò lei.
“Che schifo. Perché non vengono seppelliti tutti da un’immensa colata di merda? Gentaccia viscida che ti guarda dall’alto in basso. Non ci libereremo mai delle loro facce da fessi, della loro arroganza, della loro ignoranza da coatti, dei loro immondi maneggi, della loro violenza camuffata da goliardia…”
“…delle loro cazzo di battute omofobe…”, aggiunse Vicni.
“Sono la razza più ignobile che esista”, riprese a infierire Guy, irrorato di autentico disgusto nelle sue parole. “E quel che peggio, comandano da tutte le parti. Hanno mandato in cancrena ogni cosa bella in Italia. E stasera vado lì e sono costretto a essere tutto sorrisi e amicizia con quei cavernicoli da osteria!”
Nemmeno il contegno sempre benevolo e accomodante di Guy resisteva sotto la spinta dell’odio che entrambi provavano verso Roma, i romani e la romanità. Ritenevano che tutta la feccia sparsasi nel mondo, e più nel dettaglio nel loro mondo, fosse originata da lì. Dal ventre infetto di quella sudicia lupa che aveva appestato il pianeta riempiendolo coi romani.
Il loro livore si spostò quindi di poco, andandosi a focalizzare sul frontman del gruppo cui avrebbero fatto da spalla quella sera.
“Lo spacciano per un gran sex symbol”, disse Guy, sempre in tono sprezzante. “Dalle foto e dai video, mi pare più che altro un cinghiale.”
“A me sembra Ricky Memphis”, osservò Vicni, “hai presente?”
“Come no. La quintessenza del romanaccio cine-televisivo. In effetti in qualcosa ci somiglia. Che schifo…”, ripeté con ripugnanza.
“Giusto un po’ meno gonfio”, proseguì lei. “Insomma, il classico burino che piace alle femmine.”
“Infatti. Quello che non mi spiego, però, è come possa piacere alle femmine che seguono l’indie. I tipi che fanno strage di fica nel nostro ambiente sono completamente diversi. Sono più…”
“Sono più come te, eh?”, lo interruppe Vicni. “T’ho beccato! Altro che l’odio per i romani. La tua è invidia, caro il mio Guy!”
“Sciocchina”, ribatté Guy, affettando esageratamente l’eloquio alla maniera dello stereotipo del gay effeminato. “Dicevo che sono più del genere universitario fuoricorso fancazzista, lo sai. Poco sangue nelle vene, quella è la chiave. Io sono tutt’altra tipologia di maschio. Che per nostra fortuna è comunque apprezzata dalle tipe. Invece, quell’altro…”
“Sì, sì, colpito e affondato!”, insisté lei, divertendosi a punzecchiarlo.
“Che poi”, riprese Guy, imponendosi di non sputare più veleno sui romanacci, almeno per una decina di minuti, “tutta la faccenda di me cantante–imbroccatore etero subirebbe un altolà non appena decidessimo di dire la verità e chiudere con la pantomima dei White Stripes italiani, ex mariti, ex mogli, ex fratelli… Passerei in un nanosecondo da seduttore incallito a ominide col fascino di una sedia da campeggio!”
“Perché non facciamo questo ultimo tour sulla Luna”, propose a bruciapelo Vicni, “e quando abbiamo finito, riveliamo a tutti chi siamo realmente?”
“Tesoro, non dici mica sul serio, vero?”, le domandò Guy, allarmato da quell’uscita perentoria. “E poi? E 2 Dualità? Smettiamo proprio ora che incominciavo a divertirmi?”
“Siamo in giro ininterrottamente da quattro anni”, ribatté lei con un tono fattosi stanco, come accusando d’un tratto il peso di quell’arco temporale. “Due dischi, un ep e quattro singoli digitali, trenta-quaranta concerti l’anno… Magari ci prendiamo una pausa, che so, un anno o giù di lì, dove ognuno di noi avrà tempo per fare le sue cose.”
“Ma quali cose? Le mie cose sono le nostre. Sono il gruppo, tutte le mie cose ruotano intorno a questo, a noi due. Credevo fosse così anche per te.”
“Lo è. Proprio per questo te ne sto parlando. Non abbiamo nulla al di fuori di questo progetto. E non so se sia la cosa migliore.”
Guy iniziava a essere in difficoltà nel guidare, ragionare, ascoltare e parlare allo stesso tempo. Dato che non poteva accostare la Luna nella corsia d’emergenza, e zittirsi gli avrebbe oltremodo appesantito il cuore, smise d’ascoltare e di ragionare e riprese a parlare secondo il suo filo conduttore.
“E quando torneremo in pista, se torneremo, si saranno tutti dimenticati di noi”, prese a lamentarsi, immalinconito dalla piega inattesa data da colei che reputava la sua inseparabile metà musicale.
“Ma soprattutto, si saranno dimenticati delle rivelazioni sulla nostra relazione e sulla nostra sessualità e non avremo perso credito presso fan e stampa”, cercò di sdrammatizzare Vicni.
Guy non trovò parole adatte per proseguire. Cercò di parlar d’altro, coinvolgendo anche Vicni come se nulla fosse. Le chiese di rifargli il punto della situazione sui finanziatori del crowdfunding che avevano dato conferma della loro presenza quella sera. Da principio, faticava ad assimilare il senso delle risposte della ragazza. Poi fu più presente a sé stesso.

Pian piano si rianimò. Recuperò un certo spirito combattivo con l’approssimarsi dell’uscita dall’autostrada e il conseguente ingresso nel mefitico grande raccordo anulare. Inveire contro quei bastardi aveva un effetto catartico. Al primo imbottigliamento nel traffico capitolino somigliava nuovamente al Guy di sempre.




Capitolo 10
C’è assenza di gravità su questo pianeta

Mi faceva sempre quell’effetto lì. Terribilmente sgradevole. Un moto interiore paragonabile al venire sbatacchiato per la stiva di una nave col mare in tempesta. Metter piede sul suolo romano era ogni volta un immane supplizio. Avevo superato parecchi ostacoli nella mia vita. E parecchie fisime. Ma l’esser costretto a rapportarmi con quegli individui spregevoli, e doverli assecondare nella loro strafottente boria, era la parte deteriore di un’attività musicale che andava espandendosi, e le opportunità offerte dalla capitale non potevano essere ignorate per mere ragioni di legittima discriminazione territoriale.
Non ricordavo il momento in cui il mio odio verso i romani era divenuto viscerale. Forse durante quella gita alle medie, o per i vicini di ombrellone quando da piccolo i miei mi portavano al mare all’Argentario. O forse a furia di sentire quelle vociacce, in tv, al cinema, e averci a che fare ai concerti.
Quella domenica, mi attendeva una condotta irreprensibile all’And Vedy Tea Oh, uno dei luoghi trendy dell’indie capitolino. La quarta data del nostro tour eravamo riusciti a piazzarla in un posto senz’altro appetibile; per di più, avremmo aperto ai Solarium & Omicidi, gruppo giovane ma già abbastanza noto a livello nazionale, e nella loro rivoltante patria erano assurti al rango di divi. Tirando le somme, ci sarebbe stato un pienone.
Condividemmo online una foto in cui eravamo di spalle, appiccicati alla fiancata della Luna tipo uomo e donna ragno. La didascalia recitava: “Sbarcati dalla Luna sull’And Vedy Tea Oh di Roma! C’è assenza di gravità su questo pianeta. Speriamo di riuscire a piantare nel terreno la nostra bandierina: se ce la facciamo, vi aspettiamo stasera per un concerto galattico! Dopo di noi, Solarium & Omicidi.” Il messaggio subliminale era: “Preferiremmo restare così tutta la sera piuttosto che rischiare la lebbra staccandoci di qui e mischiandoci tra la merda romana. Vi odiamo e vi auguriamo le peggiori sofferenze.”
“Dai che tra diciotto, massimo venti ore saremo fuori da questo inferno”, mi disse Vicni mentre iniziavamo a scaricare la nostra roba.
“Mi sei sempre di gran consolazione, fatina nera.”
“Recito il mio ruolo di trista mietitrice. Tu sei quello easy e superpositivo, io la bastiancontraria per antonomasia.”
“Io più che superpositivo diventerò sieropositivo se sto troppo a contatto con questi lazzaroni.”
Feci un respiro e indossai la maschera. Non quella da palombaro, con le bombole e la muta, che pure mi sarebbe tornata comoda per restare sott’acqua, così da scansare ogni contatto, ma quella da ineffabile cantante dispensatore di sorrisi empatici e vagonate d’allegria.
Zavorrati della prima mandata di bagaglio musicale, facemmo il nostro ingresso nell’And Vedy Tea Oh. Feci un saluto convinto e generalizzato alla dozzina di persone già presente e ci trascinammo in zona palco per accatastare la strumentazione in attesa di istruzioni.
Il tempo di sdraiare la custodia della chitarra e di ripartire assieme a Vicni per il secondo round, ci venne incontro un tipo tutto scoordinato, ingobbito nel suo metro e novanta abbondante, secco e inguainato in un piumino blu abbottonato fino al mento. Camminava barcollando, col testone riccioluto che ondeggiava in balia dei suoi squilibri psicomotori.
“Aò ciao a regà, piacere, io me chiamo Cecchia”, esordì l’appendiabiti, dell’età apparente di venticinque anni mal portati. Aveva gli occhiali e la faccia da addormentato, col labbro pendulo e la bocca semiaperta.
“Guy. E Vicni. Anche se potrebbe non sembrare”, buttai lì. Cecchia non abbandonò l’attitudine da baccalà, ma purtroppo nemmeno la conversazione.
“Piacere regà”, ribadì Cecchia, che se avesse mangiato pastasciutta con la stessa foga con cui si mangiava le parole, sarebbe stato meno scheletrico, “io sto in fissa p’a’ vostra musica, er disco de coppia è ’na robba da paura!”
“Grazie, ne eravamo convinti anche noi”, gli risposi.
“Aò, io stavo a fare er cronfanting, ma me stava a scadé la carta de credito, poi ’na storia c’a’ banca, nun ve sto a raccontà, poi aspettavo che venivate a Roma così me compravo anche er primo disco, che quello de coppia già ce l’ho. M’a’ha portato un amico mio che ve stava a vedé quest’estate, lui stava ar mare dove suonavate voi, forse che v’o’o ricordate…” Biascicò un nome incomprensibile. Feci di sì con la testa.
“Spero che c’a’avete anche er primo disco da vende stasera, così m’o’o compro, perché quello de coppia già ce l’ho”, ripeté ostinato nella sua romanesca ottusità.
“Sì, certo, tranquillo, abbiamo portato tutto, finiamo di scaricare poi apparecchiamo il banchetto del merchandising”, gli disse sbrigativamente Vicni per togliersi almeno per qualche minuto il suo fiato fetido dal collo.
“Qua ce sta coso, lì, j’o’ho detto io de voi”, tartagliò ancora Cecchia, per nulla intenzionato a mollare la presa. “Quando ho saputo che stavate a organizzà er tour co’na data a Roma, e questi se staveno a rosicà. Aò, se ce stava er modo, penso che era questo qua. Poi ce staveno pure li Solarium & Omicidi, che so’ li mejo d’a’ scena romana. Erimo qui tutti insieme ’na sera, e io j’o’ho detto: famolo ’sto concerto!”
“Grazie caro. È per merito di persone come te che 2 Dualità stanno vivendo questo momento così speciale, di totale condivisione e scambio alla pari tra band e pubblico. Torniamo tra un attimo”, riuscii a dirgli, dopo di che ripartimmo spediti verso la Luna.
“Se ho capito bene, ha detto che il concerto ce l’ha organizzato lui.” La voce di Vicni era un misto di sbigottimento e disprezzo.
Il successivo viaggio all’interno del locale ci regalò un piacevole scambio di battute col promoter. Sempre col molesto Cecchia che si aggirava come un avvoltoio intorno a noi, vedemmo apparire un manzo sulla quarantina, con pochi capelli ingrigiti sulla testa ma allungati dietro, lo sguardo assente e un costume di Halloween da conte Dracula come uniforme di lavoro.
“Uè ragazzi, benvenuti all’And Vedy Tea Oh.” Parlava con accento milanese e la voce piatta da annunciatore di stazione ferroviaria dell’hinterland padano. “Vi hanno avvisato dei cambiamenti di programma?”
“Tipo?”, domandò Vicni, pronta a immolarsi sulla sua inespugnabile barricata difensiva.
“I Solarium & Omicidi arrivano dopo. Sapete, no, questa è una data speciale, fuori dal loro tour promozionale, è la data di casa, quindi hanno accettato volentieri di suonare, non gratis ci mancherebbe, con un rimborsino, non c’è l’albergo, la benzina, il viaggio, gli basta un rimborsino, te capì? Però, figa, loro arrivano dopo.”
“E quindi?”, lo incalzò Vicni.
“E quindi”, spiegò Rimborsino, “o fate il soundcheck adesso e quando arrivano i Solarium fanno il loro e poi suonate voi, ed è un po’ un bel casino, oppure, uè, è la soluzione migliore, voi montate la vostra roba senza fare il soundcheck e lo fanno solo loro, così si evitano menate per il fonico piuttosto che problemi tecnici durante il concerto.”
“Ma almeno cinque minuti di linecheck prima del concerto li possiamo fare?” Feci quella domanda cercando di non farla sembrare una supplica. Avremmo potuto impuntarci e minacciare che non avremmo suonato a quelle condizioni ridicole. Ma ci avrebbero probabilmente indicato la porta. Avrebbero comunque fatto cassa coi Solarium & Omicidi, che forti del loro massiccio seguito si atteggiavano a star a spese nostre, presentandosi all’ora che gli pareva e costringendoci a suonare in situazione quasi emergenziale.
“Figa, certo che potete, anzi dovete, siamo tutti qui per lavorare per il successo della serata”, proclamò Rimborsino col portamento del miliardario che lascia dieci euro d’obolo a un galà di beneficenza. La sua spudorata paraculaggine dimostrava come si fosse perfettamente integrato nel tessuto sociale della città dove s’era trasferito, assorbendo le peggiori iniquità della razza romana.
A tal proposito, tornammo ben presto in balia dell’insopportabilmente invadente Cecchia, che sproloquiò su un gruppo che a suo parere aveva dei punti di contatto col nostro. Questi tizi, diceva, erano una versione più acustica e più elettronica di 2 Dualità, e avevano addirittura avuto il privilegio di sentirselo confermare da Cecchia in persona, che incontrandoli prima di un concerto li aveva accostati a noi. Naturalmente, nel suo parlottio indecifrabile non riuscii nemmeno a intuire a quale accidenti di gruppo si riferisse.
A un certo punto, mi alzai. Avevo visto entrare delle persone e decisi di andargli incontro. Erano i Solarium & Omicidi e presumibilmente gente del loro entourage. Porsi cavallerescamente la mano a Vicni, che la prese e si alzò a sua volta. Cecchia continuò a parlare ancora per qualche secondo, quindi, a scoppio ritardato, tacque.
“Eccotelo, il tuo cinghiale”, mi sussurrò all’orecchio Vicni. La comitiva avanzava compatta su due file, come uno squadrone della morte della musica. Tazio Bautista detto il fornicatore, l’aitante e concupito leader della band, era al centro del raggruppamento posteriore. Era prestante, alto e robusto, un macho come se ne vedevano davvero pochi nell’indie italiano. Aveva le sembianze di un attore di film d’azione più che di un cantante. I capelli corti e dritti sopra, il viso squadrato dalle mascelle agli zigomi e permeato da una barbetta marroncina sfatta d’un paio di giorni, lo sguardo di sfida. Portava un giubbotto di pelle, aperto su una maglia a righine bianche e azzurre, che faceva intravedere pettorali e addominali da palestrato.
“Aò, ce stava er traffico der ritorno d’a’a partita, amo fatto un po’ tardi, io j’a’avevo detto a’j’artri che se sbrigassero”, venne a dirci Tazio Bautista, staccandosi dal codazzo. Voleva perorare la sua causa, forse per stemperare l’incazzatura che, a ragione, riteneva potessimo avere. Ci strinse la mano con apparente affabilità. “Noi semo tifosi avvelenati e c’avemo l’abbonamento in curva, ma sticazzi, stasera ce semo detti: annamo all’And Vedy Tea Oh e famo un po’ de caciara come ce riesce a noi!”
“Avete vinto?”, domandai. Quei luridi bifolchi avevano sforato l’orario del check per andare allo stadio a fare gli ultrà. I musicisti calciofili erano una tipologia umana che faticavo a comprendere.
“Mecojoni!”, mi spiegò Bautista. “Sti fiji de ’na mignotta nun ce staveno a capì ’na ceppa, li mortacci loro! J’avemo fatto ’n abbonamento premium perché annassero a vedé la lega pro! Stanno ancora addobbati negli spogliatoi!”
“Avete vinto”, provai a tradurre.
“Quattro a uno, anvedi! Ma nun te crede che stamo a penzà che ce sta solo er calcio, n’a’a vita nostra. E sticazzi, stasera s’a’a divertimo!”
Il fornicatore, pingue di vanagloria calcistica, mi prese poi in disparte.
“Aò, nun j’o’o dire alla donna tua, con tutto ’r rispetto: stasera ce staranno certi pezzi de sorca che nun l’hai mai visti tutti insieme sotto ar palco. Abbello, stamme a sentì: io e gli amici mia, er chitarrista e tutti i Solarium & Omicidi c’avemo er diritto de prelazione. Nun te immagini quante de ’ste bocchinare come se scateneno ner backstage. Aò, noi finimo er concerto, se damo ’na rinfrescata e famo entrà ’ste affamate de cazzo. Massimo quaranta minuti, je damo da magnà un po’ de sborra e poi ce n’annamo a casa. A quer punto ce ne stanno tante altre da sfamà. Basta che annate de dietro dopo che amo fatto noi, e te la puoi spassà con una de ’ste zoccole de prima fascia!”
“Terrò presente, grazie caro, apprezzo molto questo genere di ospitalità.”
“Che t’ha confessato Ricky Memphis?”, mi chiese Vicni non appena Tazio Bautista, sbraitando a destra e a manca, si avviò al check.
“Ha detto che dopo il concerto posso cornificarti facendomi il cazzo a punta con una delle ragazze che non scoperanno lui e quegli altri subumani. Dice che ne vale la pena.”
“Mi sembri possibilista.”
“Sul cornificarti? Siamo una coppia aperta noi due, tesorino, lo sai. Tu invece, non mi tradiresti con uno così?”
“Con Tazio Bautista detto il fornicatore?”, si schifò Vicni.

“No, parlavo del nostro amato fan Cecchia. Rieccolo che torna alla carica. Facciamo pari o dispari per chi se lo deve sciroppare?”



Capitolo 11
Solo moine da decerebrati

“Guy, ma non possiamo restare qui dentro un altro po’?” Guardai in alto, incrociando gli occhi, verdi e profondi, del mio cavaliere oscuro, che mi stava davanti, benevolo ma irremovibile.
“Dobbiamo sloggiare entro cinque minuti”, mi spiegò finendo di riabbottonarsi l’ennesima camicia del tour. “Il manager dei Solarium & Omicidi è stato chiaro. Devono allestire l’alcova per il dopoconcerto. Coraggio bellezza, è ora. Se poi esci di qui ancora in sottoveste, abbiamo ottime probabilità di raddoppiare le vendite del merch!”
Ero sempre riluttante a uscire dal camerino subito dopo il concerto. Stavolta di più, al pensiero di ritrovarmi assediata da quei vermi striscianti. Rimasi un ultimo istante ripiegata sulla poltroncina, col capo chino. Guy mi prese dolcemente la testa con tutt’e due le mani e se la poggiò sulla coscia. Fosse entrato qualcuno, vedendolo in piedi di spalle addosso a me seduta, avrebbe pensato a tutt’altro. In realtà Guy non stava reclamando un pompino. Mi fece un po’ di coccole, poi sempre con delicatezza mi mise le mani sulle spalle. Era un chiaro segnale per rompere gli indugi e andarcene. Per fortuna, i tecnici del locale e quelli a libro paga dei Solarium & Omicidi avevano già levato la nostra roba dal palco. Dovevamo soltanto recuperare gli effetti personali e filare.
Accolsi per metà il suggerimento di Guy: indossai il giubbotto di pelle senza cambiarmi la sottoveste con un abito più comodo. Lui tramite un fischio interpretò alla sua maniera l’opinione del maschio standard.
“Stanotte la più marcia gioventù de Roma avrà le vertigini ripensando al tuo clamoroso sex appeal!”, rincarò. “E impotenti e frustrati si disferanno di seghe sognando di possedere il tuo corpo!”
“Sei l’unico uomo che potrei degnare di considerazione nel raggio di mille chilometri”, avrei voluto rispondergli. Ma tenni fede al mio ruolo.
“E invece proprio come farai tu, si accontenteranno degli scarti lasciati sulla tavola dai Solarium”, replicai.
Lui non controbatté, né mollò la presa, che era soffice ma salda. Uscimmo mano nella mano dal camerino. Due scagnozzi dei Solarium & Omicidi ci aspettavano, pronti a fare irruzione casomai ci fossimo attardati. Superammo i secondini tirando a diritto. Dalla porta sul retro stavano rientrando i membri della band. Tazio Bautista detto il fornicatore ci salutò col gesto del pollice in su prima di sparire in camerino con gli altri. Guy ricambiò sorridendo.
“Con una sola occhiata t’ha fatto la radiografia, quel maiale da monta”, mi disse all’orecchio.
“Non che ci voglia molto. Sono già praticamente mezza nuda.”
“Però lo fai per ragion di stato, indi per cui è una nobile causa a volerti così irresistibilmente sexy!”
“Proprio. Chissà perché tra le ricompense del crowdfunding non c’è venuto in mente di mettere il calendario hot di Vicni”, commentai polemicamente.
“Non ci fai una bella figura quando sminuisci il tuo fascino”, disse Guy serio. “Chi ti vede così provocante e poi ti sente dire queste sciocchezze penserà tu sia in malafede. Testolina matta…” Mi sfiorò un angolo della fronte con le labbra. Era quanto di più vicino a un bacio potessi ricevere da lui.
Facendoci strada in un And Vedy Tea Oh gremito, raggiungemmo la zona deputata al merchandising. Avevamo allestito il banchetto prima del concerto, accanto a quello più sfarzoso dei Solarium & Omicidi, che in una botta di altruismo c’avevano permesso di stare lì e non relegati a distanza dal cuore degli affari. Guy si avvicinò al tipo che gestiva lo stand di quegli altri.
“Abbiamo già venduto un cd!”, mi annunciò tornandomi vicino, sfoderando la sua aria trionfalistica di facciata. “Ora però dobbiamo mettere le marce alte. Chi rimane qui fisso?”
“Tranquillo Guy, ci sto io. Tu però promettimi di ripassare spesso e di tenere sottocontrollo il telefono perché in questo bordello potrei aver bisogno di te e in fretta. Tipo per andare in bagno o a bere al bar o fuori a fumare.”
“Puoi contare su di me, principessa delle tenebre!”, mi rassicurò prima di allontanarsi. Era una delle poche certezze della mia vita: la costante presenza di Guy al mio fianco. Mi salì un groppo in gola a quel pensiero. Mi prese l’impulso irrazionale di richiamarlo immediatamente. Riuscii a resistere e pian piano a calmare i nervi.
Dopo qualche minuto, mi girai in direzione della sala, richiamata dal boato del pubblico. I Solarium & Omicidi erano saliti sul palco. Batterista, bassista, che aveva davanti a sé anche vari trabiccoli elettronici, tastiera e campionatore, e chitarrista. Si schierarono a ventaglio, lasciando un vuoto nel mezzo. I fan continuavano a vociare. Le urla d’acclamazione furono presto sommerse da una valanga di suoni sintetici che scatenarono il delirio.
Un minuto di musica ed ecco apparire il cantante. E le ovazioni tornarono a coprire i suoni che uscivano dalle casse. La silhouette del fornicatore dominava la scena. I musicisti facevano la figura della backing band di un artista solista, impalati e tenuti in disparte dalla debordante personalità del leader. Poi però, almeno a sentire quello che Tazio Bautista aveva detto a Guy, avevano tutti quanti il loro momento di gloria dietro le quinte.
Rividi il mio socio all’inizio della terza canzone del set dei Solarium. Mi venne accanto, sorridente ma taciturno nel marasma sonoro. Alla fine della terza canzone decisi di provare a fare un giro. Il locale era completamente impacchettato, era impossibile muoversi in libertà. La capienza era sui trecento spettatori, ma l’impressione era che ce ne fosse un migliaio. Non andai oltre il bancone del bar. Presi da bere e mi misi a guardare. E anche a riflettere.
Già durante il nostro concerto, l’And Vedy Tea Oh era abbastanza pieno e, romani a parte, era esaltante esibirsi in quelle condizioni. E non era un evento così frequente per un gruppo come il nostro.
Finito il nostro live e partito quello dei Solarium & Omicidi, la partecipazione era divenuta isteria collettiva. La sala, illuminata soltanto dalle luci di palco, era un magma di teste e mani che si agitavano senza sosta. Oltre ai display dei telefonini, che andavano su e giù da una parte all’altra.
Tutto ciò che accadeva sul palco era riconducibile alla figura di Tazio Bautista detto il fornicatore. Il quale alternava balletti sincopati da epilettico a pose statuarie, di certo per consentire alle sue fan di ammirargli il fisico e magari immortalarlo senza che le foto risultassero mosse.
Ogni dettaglio della sua performance era evidentemente ben studiato: dal modo in cui arringava la folla, al far ciondolare la mano che non teneva il microfono sotto il naso delle ragazze della prima fila, finché una di loro non gli si aggrappava e lui a mo’ di ancora di salvataggio restava lì incurvato, continuando a cantare nel tripudio generale.
Ecco, se a livello d’intrattenimento non gli potevo dir nulla, musicalmente i Solarium & Omicidi erano poca cosa, un gruppetto amatoriale che solo nel triste guscio dell’indie italiano poteva raccogliere un simile successo. Suonavano un banale techno pop romantico inglese anni Ottanta, però schematizzato nei canoni in voga da noi, cioè niente strofe e ritornelli immediati: al loro posto, l’indolente andazzo da cantautori leggeri ma allo stesso tempo pallosi alla morte, che si sentivano in dovere di sputarti in faccia le loro filosofie di vita, che poi erano seghe mentali, però messe giù con un tono intellettuale, così da far contenti i nostalgici della vecchia canzone italiana e i sapientoni delle nuove tendenze indie che arrivavano da noi dopo che nel resto del mondo erano già sfiorite da secoli.
Girai i tacchi, non prima che Tazio Bautista detto il fornicatore approfittasse di un break strumentale per lasciarsi cadere in braccio alle prime file e fare surf sulla testa della gente, che in estasi lo faceva fluttuare avanti e indietro, fino al ritorno sul palco. Fosse stato inghiottito dalle sue allupate fan, sarebbe stato un gran finale di concerto e soprattutto di carriera. Ma era riemerso e ce lo saremmo ritrovati tra le palle chissà per quanto. Avevo visto tutto quel che c’era da vedere. Tornai da Guy.
“La gente si beve proprio di tutto.”
“Io pure”, mi rispose. “Per sopportare questa tonnara ho perso il conto di quante consumazioni ho fatto fuori.”
“Questi schifosi poi non verranno a comprarci nemmeno una spilla.”
“Invece conto che qualcosa riusciamo a vendere. I Solarium giocano in casa, molta gente la loro roba già ce l’avrà. Noi per molti siamo una novità.”
“Una novità che non s’inculeranno di striscio.”
“Che linguaggio inappropriato a una signora”, rise Guy.
“Signora? Non vedo signore nei paraggi. La più elegante di queste troiette ti spara un bel rutto mentre sta per prendere in bocca il cazzo del suo tipo.”
“Tesoro, sei mitica quando parli da lesbica incazzata con le donne di bassa morale!”
“Perché mi sono allenata bene. Ce ne sono fin troppe di queste cretine su cui impratichirsi nel tiro al bersaglio. E non solo a Roma.”
“Non che con gli uomini stiamo messi meglio. Stiamo per avere visite, a quanto pare.”
Con manifesto disinteresse verso i bassi istinti dei fan dei Solarium & Omicidi, due individui si presentarono al banchino.
Uno era Nero Giardini, e faceva parte dei Brazilian Equinotio, famoso collettivo di area progressive. Così famoso che per me era un perfetto sconosciuto, ma ce la menò in maniera talmente ossessiva che in cinque minuti avevo imparato a memoria il suo curriculum.
Esteticamente era un sunto delle peggiori caratteristiche di hipster, intellettuali bohemien e residuati degli anni Settanta: capelli arruffati, baffetti, basco, occhiali per darsi un tono, sgargiante camicia vintage e pantaloni di velluto altrettanto stagionati, che per comprare quei vestiti dovevi essere un ricco figlio di papà che giocava a far l’artista. Era bolso e tarchiato, senza collo.
L’altro, con Nero Giardini che ragionava di stronzate con Guy, aveva approfittato per appiccicarmisi addosso come una ventosa. Tommaso Inattesa lo avevo sentito nominare, era uno dei tanti cantautori della nuova scuola romana. Se già la vecchia scuola era penosa, questi rampolli facevano addirittura rivalutare i loro inutili predecessori.
Mi faceva ribrezzo. Era dinoccolato e spigoloso, con un paio di ridicoli baffetti da sparviero su quella faccia priva d’interesse. Era vestito di tutto punto, giacca e cravatta. Cercando d’ignorare il ridicolo cappello a tesa larga che lo faceva sembrare ancor più insignificante di quanto già non fosse.
Faceva il galante, e siccome io gli avevo dato spago, nel senso che da principio ero stata ad ascoltarlo, e quindi secondo lui era un invito a insistere, mi mise alle corde con una mistura di cazzi suoi raccontati senza ritegno e domande puerili alla sottoscritta. Ero perduta, non potevo nemmeno invocare l’aiuto di Guy, sempre in balia di Nero Giardini.
“Me perdonassero er francesismo se ce stanno li francesi qua in giro, io c’ho pure stato a Parigi, ma penso che qui te fai ’na bella rottura de cojoni! Perché nun annamo a farse du’ giri de vino de li castelli all’osteria qua de fronte, ce sta un amico mio a servì a li tavoli.”
“Dobbiamo restare a controllare il banchetto.”
“Aò e ce lo so, stavo a scherzà! Però dopo, magari, anziché far chiusura co’sta banda de sciamannati… Io sto a fa’ un concerto domani. È ’na robba informale, ce stanno un po’ de amici, un po’ de vino e un po’ de chitare. Tanto uno er lunedì nun c’ha mai ’n cazzo da fa’, così se semo inventati ’ste serate tutti i lunedì. Me farebbe piacere se passi.”
“Dobbiamo ripartire presto domani.” Rispondevo come una macchinetta, ma quello seguitava.
“Mai ’na gioia in ’sta vita, a regazzì… C’a’a musica e c’a’a scrittura. Io si nun avrei avuto successo c’a’a musica c’a’avrei fatta c’a’a scrittura. Mo’ sto a scrive ’r nuovo racconto mio, ’na storia de un ragazzo colle pezze ar culo che però ebbe successo n’a’a musica e se sposa c’a’a ragazza dei suoi sogni. E come lo finisco lo mando a li amici miei che lavoreno da un editore. E je dicessero all’editore di pubblicarme sinnò me incazzo!”
“Anche il mio gatto fa lo scrittore.”
“Ahahah, anvedi, bella ’sta battuta, mo m’a’a segno, sei gajarda te! C’hai lo spleen, come se dice. Me fanno impazzì le donne così.”
Fui salvata dalla fine del concerto. Vedendo la fiumana che si stava per riversare fuori, Nero Giardini e Tommaso Inattesa fuggirono per non dovervisi mischiare. Non erano tra i finanziatori del crowdfunding e non ci supportarono acquistando qualcosa al banchetto. Solo moine da decerebrati per farsi belli, noi qui noi là noi su noi giù. Tommaso Inattesa, nemmeno se gliel’avessi data avrebbe speso qualche spicciolo per un cd o una maglia.
“Sono sempre più vicina all’esaurimento nervoso.”
“Credevo fossi vicina all’imbrocco del pennellone.”
“Guy, abbi pietà di me.”
“Nessuna pietà! Anzi, adesso ti calamito qui qualche altro fenomeno da baraccone che ci svolterà la serata! Dal banchetto dei Solarium & Omicidi, con un prodigioso processo di telecinesi, li devierò qui da noi. Guarda se non succede. Al mio tre. Uno… Due…”



Capitolo 12
Simbolicamente piazzata sopra la tazza del cesso

Rimasero finalmente soli. Erano le ore notturne al confine con l’alba. Da fuori si udivano tenui pigolii di uccellini e un più sostanzioso sferragliare di mezzi motorizzati. Avevano una stanza con letto a castello, ma solo una lampada funzionante, quella di sotto, sicché lei si ritrovò al buio non appena spenta la luce grande. S’erano portati in camera più cose che potevano, anche strumenti. Le cronache di furgoni di musicisti scassinati e depredati d’ogni bene erano purtroppo assai frequenti. In quella città del cazzo, poi, nemmeno un accendino usato avrebbero avuto l’azzardo di lasciare incustodito.
Impossibilitati a parcheggiare la Luna in un luogo sicuro, avevano compiuto l’ennesimo scarico, già stremati dalla serata. Pareva di stare in un ripostiglio stipato all’inverosimile. Persino in bagno, tra spazzolini, flaconi di shampoo e creme struccanti, facevano capolino pezzi di batteria e vari cavi di alimentazione, mentre la valigetta con la pedaliera degli effetti di chitarra era stata simbolicamente piazzata sopra la tazza del cesso.
“Quante ore di sonno abbiamo all’incirca?”, domandò Vicni, terrorizzata dal guardare l’orologio.
“Dipende quando decidiamo di alzarci. Alle undici e trenta abbiamo l’intervista negli studi di Radio Fregola.”
“Più a ridosso possibile! Metti la sveglia alle dieci e venticinque.”
“Sì dai, ce la facciamo in un’oretta, la radio è in zona.”
“Io sono a pezzi, fratellino. E lo sarò anche quando mi sveglierò. Facciamo questa benedetta intervista, ci godiamo il day off lontani dall’inferno romano e l’indomani ci svegliamo pimpanti per il prossimo concerto.”
Guy, da sotto, confermò con la testa. Non potendolo vedere, Vicni lo interpretò come silenzio–assenso e divenne meno apprensiva al pensiero di non addormentarsi in tempi brevi. Anzi, la conversazione riprese quota.
“Comunque al di là di tutto il sudiciume”, osservò lui, “il milanese romanizzato, quella mandria di musicanti da strapazzo, quell’altra mandria informe dei loro fan eccetera, per noi è stata una bella vetrina. Abbiamo venduto più merchandising che nelle prime tre date del tour messe assieme!”
“Secondo me alcuni volevano comprare la roba dei Solarium e nel casino hanno preso per sbaglio la nostra.”
“Non lo escludo. Prendi il quoziente intellettivo di quelli che sono transitati al banchetto, fai la somma e verrà fuori una specie estinta di ornitorinco.”
Ù ù ù ù ù”, fece Vicni, col gesto della banana a corredo dell’equiparazione tra romani e primati. Si disimpegnò poi a inveire ai danni di quell’ignorantone di Tommaso Inattesa e dei suoi patetici tentativi d’imbrocco.
“Reginetta di bellezza, sappi che a me è andata molto peggio”, confessò Guy, quindi le raccontò l’esperienza avuta nell’ultima sortita fuori dal banchetto merchandising, appena concluso l’assalto postconcerto dei fan.
Vagando nei paraggi del camerino, momentaneamente off limits in quanto appaltato alle voglie lubriche dei Solarium & Omicidi e delle loro assatanate seguaci, si era imbattuto in una ragazza che, rimbalzata dall’harem, non si dava pace per l’impossibilità di accogliere in sé il cazzo di uno dei musicisti.
A ben vedere, appariva ragionevole che le fossero state preferite altre femmine per soddisfare gli appetiti dei musicisti. Era una buzzicona di proverbiale rozzezza, con un cesto di riccioli biondi a sovrastare il viso gonfio ed esageratamente imbevuto di fondotinta e il fisico sfatto come nemmeno dopo sei gravidanze. I jeans xl mettevano in risalto un culo altrettanto abbondante, e le braccia, scoperte da una maglietta con le maniche tagliate di traverso, erano poderosi rotoli di adipe.
“Nun me fanno entrà ’sti fiji de buona donna”, s’era lamentata, non si capiva se parlando da sola a voce alta o rivolta al nuovo arrivato.
“Si vede che sono al completo. I camerini sono molto più piccoli di come sembrano da fuori”, aveva risposto un sorridente ma cauto Guy. Leggeva la fame negli occhi di Arputeglia, e presumeva d’essere un potenziale obiettivo per il suo cenone.
“Pure tu stavi sur palco”, aveva argomentato, confermando i suoi sospetti.
“2 Dualità. Abbiamo aperto il concerto ai Solarium & Omicidi. Siamo in tour grazie a una campagna di crowdfunding che in questi giorni ci sta portando a suonare varie parti d’Italia…”
Nel tentativo di distrarla, aveva fatto un po’ di promozione, ma aveva ottenuto l’unico effetto di ingrifare ulteriormente la ragazza, che aveva preso a chiamarlo Guido con un’immaginifica assonanza interpretata a suo modo.
“A me i musicisti so’ er top”, aveva proclamato Arputeglia, che nel parlare non lesinava palpeggiamenti alle braccia e al petto di Guy.
“E beh.” Rara occasione in cui Guy non sapeva cosa dire, e soprattutto non sapeva cosa fare. L’istinto primario, quello di sopravvivenza, gli suggeriva di dileguarsi nel giro di trenta secondi. Invece era rimasto alla mercé di Arputeglia, la quale, dopo avergli fatto altri complimenti, sempre nel suo stile non proprio da fine dicitrice, s’era infine sollevata la maglietta, mostrandogli due tette faticosamente contenute da un reggiseno bianco, trasparente in alcuni punti e ricamato nella zona dei capezzoli. Finanche nella semioscurità di quell’anfratto dell’And Vedy Tea Oh, ai confini del backstage e a un tiro di schioppo dalla perdizione, il seno ingombrante di Arputeglia si stagliava come un totem che, rianimatosi d’un tratto, era pronto a schiudersi e schiacciare ogni forma di vita presente nei paraggi.
“A Guido, dimme la verità, n’n’a’hai mai viste du’ zinne come le mie. Mett’e’mani qua!”
“Gliele hai toccate?”, domandò Vicni, ascoltando dell’aspirante groupie all’assalto del suo ometto così ligio alle proprie tendenze omosessuali.
No! Cioè, lei mi ha preso le mani e me la pigiate sulle poppe. Poi è passata al livello successivo, strusciandomi la passera sul pacco. Ti giuro che riuscivo a sentire lo sfrigolio delle cerniere lampo che si scontravano. Era totalmente andata! Per questo sono riuscito a liberarmi e battere in ritirata. Mi sono scollato dicendo che se mi vedeva la mia fidanzata, tu nella fattispecie, era la fine. Non credo abbia afferrato appieno, ma almeno non m’ha inseguito. Fosse successo a ruoli invertiti, sarei finito ar gabbio per molestie sessuali!”
Fuggito dalle profferte di Arputeglia, s’era rifiondato di gran carriera al merchandising, risalendo dalla brace nella padella, giacché era in corso un vertice di raffinati intellettuali, capitanati da un Cecchia scatenato.
“Aò a regà, da paura!”, stava strepitando, cercando di coinvolgere nella sua foia l’intero circondario. “Quando stavate a fa’ ‘Così lontani così diversi’ pareva che staveno a tremà li muri. Io ce sto in fissa c’a’a canzone lì, me possino cecarme, hai capito come?”
“Ho capito, ho capito, so’ capiente”, gli aveva risposto un altro romanaccio, senza che peraltro la domanda retorica di Cecchia fosse indirizzata a lui. Questi, peraltro, aveva proseguito a furoreggiare.
“Io me penzo che voi siete ’r futuro d’a’a musica italiana n’a’a direzione der pop de qualità, quello che sta contaminato co’e’e nuove tendenze de oltremanica, de oltreoceano, de oltrecortina, me capite?”
“T’o’ho già detto, so’ capiente”, s’inserì ancora quello. Capiente era uno dei finanziatori del crowdfunding, venuto a incassare la ricompensa. Era un individuo cristallinamente anonimo, fatta eccezione per la proterva romanità. Ribadendo a più riprese d’esser capiente, Capiente faceva da spalla comica a Cecchia in una curiosa rivisitazione del classico duo da avanspettacolo. Nel loro caso, lo stordito che propende al vaniloquio e il doddo che non capisce una mazza ma cerca di restare al passo, entrando di continuo a sproposito nei discorsi dell’altro. Il sorriso di Guy era tirato come quello di una diva del cinema in là con gli anni che s’è tolta le rughe e rifatta le labbra dal chirurgo plastico. A un certo momento, Cecchia se n’era andato. S’era congedato continuando a sbrodolare elogi senza costrutto e riproponendo la confusa tiritera secondo cui quel concerto era stato patrocinato anche da lui.
Risolta quell’ingombrante e fastidiosa presenza, Guy e Vicni si erano dovuti cibare i finanziatori, otto tra ragazze e ragazzi. Liberi dai vincoli imposti dallo strapotere di Cecchia, avevano potuto sguinzagliarsi, tempestandoli di domande e richieste, la più pressante delle quali consisteva nel rivedersi e passare insieme la giornata seguente. Tutti, infatti, davano per scontato che 2 Dualità avrebbero trascorso il day off nella città eterna. Con fermezza ma fingendo rincrescimento, Guy aveva frustrato i loro piani di devastazione psicologica, assicurando che sarebbero ripartiti presto. Sconfitti dall’evidenza, i fan si erano fatti più mansueti, e il loro contegno da cani bastonati aveva concesso un po’ di respiro a Guy e Vicni, che iniziavano a intravedere lo striscione del traguardo.
“Tra le bocce smagliate della buzzurra e quell’altra corte dei miracoli, mi sentivo preso tra due fuochi”, ammise Guy. “Tipo scegli di che morte morire.”
“Guy, forse dovresti iniziare a fare la rockstar a tutto tondo e cedere al calore delle tue fan. Ti assicuro che le donne possono dare tanto!”
“Splendore nel buio, io con le donne ci sono stato. Anche prima che con gli uomini. La prima volta in assoluto, è stata con mia cugina. Avevamo quattordici anni. Un giorno entrò in una stanza dove c’ero io che mi stavo spogliando. Al posto di scappar via come ho fatto io stanotte, si avvicinò e mi chiese se poteva toccarmi. Io m’ero tutto intirizzito e lei non aveva idea di come maneggiare un cazzo. Lo agitò a casaccio in tutte le direzioni, senza che nemmeno mi diventasse duro. Fece questo lavoro in silenzio, forse cinque minuti, forse meno. Anch’io non dissi nulla, guardavo alla finestra e lei continuava a muovere la mano senza che succedesse nulla. Alla fine smise, se ne andò e finì lì. Poi ho avuto delle storielle, roba da ragazzini; quando facevamo l’amore, cercavo di convincermi che mi piaceva, mentre in segreto pensavo a un mio compagno di classe o a un altro ragazzo con cui andavo a lezione di chitarra.”
“Non me l’avevi mai raccontato.”
“Non me l’avevi mai chiesto. Se per questo, nemmeno io ti ho mai chiesto nulla sulla tua inattaccabile vita privata.”
“Hai fatto bene. Non c’è molto da raccontare.”
“Però sarebbe carino se mi raccontassi qualcosa”, insisté lui. “Io ti ho raccontato queste cose che non avevo mai raccontato a nessuno. Per pareggiare, anche ora tu dovresti svelarmi un tuo segreto!”
“I miei segreti non sono simpatici e innocenti come i tuoi. I miei segreti sono segreti. Buonanotte, Guy.”
Da sopra, non giunse più alcun suono, tranne il lieve brusio del respiro della ragazza. Guy spense la luce e cercò a sua volta di dormire.




Capitolo 13
Dal mandante di questa mattanza

Svicolando con la stessa perizia con cui superava i pochi mezzi più lenti e arrancanti della Luna, Vicni tornò a sollecitare Guy affinché sondasse i social network in cerca di notizie su di loro.
“Instagram”, comandò la ragazza, nel mezzo di un acceso duello con un camper d’immatricolazione prebellica, che pure reggeva l’urto dei frenetici tentativi di sorpasso del battagliero ma lumachesco minivan a pieno carico.
Hashtag #2dualità e #2dualitàsullaluna”, digitò Guy a voce alta. “Vediamo… Mhhh… Poca roba, ma di scarsissima qualità. Una foto quasi decente di noi due a Spoleto. La ricondivido sui nostri canali?”
“Twitter!”, esclamò Vicni, ignorando le argomentazioni del socio.
“Zero”, rispose lui dopo aver consultato lo spazio virtuale dei cinguettii da centoquaranta caratteri.
“Ma perché gli italiani non usano Twitter?”, si lamentò Vicni. “È così comodo per i loro cervelletti, tre righe di minchiate e lo status è aggiornato per la gioia dei follower. Leggi che dicono su Facebook.”
“Stellina, navigare online a tuo nome è più sfiancante di un’ora di circuito di esercizi cardio in palestra.”
“Facebook!”
“Ora si comincia a ragionare. Io ho cinquantasei notifiche e dodici richieste d’amicizia. Invece dalla bacheca vedo che tu sei taggata in seimila miliardi di foto. Quasi più di me che sono il leader.”
“Guy, tu sei il frontman, non il leader. Siamo una diarchia. Niente leader in 2 Dualità.”
“Per il resto, commenti del caiser, sia sulla nostra pagina, sia sui nostri profili personali. Bravi, bel concerto, emoticon e altra roba del genere, poi le solite domande stile fantasia al potere, quando venite a San Benedetto del Trento, quando tornate a Mazara del Ballo…”
“Mai più!”
Aò, tornate presto a Roma, daje!”, lesse ancora Guy, imitando il ripugnante accento romanesco.
“Ci torneremo solo col tritolo!”
“Vediamo se c’è qualcos’altro…”
“Guarda un po’ le pagine delle webzine, i nostri contatti che ci scribacchiano sopra, guarda lì”, insisté lei.
“Sto guardando!”, sospirò Guy, fiaccato dalla veemenza che Vicni metteva quand’era alla guida e doveva demandare il controllo frenetico della vita virtuale. D’altro canto, lo rincuorava un minimo l’interesse che mostrava, giacché lo portava a sperare che le dichiarazioni sull’ipotesi di una pausa indeterminata non fossero così concrete e convinte.
“Indie Italie che dice?”, lo incalzò ancora Vicni.
“Ah, ecco, sì, c’è il live report del concerto di Roma.” Guy scorse rapidamente l’articolo col pollice destro. Quindi provò a riassumere.
“Sbrodolano scandalosamente sui Solarium & Omicidi, e il carisma di Tazio Bautista detto il fornicatore, e i suoni e l’attitudine, e i testi che parlano a un’intera generazione…”
“C’è scritto anche che camminano sulle acque?”, commentò una sempre più spazientita Vicni.
Guy proseguì nella lettura senza aggiungere benzina sul fuoco. Avrebbero dovuto aggiungerla ben presto, visto lo sforzo cui Vicni stava sottoponendo il malconcio motore della Luna.
“E di noi, che dicono?”, gli chiese dopo qualche istante di silenzio.
“Un bel cazzo di nulla… No, aspetta, ci siamo. Le ultime tre righe sono tutte nostre! ‘In apertura gli ottimi 2 Dualità, eclettico progetto attualmente in tour grazie ad una campagna di crowdfunding di sorprendente successo’.”
“Ma questo è un copia-incolla del nostro comunicato stampa!”, sbottò Vicni inferocita. “Roba da non credere. Vai dal mandante di questa mattanza. Controlla il profilo personale di quel trombone di Fosco Quiličić.”
“Sei sicura?”
“Vai!”
“Allora… Oggi non ha ancora condiviso nulla, il post più recente è di ieri… Eh… L’ultimo video dei Solarium & Omicidi… Sublime poesia urbana per iniziare al meglio la giornata… Pubblicato alle 15.30…”
“L’ha iniziata bene sì la giornata, se s’è svegliato alle 15.30 o giù di lì”, sibilò Vicni con acrimonia.
“Centonovantatre mi piace, ventisette commenti. E un toccante commento di Tazio Bautista detto il fornicatore. L’emoticon del cuore.”
“Mi sta venendo il mal d’auto anche guidando io. Ma l’intervista, non l’hanno pubblicata? Che cazzo aspettano? Siamo in pieno tour, l’intervista riguardava la promozione del tour e il crowdfunding per il tour… Facciamoci sentire! Di’ a quelli dell’ufficio stampa che mandino un sollecito.”
“Gli scrivo subito un messaggio. E comunque, tesorino mio, io te l’avevo detto che quella sera allo showcase dei gruppi della Hanno Tradito Records dovevi imboscarti con Fosco Quiličić e dargli un po’ di bacini sulla punta dell’uccello. L’avrei fatto io, ma quel baluba fa finta d’essere etero e non si comprometterebbe mai con uno del suo stesso giro.”
“Bere la robaccia putrida di Fosco Quiličić… Piuttosto mi faccio un frappé con la cicuta come Socrate!”
“Che poi è il classico tipo che non gli daresti un euro, ma secondo me tra i pantaloni ha qualcosa che vale la pena d’essere esplorato”, osservò Guy senza costrutto, quindi divagò. “Il fatto è che la vita in tour offre tonnellate di occasioni di socializzazione, per così dire. Non c’è nemmeno bisogno d’andarsele a cercare. Ti metti in visione et voilà, arriva qualcuno che ti vuol conoscere. Ti appendono una chitarra al collo, ti piazzano un microfono davanti alla bocca, e raccatti meglio d’un pescatore che tira in secco le reti!”
“Non oso immaginare i gruppi famosi cosa non combinino.”
“Immagina pure. Poi moltiplica per cento. Però non puoi negare che anche tu, sottosotto…”
“Guy, sei tu che ripeti sempre che il rock’n’roll è tutta scena”, disse tranquillamente Vicni, tornata in possesso dei suoi nervi dopo la sfuriata di poco prima. “Noi interpretiamo dei ruoli perché ci conviene farlo. Io devo fare la donna fatale d’altri tempi, e la faccio.”
“E la fai alla stragrande!”
“Meno male. Resta il fatto che, credimi, non ho scheletri nell’armadio. E quando avrei potuto collezionarli? In questi ultimi anni abbiamo vissuto quasi in simbiosi, ho passato più tempo con te che con i miei gattini amorosi Carrie e Dawson!”
“Lo so. Eppure sono geloso di loro!”
“Credimi”, gli ripeté, con un’enfasi persino eccessiva, come dovesse discolparsi da qualche accusa infamante, “le mie storie sono terraterra. Non ti racconto molto perché potrei raccontarti solo piccole banalità quotidiane.”
“Ma se è il mio sogno proibito da quando ci conosciamo sapere delle tue piccole banalità quotidiane!”
“Va beh”, concesse Vicni, divertita da quell’affettata manifestazione di euforia. Certe volte, Guy doveva per forza essere stanco, irritato, apprensivo per qualche problema. Eppure dalle sue casse uscivano soltanto melodie allegre e spensierate, che diffondeva nell’ambiente. Adesso la incitava con ridicola convinzione a narrargli episodi di cui sostanzialmente non gli importava un accidente. Fu attraversata da un brivido di malinconia al pensiero di doversi privare della sua presenza.
“Sai una cosa?”, le disse subito dopo. “Sono contento che le circostanze della vita ci abbiano fatto incontrare. Non sai mai la gente che trovi. Io sono stato molto fortunato.”

“Anch’io, fratellino.”


Capitolo 14
Una band di geniale pop elettronico

Mi pareva d’essere in giro da una vita. Parcheggiai la Luna, mi sganciai la cintura di sicurezza e rimasi immobile, con la testa appoggiata all’indietro e gli occhi chiusi.
“Tesoro, tutto bene?”, fece Guy, dandomi un colpetto sulla mano.
“Sì, sì, solo un calo di pressione. Ora mi bevo un caffè e mi ripiglio. Poi scarichiamo la roba.”
“Certo. Non c’è fretta. Intanto però micina mia mettiti qui accanto a me a fare un po’ di fusa.”
Passai dal posto di guida al doppio sedile passeggeri. Mi adagiai sul suo petto. Lui mi massaggiò piano, prima le spalle, poi sul capo, quindi di nuovo giù, come un pranoterapeuta. Stavo per abbandonarmi a quel beato torpore, quando sentii il suo respiro più vicino, che soffiava nella zona del mio orecchio. Al quale dette un morso, affondandomi i denti nella cartilagine.
“Ahi!”, strillai ritraendomi dalla sua presa. Ebbi l’impulso di mollargli un ceffone, ma non feci altro che sollevare leggermente il braccio e farlo ricadere inerme.
“Visto? Son bastati pochi istanti per farti tornare tutta l’energia!”, mi disse sorridendo angelico.
“Che cretino che sei.”
“Questo martedì promette scintille”, divagò lui. “Non qui, temo. Se hanno reintrodotto il coprifuoco, come sembra a vedere le strade deserte che c’han portato al Thunder Room, auspicare un pubblico numeroso mi pare utopistico.”
“Sull’evento Facebook c’erano sessantuno partecipanti confermati. Ne venissero anche solo trenta–quaranta, il posto da fuori sembra piccolo, ci andrebbe bene. In più, I Visitors porteranno qualcuno.”
“Dal crowdfunding quanti? Nove?”
“Otto. Uno dice che ha un impegno.”
“Chiaro, chi non è pieno d’impegni a Carpi e dintorni il martedì sera?”
“E Carpi sia”, sospirai, come se si potesse cambiare la location del quinto concerto del tour sulla Luna.
Il Thunder Room era inserito al primo e ultimo piano di una palazzina nel centro del paese. Da fuori, aveva l’aspetto di un edificio qualsiasi, non c’era neppure l’insegna. Solo sul portone a vetri, un foglio a4 appiccicato dall’interno segnalava l’esistenza di un circolo ricreativo, col logo e una freccia rivolta verso l’alto a significare che c’era da fare le scale per arrivarci. Il pianoterra era la classica casa del popolo, con l’ampia sala bar e i vecchini che leggevano il giornale o ragionavano a voce alta tra loro o col barista.
“Ancora giusto quei sessant’anni e farò la loro stessa fine”, mi disse Guy precedendomi lungo le scale.
“Il rock mantiene giovani.”
“Sì ma l’indie italiano al contrario fa invecchiare precocemente!”
Quanto aveva ragione. Mi capitava spesso di pensarlo, girando per concerti oppure nei locali della nostra città; vedevo ragazze e ragazzi più o meno della mia età, tra i venti e i trenta e qualcosa insomma, ma che parevano morti dentro. La nostalgia iniziava ad ammazzarli già da piccoli, poi si ritrovavano nel mondo dei grandi e si rifiutavano di farsene una ragione, sicché seguitavano a rifugiarsi nei ricordi del passato che spesso distorcevano per farli sembrare più belli. Il risultato di questi giovani–vecchi che non viaggiavano, che non facevano esperienze fuori dal loro guscio, barricati nelle false certezze del loro piccolo mondo, si ripercuoteva anche sul ristagno della scena musicale.
Di sopra, emerse il concetto di room del Thunder Room. Era una stanza, giusto un po’ allungata, col soffitto basso e le pareti rivestite di un orribile laniccio grigiastro. In fondo c’era una pedana striminzita a fungere da palco. A metà strada tra l’ingresso e il palco, il mixer. Per il resto, fatta eccezione per le panche a contrasto con le pareti laterali, era tutto disadorno.
“Non c’è nessuno”, feci notare a Guy, che se n’era accorto pure da sé.
“Iniziamo a portar su la roba. Poi chiediamo al bar se sanno qualcosa.”
“Chiediamo prima d’iniziare a portar su la roba. Potrebbero aver annullato la serata; meglio evitare la fatica dello scarico se poi è tutto saltato.”
“Ohi ohi quanto pessimismo buttato lì a caso. Chiediamo subito al bar se sanno qualcosa!”
“Ottima idea, Guy.”
In realtà, quando risalimmo, trovammo due tizi, uno dei quali era il fonico. Come prima cosa, ci dettero i buoni consumazione, da utilizzare proprio al piano di sotto. Ci spiegarono che non avendo la licenza per gli alcolici, si erano convenzionati col bar, facendo cassa mediante una percentuale sulle bevute che i frequentatori del Thunder Room facevano di sotto.
“Così tutta la sera vedremo gente schizofrenica che va su e giù di continuo, anche durante il concerto”, dissi mentre scaricavamo dalla Luna la prima mandata di strumentazione.
“Io sarei contento se succedesse. Vorrebbe dire che è venuto qualcuno.”
Verso la fine del soundcheck arrivarono I Visitors. Erano in cinque, una ragazza e quattro ragazzi, intorno alla trentina a occhio e croce. Sull’evento Facebook erano etichettati come “una band di geniale pop elettronico”. A giudicare dai pezzi che accennarono al check, appena noi completammo il nostro, sembravano il classico complesso indie folk svagato, con strumenti per lo più acustici. Erano anche descritti con l’epiteto di “local heroes”, che voleva dire tutto e nulla. Soprattutto nulla.
Cenammo tutti insieme, al piano di sotto. A quell’ora, i pensionati habitué del circolo erano rientrati dalle mogli e la sala era deserta. Il cantante dei Visitors, che ogni tanto suonava la chitarra e l’ukulele, tenne banco con frizzi e lazzi. Era stato il primo a venirci incontro e presentarsi appena eravamo scesi dal palco dopo aver provato i suoni. Era uno di compagnia, e come lui i suoi colleghi, i tipici maschi gioviali e amichevoli che c’erano in quelle terre. Al contrario la tipa, che doveva essere la ragazza di Ronald Vegan e che aveva delle pose da bad girl emancipata, se ne stava in disparte guardandosi intorno con aria torva. Vista da vicino, aveva i lineamenti di una ragazzina, pareva una diciottenne che si atteggia in modo poco credibile a donna matura.
Ronald Vegan, spalleggiato dagli altri Visitors, ci raccontò di quando avevano suonato alla Festa dell’Unità di Modena nel delirio generale, con la gente che ballava sui tavoli, rovesciando in terra piatti di lasagne e di culatello, tortelli al ragù e bocce di lambrusco. Guy, da copione, gli dava spago, pungolando un ego già debordante che magnificava i meriti dei Visitors ben oltre lo standard di raccattati che sospettavo ricoprissero, persino nel loro distretto, dove lui lasciava intendere che le masse si muovessero non appena iniziavano ad accordare gli strumenti.
La camicia di Ronald Vegan, un drappo variopinto di fiori psichedelici, pareva l’uniforme di un fricchettone andato a svernare alle Hawaii. Riuscii a inquadrarlo appieno solo dopo un bel pezzo che ci stava intrattenendo. Notai i capelli brizzolati, strategicamente scompigliati, il pizzetto invece curato e a sua volta sale e pepe, gli occhiali con le lenti sfumate di azzurro, le sopracciglia finissime, i tratti del viso quasi effeminati. Mi concentrai su di lui quando la sua fidanzata sparì dal mio campo visivo.
“Amore, posso uscire un attimo fuori a fumare?”, gli chiese con un certo timore della sua risposta.
“Ma sì, bambina, vai. Rimani vicino alla porta, però.”
Lei, improvvisamente succube del fidanzato–leader, lasciò la sala a piccoli passi. La patina da ruvida donna vissuta era stata raschiata via da un semplice scambio di battute. Provai un po’ di tenerezza, e di pena, per quella piccola femmina che si sgretolava come un grissino nonostante l’apparenza tosta e fiera. Poi pensai a come io stessa cercavo di apparire agli altri, mentre mi nascondevo dietro l’ombra protettiva e rassicurante di Guy, anche se non era il mio ragazzo, ed ebbi pena di me. Mi venne voglia di uscire anch’io a fumare, ma preferii aspettare il suo rientro.
Lasciai I Visitors a tirare acqua al loro mulino e mi accesi la sigaretta già nell’ingresso della palazzina. Fuori, vidi avvicinarsi una dozzina di persone. Pareva una classe delle medie in gita per la prima volta fuori dalla loro città. Solo che erano grandicelli. Intuii che fossero i fan, come li reputava Ronald Vegan, o gli amici, come credevo io, venuti a dar supporto ai Visitors. Feci finta di starmi accendendo in quel momento la sigaretta, riparandomi dal vento per non far spegnere la fiamma dell’accendino, così gli voltai la schiena mentre arrivavano all’ingresso. Mi superarono come se non esistessi. Durò poco, però. Ero rimasta fuori anche dopo aver schiacciato la sigaretta nel vaso, quando fui raggiunta da tutta la banda. Nel mezzo c’era pure Guy. Venne da me trascinandosi dietro uno dei tizi entrati pochi minuti prima.
“Ecco il nostro fan che doveva venire a cena ma è stato rapito dagli alieni, che per fortuna ce l’hanno restituito a tempo per il concerto!”, mi annunciò gaio, presentandomi Sottogorino. Capii al volo le sue mire. Sottogorino era alto pressappoco quanto lui e all’incirca della stessa età. Era vestito un po’ dimesso, da nerd, e appariva a disagio, intimidito dall’euforia collettiva e forse di più da quella di Guy. Però aveva un viso intenso, espressivo nei tratti più marcati come le labbra e il mento, e lo sguardo era vivido.
Io me ne stetti per conto mio senza interagire granché. Ebbi solo la presenza di scattarmi un selfie di modo che sullo sfondo si vedesse il capannello di gente pronta a gremire il Thunder Room di Carpi. Pubblicai la foto a reti unificate su Instagram, Facebook e Twitter e proseguii il mio isolamento. Guy e Sottogorino, poco distante, parlavano fitto. Uno sorrideva e dava di gomito, l’altro faceva di sì con la testa, scrollando il caschetto nero.
“Forza ragazzi, basta fare le persone serie: è ora di giocare alla musica!”, proclamò Ronald Vegan, richiamando all’ordine la brigata e comandando di tornare di sopra. Il suo scopo era chiaramente serrare le fila e avere i suoi legionari sottopalco. Lo status di trascinatori di folle che millantava non avrebbe dovuto farlo abbassare a quei mezzucci.
Tutti, compreso Sottogorino per la disperazione di Guy che con l’inizio del concerto avrebbe avuto margine di manovra per lavorarselo con calma, furono costretti a seguire le direttive di Ronald Vegan. Noi due ne approfittammo per prenderci qualche minuto di stacco dal chiasso che si stava trasferendo su.
“Dev’esser divertente far parte del giro dei Visitors, sul serio”, disse Guy. “Fanno pena musicalmente, però sono simpatici. Il problema è che diventa un club privè, dove sei onorato d’essere ammesso però non ti lasciano più uscire. C’è il concerto di 2 Dualità, che ti piacciono un sacco e non li hai mai visti, hai addirittura la possibilità di cenarci insieme, ma non puoi farlo perché tutti gli altri arrivano a una cert’ora e sei costretto a star appresso ai loro comodi. Riesci infine a conoscere il gruppo, il cantante ti fa un sacco di feste, ma sul più bello inizia il concerto dei tuoi amici e sei costretto a star appresso ai loro comodi.”
Guy mi propose poi di unirci alla festa e salire a vedere cosa combinavano I Visitors. Con l’abituale pantomima, mi prese per mano, e come bambini iperattivi facemmo le scale saltellando a due a due i gradini.
In effetti, la musica dei Visitors era atroce. Quanto erano spigliati e cazzoni prima di salire sul palco, tanto pesantemente si prendevano sul serio nell’imbastire canzoncine senz’arte né parte.
La ragazza di Ronald Vegan stava in penombra, a testa bassa in piedi accanto alla batteria. Picchiettava su uno xilofono, che si sentiva a malapena, e su una tastierina synth tipo la mia, più amalgamata nel suono, ma la usava talmente di rado che risultava inutile al livello dello xilofono. Come in precedenza, tornò a farmi pena. Stavolta però mi vidi sul palco, nelle parole dei fan e dei live report delle webzine, e non ebbi lo stesso rigetto avuto a tavola, quando lei aveva chiesto il permesso d’uscire. 2 Dualità erano stati una ventata di novità per la scena indie, e i nostri concerti lasciavano il segno per la qualità delle canzoni e dell’esecuzione ma anche per come ci ponevamo noi.
Il batterista, che durante la cena aveva un giubbetto da paninaro, se l’era tolto e sfoggiava una maglietta blu con logo giallo stampato all’altezza del cuore. Non capivo cosa fosse, forse il nome della ditta per cui lavorava. In ogni caso, era un pessimo modo di presentarsi di fronte a un pubblico, pur se composto di amici e parenti, oltre ad alcuni nostri fan che finalmente iniziavano ad apparire nel locale, qualcuno era venuto a salutarci mentre assistevamo al concerto subito dietro la claque dei Visitors.
“Io non capisco”, dissi all’orecchio di Guy, senza nemmeno urlare, dato che il volume della musica non era troppo potente. “Perché devono sforzarsi di sembrare così sciatti? Il batterista è vestito come dovesse fare un trasloco.”
“Oppure come il backline che monta e smonta il palco. Forse è proprio lui. Il batterista non poteva venire e come rimpiazzo non hanno trovato di meglio del tipo del backline!”
“Scendo a bere una cosa, Guy. Ho visto e sentito abbastanza dei Visitors. Per stasera e per il resto dei miei giorni. Vieni con me?”
“Se non ti spiace ti aspetto qui, tesoruccio.” Nel rispondermi, scrutava il volto di Sottogorino, girato di tre quarti e rivolto verso il palco.
Presi l’ultima birra giù. Il concerto dei Visitors stava per finire. Era tempo di cambiarsi d’abito. Per la seconda e ultima volta, avrei suonato tutta in nero, gilet, gonnellino e collant, tranne la camicetta bianca.



Capitolo 15
Tra i senza patria dell’underground

Mi arrivò una folata di fumo dritta in gola. Il suo finestrino era aperto, ma la nuvoletta grigia era comunque rimbalzata fino al lato conducente, dove sedevo per il mio turno di guida su un ramo autostradale della bassa padana. Mi astenni dalle classiche schermaglie sul fumo passivo che rischiava di compromettere la mia ugola.
Eravamo in una situazione paradossale. O forse nemmeno più di tanto. Forse era tutto logico e lineare. Avevamo intrapreso l’esperienza più significativa dacché avevamo creato 2 Dualità: il tour sulla Luna, che speravo potesse lanciarci ad alti livelli nel panorama italiano, nonostante l’ostracismo di Indie Italie e altre menate di cazzo. E nel bel mezzo del tour, ecco che Vicni mi veniva a dire che voleva prendersi una pausa. Qualcosa nel suo comportamento lunatico aveva fatto scattare un allarme nella mia testa. Passavo le giornate inventandomi tattiche che mi permettessero di scansare quel pensiero. Il pensiero che tutto stesse per finire. L’indomani, non appena fatto l’ultimo concerto del tour.
Sebbene fossimo alle strette, continuavo a cincischiare, come se non accettando l’idea che stessimo per dividere le nostre strade, questo potesse non succedere. Il che m’impediva di prendere la questione di petto, parlandone con lei e costringendola a dirmi il perché e il percome. Sempre che lei stessa avesse una posizione chiara in merito. E neppure di ciò ero sicuro.
L’unico segnale della presenza di Vicni all’interno della Luna, in quel momento, era il fumo della sua sigaretta. Oltre al riflesso del display dello smartphone sul finestrino, pesticciato dalle sue dita smaltate di nero. Ebbi per l’ennesima volta paura d’indagare. Perciò mi misi a parlare d’altro.
“Stamani un mio amico ha condiviso su Facebook un video dei Missili Intelligenti, un gruppo in cui suonavo la chitarra secoli fa. Era una serata di gruppi delle scuole. Le riprese erano mosse e sfocate, doveva averle fatte la mamma del batterista, o il papà, non ricordo.”
“Missili Intelligenti. Bel nome”, si limitò a commentare Vicni.
“Missili Inconcludenti sarebbe stato più azzeccato. Uno dei tanti gruppi senza prospettive di cui ho fatto parte. A quindici, sedici anni, m’interessava suonare il più possibile, la quantità mi sembrava molto più allettante della qualità. In zona si era sparsa la voce, sicché oltre alle band di cui ero membro, quando da qualche parte mancava un musicista, chiamavano me a tappare i buchi. Ho fatto addirittura dei concerti nei pub con una cover band di rock blues insieme a dei tizi che avevano più del doppio dei miei anni, quarantenni o giù di lì. Ci suonavo il basso, proprio come quand’ho fatto il provino che c’ha permesso di conoscerci. Lì per me è cambiato tutto. La prospettiva è girata dall’accumulare punti sulla tessera fedeltà allo sviluppo di un progetto musicale con un’identità forte, che non a caso c’ha portato i frutti migliori della nostra carriera. Almeno fino a questo momento. È stato anche un processo abbastanza brusco: il giorno prima a cazzeggiare in sala prove, il giorno dopo mano nella mano con te a plasmare 2 Dualità e invadere gli spazi stantii dell’indie!”
“Guarda il cartello Guy, c’è un’area di servizio tra due chilometri, ti va se facciamo una sosta? Ho bisogno di andare in bagno.”
“Ok. Ne approfittiamo per mettere benzina”, risposi con rassegnazione.
Scendemmo dalla Luna. Il piazzale era male illuminato. Poche auto, più che altro tir, che troneggiavano nello spazio loro dedicato, dal lato opposto rispetto a dove c’eravamo fermati noi. La coltre di fine nebbiolina non contribuiva a rendere più ameno lo scenario.
“Mi sento un’aliena”, disse Vicni a mezza voce, come se avesse remore a squarciare l’alone di morte che permeava il pit-stop della Luna in quel lugubre non luogo. Si accese una sigaretta, senza mostrare l’impulso di fare pipì che l’aveva portata a proporre di fermarci. Guardava davanti a sé con aria immalinconita, in direzione dei campi al di là della recinzione.
Appena fummo dentro l’autogrill, anch’io ebbi la sensazione d’essere un corpo estraneo. Non solo a lei, ma all’umanità che ci circondava. E se in passato avevo avuto simili sentori, che tuttavia mi rendevano fiero d’essere diverso, adesso erano le controindicazioni a prevalere e darmi insicurezza.
Stava iniziando ad andare in malora. Per di più, senza che riuscissi a capirne il motivo. Ecco cosa mi angustiava sopra il resto. Dovevamo parlare. Avevo bisogno di certezze, ma mi sarei accontentato di semplici risposte.
Nella coppia, ero io quello rassicurante e con la situazione sottocontrollo. Era un ruolo che mi veniva facile. Avere persone che si mettevano nelle mie mani, anziché provocarmi pressione, mi spingeva a dare il meglio. Con Vicni aveva sempre funzionato così: i problemi li risolvevo io, persino quelli creati da me medesimo. Adesso, però, qualche forza oscura remava contro il regolare flusso della vita: altri dischi, altri concerti, altre campagne social eccetera. Nulla di più normale, e anche semplice, volendo. Invece la faccenda mi stava sfuggendo di mano.
Ci riavviammo verso la Luna. Vicni camminava un passo dietro a me. La attesi alla portiera del lato passeggero, che aprii con gesto da cavaliere d’altri tempi. Le porsi la mano, come per aiutarla ad affrontare salite ben più irte dei dieci centimetri di predellino della Luna. Mi portai la sua mano alle labbra e la baciai. Ripartiti, ero ancora preda della pesantezza d’animo che mi tormentava. Però era necessario affrontare quei demoni e provare a capire cosa le passasse per la testa. Per prima mossa, decisi d’affettare un tono scherzoso.
“Stellina mia bella, potrei sapere cos’hai intenzione di fare dopo la fine del tour, visto che hai deciso che dobbiamo fermarci a tempo indeterminato? Desiderio di maternità? No! Sei una fottuta lesbica che non ha queste velleità, né altre, tipo l’utero in affitto…”
“Piantala con queste cazzate, Guy, per favore”, cercò di tagliar corto lei, girata ostinatamente verso il finestrino. “Ho ventisei anni…”
“E io ventitré!”, la interruppi, sperando di ricondurla alla ragione. “È questo il momento. Dobbiamo cavalcare l’onda. Siamo in una specie di limbo, molto al di sopra dell’anonimato ma c’è ancora parecchio lavoro da fare. Eppure, basta poco per perdere quanto abbiamo conquistato ed essere di nuovo sprofondati tra i senza patria dell’underground. Tesoro, se ci fermiamo proprio ora rischiamo di compromettere tutto ciò che per noi…”
“Tutto ciò che per te, Guy”, mi gelò dandomi lo stesso effetto di un cazzotto alla mandibola. Quindi la sua voce divenne meno ferma. “Io avevo semplicemente bisogno di una buona scusa per staccarmi da quel giro di simpaticoni, tipo i tuoi amici del Platino Picchiatore, perché sai cosa?”
Era passata in un istante dall’irremovibile fermezza con cui si era di fatto chiamata fuori dal gruppo ai confini della crisi di pianto. Però non capivo cosa c’entrassero quelli del Platino Picchiatore, un collettivo dark wave abbastanza conosciuto dalle nostre parti, organizzavano serate, concerti e dj set sotto varie sigle e nomi d’arte ma erano sempre i soliti a spartirsi le mansioni.
Con uno di loro, a dire il vero, avevo avuto una relazione. Era bisessuale dichiarato, cosa che in quell’ambiente era meno sconveniente che altrove, almeno così si diceva. Erano stati più che altro incontri sessuali, anche piuttosto divertenti, ma dopo un po’ c’eravamo distaccati.
Vicni aveva collaborato con loro, suonando sia in studio sia live con uno dei tanti progetti riconducibili al collettivo, i Platinum Inc., che rappresentavano l’incarnazione più gotica e necessitavano di suoni percussivi e tribali al posto dell’abituale drum machine.
Attesi che recuperasse un minimo d’equilibrio e mi spiegasse, ma non lo fece. Riprese a parlare del nostro presente e futuro.
“Poi le cose hanno preso una piega, sì, insomma, un piccolo successo, se vogliamo chiamarlo così. E fare musica con te è fantastico. Tu sei fantastico. Questi anni sono stati i migliori della mia vita!”
“Però per motivi che ti rifiuti di spiegarmi hai deciso di far festa.”
“Non lo so”, sospirò, quasi col fiatone, come stremata dopo una maratona.
Mi sembrava di avvertire la sua stessa stanchezza, di accumulare dentro di me tutto il malessere che la opprimeva. Mi venne da piangere, ma tirai su col naso e riuscii a mantenere gli occhi asciutti.
“Non lo so”, ripeté sconsolata, reclinando la testa all’indietro.
Feci un gran respiro. Le cose non si mettevano per niente bene. Stavo per arrendermi, sperando di trovare in seguito la forza di tornare sull’argomento, quando fu lei a parlare nuovamente.
“Non è il momento di fare certi discorsi. Guy, io ti adoro e adoro 2 Dualità. Sono eccitatissima per questo tour, i fan che hanno raccolto i soldi per farci suonare, tutto… mi sembra di vivere un sogno.”
“Anch’io ti adoro, pazzerella”, ribattei, lievemente rincuorato dal suo tono più conciliante. “Per questo vorrei che non finisse mai. Siamo una potenza inarrestabile insieme! Meno male sei una donna, altrimenti c’è il rischio che m’innamorerei di te e il gruppo andrebbe in malora!”
“Tu ripeti sempre che musica e amore devono rimanere separati. Io però preferirei mille volte stare in un gruppo con la mia partner piuttosto che con finti amici che approfittano di te nei modi più vili.”
Rieccola con le mezze frasi sibilline da cui avrei dovuto dedurre ogni dettaglio, mentre potevo solo fare teoremi campati per aria. Perciò mi rassegnai a non cavar nulla e m’impegnai a sgombrare la mente. Il sesto e penultimo concerto del tour sulla Luna, al Pino Wine Bar di Desenzano del Garda, destinazione prescelta per l’area lombardo–veneta, incombeva e volevo essere sul pezzo con corpo, cuore e testa.
“Vicni”, iniziai a dirle, chiamandola per nome, cosa che quand’eravamo soli non facevo mai, “io non so cosa ti sia capitato, e non sono in grado di indovinare. Però sappi due cose: uno, quando vuoi parlare, io ci sono e ci sarò sempre; due, sai che di me ti puoi fidare. Ti devi fidare! Ora infatti spengo Spotify e metto un bel cd di quelli che piacciono tanto a te. Ti fidi, vero?”
“Mi metti i Cure?”, domandò lei, ravvivatasi d’un tratto.
“Dopo”, sibilai biecamente. “Adesso i Social Distortion! Salutari come pochi per sgranchirsi il collo incriccato dalle ore al volante! E a seguire, compilation di revival beat italiano anni Ottanta!”
“E poi i Cure.”
“Se il traffico rallenterà la nostra tabella di marcia, sì”, ghignai. “Perché se i miei calcoli sono esatti, ed io su queste cose sono più preciso del GPS, il tempo di questi due cd dovrebbe servirci per arrivare a destinazione.”
“E i Cure?”
“Slittano al tuo turno di guida, baby boom. Conosci la regola. Inutile che te la ripeta: chi guida sceglie la musica.”
“Tu e le tue regole”, brontolò Vicni.
“Dandosi e seguendo le regole si va lontano. Per questo devi fidarti di me”, rincarai.
“Io mi fido di te. Il problema è che tu ascolti musica inaffrontabile.”
“Ha parlato Miss Orecchio Fino. Ma almeno su una cosa siamo d’accordo, vero?”
“L’indie italiano degli anni Dieci è una cagata pazzesca!”, gridammo in coro. Ci stava tornando un accenno di sorriso e di buonumore. Al contempo, pensavo a quanto mi sarebbe mancata quella creatura seduta al mio fianco, se davvero i nostri destini avessero preso direzioni diverse.
Alzai il volume. I Social Distortion presero possesso dell’abitacolo. D’istinto, il mio piede fu più solerte sull’acceleratore.



Capitolo 16
Come la persona più normale del mondo

Il Pino Wine Bar di Desenzano del Garda, tolta la ridondante patina anglofona del nome, era niente più di un’osteria, rivestita in legno stile baita pur trovandosi in riva a un lago. Per motivi imperscrutabili, aveva una programmazione musicale, di cui il mercoledì rappresentava il momento clou, tant’è che ci suonavano anche nomi abbastanza affermati del panorama italiano, intercettati nei day off e pertanto ingaggiati a cifre più convenienti. 2 Dualità avevano dunque la speranza, ad onta del giorno infrasettimanale per antonomasia, di trovarsi in una situazione più reattiva della sera innanzi a Carpi.
L’incertezza sul futuro oscillava sopra le loro teste come un trapezista durante un numero circense. Guy si sforzava di non mutare il suo contegno, dovendo passare la serata tra la gente ed essere l’animale sociale di sempre.
Entrando nel locale, si videro venire incontro un uomo rubicondo, dall’età indefinibile tra i trenta e i quaranta e oltre. Era sul metro e settanta, altezza che ne faceva risaltare ancor più l’opulenza. Portava un pesante e sciupato maglione di lana color crema, con la zip e il cappuccio in testa, e ruvidi pantaloni blu scuro da cercatore di funghi.
Romaldio si rivolse ai nuovi arrivati biascicando un’incomprensibile forma di saluto e guardando da un’altra parte a causa dello strabismo. Batté i piedi in terra come per mettersi sull’attenti. Gli scarponi col tacco rinforzato fecero un rumore sordo sul pavimento in cotto.
“Bel posticino davvero”, commentò Guy con convinzione, dando uno sguardo d’insieme al Pino Wine Bar. Ai lati del corridoio centrale, erano disposti tavoli e tavolate, sedie e panche. Sulle pareti, stampe incorniciate, soprattutto di pop art, oltre a foto scattate nella sala, raffiguranti presunte celebrità passate di lì. In fondo, lo spazio andava ad allargarsi: sulla sinistra, il bancone del bar, alle cui spalle una porticina conduceva alle cucine; sul lato opposto, delimitato da un arco a volta, anch’esso in muratura, era piazzato il palco, nettamente il più striminzito tra quelli del tour sulla Luna. Se lo sarebbero fatto bastare.
“Iniziamo a montare?”, domandò Guy, rivolto tanto a Vicni quanto a Romaldio. Fu quest’ultimo a rispondere, offrendosi di dar mano e rendendosi disponibile all’istante per aiutarli nel soundcheck. Guy declinò la prima offerta e si mise a scaricare la Luna con l’ausilio della compagna. Rifletterono se non fosse il caso, date le ristrettezze del palco, di rinunciare a qualche pezzo della strumentazione, ma decisero infine di portarsi tutto quanto. Avrebbero onorato il tour fino alla fine.
Ben presto, realizzarono che Romaldio, oltre a essere il fonico, era il direttore artistico, colui che serviva i clienti dietro il bancone, nonché il proprietario del locale. Fino all’ora di cena, ci furono solo loro là dentro. Erano attesi tre finanziatori del crowdfunding, ma non se ne presentò nessuno. In compenso, la sala iniziò a riempirsi di avventori che venivano per mangiare.
“A meno che non se la prendano estremamente comoda, questi saranno già spariti da un’ora quando inizieremo a suonare”, fece notare Guy. “Il gommone dice che il pubblico dei concerti arriva sul tardi, e riempie il doppio della gente che c’è adesso. Speriamo…”
“Se già non si fanno vivi i fan del crowdfunding…”, ribatté sconsolata Vicni. Si rianimò quando, in testa al drappello di cameriere (in realtà appena due) da poco entrate in servizio, comparve la caposala.
Fidanzata storica di Romaldio, Sissy Kolivanowski era rimasta alle sue dipendenze anche dopo la rottura della loro relazione sentimentale. Pareva il contraltare dell’ex: biondissima, alta ed esile, androgina ma dai lineamenti somatici delicati. La accomunavano a lui una certa rudezza nei modi e il look non proprio da gourmet a cinque stelle: svettando su un paio di stivaloni neri, Kolivanowski sfoggiava un fisico quasi da top model, con degli hot pants in denim e una canotta sfrangiata che si fermava molto sopra l’ombelico.
Impartendo ordini con voce roca e mascolina, Kolivanowski sistemò i primi avventori, andando poi a unirsi a Romaldio, il quale si era accomodato al tavolo riservato a 2 Dualità in attesa che gli fosse servita la cena.
Vicni ebbe un fremito mentre quella pertica snodabile li raggiungeva, curvandosi leggermente in avanti di modo da mostrare la fascia elasticizzata nera che le copriva il seno. Si scambiarono un’occhiata, quindi Romaldio, col rantolo da etilista che era il suo modo di parlare, fece le presentazioni.
“Vi piace il Pino Wine Bar? È tutto di vostro gradimento finora?”, domandò ai musicisti.
“Guarda, già ci sentiamo come a casa nostra qui. Domani abbiamo un altro concerto, però se volete venerdì torniamo volentieri a suonare da voi!”, replicò allegramente Guy. Vicni confermò con un sorriso.
Romaldio intanto si era sfilato il maglione, rimanendo con una maglia col logo neroarancio Harley Davidson, sformata dall’adipe. Sotto la manica destra spuntava la parte finale di un tatuaggio mentre, senza il cappuccio, spiccava la testa pelata. Vicni, inorridita, si domandava come la diafana Sissy Kolivanowski avesse potuto concedersi a un simile bruto. Tuttavia, studiando i modi spicci e poco fini della ragazza, si arrese all’evidenza che in fondo quei due erano animali del medesimo branco ed era nella logica che si fossero trovati, e che proseguissero a frequentarsi anche al di fuori di un rapporto ormai estinto. Proprio com’era accaduto a Guy e lei: creature accomunate da un’urgenza artistica che le aveva inevitabilmente attirate l’una verso l’altra. Non c’era stato amore né sesso tra loro: ma forse un legame addirittura più forte. E lo avvertiva anche in quelli che rischiavano di essere gli istanti finali della loro Luna di miele.
Lo stesso Guy stava facendo onore alla tavola, in particolar modo al vino della casa, sicché i racconti che il factotum del Pino Wine Bar sciorinò gli apparvero mirabolanti. Le paturnie, per un po’, svanirono dalla sua mente.
Una cameriera passò di lì con una brocca d’acqua. Guy la stava per ringraziare del servizio, che gli sarebbe stato utile per sciacquarsi un po’ la bocca impastata dalle cibarie e soprattutto dal vino. Fu però dissuaso dall’uscita perentoria di Romaldio.
L’acqua la smarze i pali par fora, figurate par drento”, ammonì la ragazza, che fece un impacciato dietrofront.
“È un modo per dire tipico di chi apprezza la bottiglia”, spiegò Kolivanowski, traducendo sommariamente quel motto da alcolizzati.
“Il Veneto è terra di serial killer”, sentenziò poi il corpulento anfitrione, che teneva testa con irrisoria semplicità alle doti di bevitore di Guy. “Che poi passano la frontiera e si nascondono qua da noi. S’inventano un lavoro e una vita normale, eh, per dire. Poi una mattina apri il giornale e vedi che lo hanno arrestato e dici: quello era uno dei butei che veniva qua a pranzo la domenica!”
“Quanti ne abbiamo avuti, qui?”, arringò Kolivanowski.
“Ma tanti!”, confermò Romaldio raccogliendo l’assist. “Due, tre… Quello che ammazzava le prostitute vicino Belluno, e dopo le violentava. Stava qua in centro di Desenzano.”
“Ah! Pure necrofilo!”, sbottò Guy.
“No, no pedofilo”, lo corresse puntualmente Romaldio. “Le prostitute, le puttane, per dire. Negre, dell’est, dell’Unione Sovietica. Ma maggiorenni. Lui le caricava in macchina, andavano in un posto isolato e lì gli metteva un sacchetto di plastica in testa e le soffocava. Poi se la spassava col cadavere. Ne ha fatte fuori quattro prima che l’han beccato. E tutte le domeniche per dio era a quel tavolo là accanto all’ingresso a mangiare e a bere come la persona più normale del mondo.”
“Ha fatto bene a sistemarle quelle quattro lucciole là. Così non rompevano le balle per volergli infilare il preservativo anche per ciucciargli il cazzo! Battono dalla mattina alla sera e vogliono fare le dive. E allora glielo metteva lui in testa il preservativo!”, fu la pragmatica deduzione della bionda responsabile di sala, che se la rise alla grande.
“Interessante lettura psicologica”, osservò Vicni. Il corpo libidinoso di Kolivanowski le appariva ancor più remoto della sua testolina di cavernicola non rieducata.
Terminata la disamina sui serial killer habitué del Pino Wine Bar, Romaldio continuò a imperversare, narrando di risse scatenatesi all’interno del suo locale, per lo più nelle serate dove c’era musica dal vivo. Guy lo ascoltava con crescente rapimento.
“L’anno scorso, di questo periodo, avevamo qui la Desenzano Fusion Street Band. È una street band che suona fusion”, spiegò pleonasticamente Romaldio. “Sono tranquilli, musica da ascolto, per dire, mica da ballo o da scatenarsi. Li facciamo venire due o tre volte l’anno. Iniziano a suonare già all’ora di cena e vanno avanti fino alla chiusura. Si fermano, mangiano e bevono anche loro, poi ricominciano a suonare. E poi ogni tanto suonano in mezzo ai tavoli, come una street band.”
“Come una street band che suona fusion”, ripeté sghignazzando un Guy sempre più ubriaco.
“E in questo concerto dello scorso anno, il chitarrista stava suonando in mezzo ai tavoli, e io lo aiutavo a srotolare il cavo per non farlo impigliare da nessuna parte. Però si è impigliato lo stesso, e lui per liberarsi ha dato una spinta che ha fatto cascare in terra la forchetta a un cliente che stava mangiando il porco arrosto. No un piatto o un bicchiere, solo la forchetta è cascata.”
“Ma quello là era già ciucco”, s’inserì Kolivanowski. “E ha dato di matto, voleva picchiare il chitarrista. Allora gli altri butei al tavolo con lui han provato a calmarlo, ma lui ha iniziato a picchiarsi con loro! Da lì, tutti i tavoli vicini si son riempiti di gente che voleva partecipare. E hanno iniziato a volare cazzotti per tutto il locale!”
“E il chitarrista, che aveva lui fatto partire le botte, aveva ricominciato a suonare sul palco, facendosi finta che lui non c’entrava nulla. Non andava mica bene, eh. Allora la Sissy gli è andata sotto a muso duro per farlo partecipare alla scazzottata!”
“Gli ho detto: ‘Vai se no te ciapo e te verzo come un capuzzo!’”, si vantò Sissy, mimando la messa in pratica di quella minaccia. Non c’era da scherzare con l’indole battagliera di quella donna dall’apparenza tanto fragile.
“Wow! Radicale distruttivo!”, si complimentò Guy, totalmente asservito al clima di sfrenata ebbrezza che pareva essere di prassi al Pino Wine Bar.
Sopraggiunsero altri clienti, e Kolivanowski ebbe il suo daffare in sala, sicché andava e veniva dal loro tavolo. Anche Romaldio dovette tornare alle sue molteplici mansioni. Guy e Vicni conclusero la cena da soli al tavolo.
“Stasera non so se resisterò all’impulso di togliermi la camicia durante il concerto!”, proclamò Guy. Fiumi d’alcol gli circolavano in corpo in sostituzione del sangue. Era già positivo che non intendesse scatenare a propria volta una megarissa. Mostrarsi a torso nudo sarebbe stato un atto di ubriachezza in fondo poco molesta. Vicni gettò un ultimo sguardo al fondoschiena tonico di Sissy Kolivanowski, in bella vista a pochi metri da lei, quindi uscì per fumare.




Capitolo 17
Un passo indietro rispetto al carismatico frontman

Abusando di un luogo comune, incendiammo il posto. Né il fatto che Guy fosse ubriaco perso, né il clima oppressivo che si stava creando tra noi: nulla poteva intaccare la nostra intesa sul palco. Era come se un fluido magico rimbalzasse tra me e lui, facendoci sprigionare un’energia pazzesca.
Avevamo iniziato non molto dopo esserci alzati da tavola. Io mi ero cambiata in fretta e furia, mettendomi il tailleur con pantalone come a Spoleto. Guy aveva mantenuto la promessa: s’era presentato con una camicia sgargiante che ricordava le giacche dei toreri, verde con risvolti dorati su colletto e maniche, e alla prima pausa, dopo tre pezzi, se l’era tolta.
Per me era facile lasciarmi trascinare dalla sua carica, sentivo che avrei potuto suonare per ore senza fermarmi. In più, le occhiate intense con cui radiografavo il pubblico fino a trapassarlo con la precisione di un bisturi (stupida metafora chirurgica scritta da una tipa in un live report pubblicato online), erano mirate alla caposala, che continuava ad aggirarsi là intorno.
Il nostro impeto era stato ricambiato da chi era venuto a vederci. Gli spettatori ci fecero sentire il loro calore alcolico. Dai tavoli si levava un gran vociare quando finiva una canzone, e ben presto si levarono direttamente loro, pigiandosi a ridosso del palco, tanto che avevo temuto che una caduta domino ce li scaraventasse contro, sfasciandoci ogni cosa. Ma in modo o nell’altro erano riusciti a contenere l’euforia a un livello a noi non nocivo.
Guy, circondato da forsennati, era nel suo habitat naturale. Interagiva con le persone, moltiplicava le pose, si muoveva come un giocoliere con chitarra a tracolla, cantando e saltando contemporaneamente, fino a interpretare un’intera strofa di “Continua” fuori dal microfono, sulla faccia di chi gli stava di fronte.
Io su “Continua” mi ero alzata in piedi, dando le spalle al pubblico. Dovendo ottimizzare gli spazi, avevamo incassato la tastiera contro il fondo del palco. Così girata, ancheggiavo con un moto lento e circolare, al tempo della canzone. Guy mi ripeteva a nastro quanto ai ragazzi piacesse vedermi fare quelle mosse. Io non riuscivo ad abituarmi all’idea che gli uomini potessero eccitarsi con una come me. Eppure pareva essere così, quindi sfruttavamo questo mio presunto lato sexy, anche nelle sessioni fotografiche. Era buffo: in quasi ogni foto Guy, che era il cantante oltre che un bellissimo ragazzo, restava in secondo piano, a volte addirittura un po’ sfocato.
Poi, sul palco, lui riprendeva il timone di comando ed io lo seguivo. Persino sui pezzi cantati da me, come “Asma cardiaca”, il suo sorriso spadroneggiava su qualunque altro dettaglio. Per la mia ritrosia a stare sotto i riflettori, avere accanto qualcuno che catalizzava l’attenzione era stato un toccasana. Avevo il mio spazio, la mia visibilità, ma ero felice dello status di batterista sopra le righe ma sempre un passo indietro rispetto al carismatico frontman di 2 Dualità.
Ci furono parecchie sbavature, ma la nostra performance era così trascinante da ovviare agli errori di esecuzione. Finì che ci chiesero i bis. Rifacemmo “Quasi uguali quasi diversi”, con la fettina di area sottopalco che ribolliva di sudore e aromi di vini e birre. Siccome non ci volevano fare andar via, servimmo un’ultima portata: la cover di “Seven nation army” dei nostri padrini White Stripes. Sul ritornello strumentale, tutti si scatenarono col popopopopopo, tormentone passato dai locali per concerti agli stadi di calcio.
Fu uno dei nostri migliori concerti, non solo del tour sulla Luna, ma in assoluto. Tuttavia l’atteggiamento dei presenti, come ci aveva spronato in sede live, ci affossò subito dopo. Un minuto più tardi, infatti, i due musicisti esaltati dalla folla non erano più cagati da nessuno. Vendemmo a malapena un cd. Finita la musica dal vivo, il Pino Wine Bar era diventato un normalissimo pub, con due schermi televisivi accesi su canali sportivi e un sottofondo preso in buona certezza da qualche compilation di evergreen, di quelle che trovavi nelle ceste di cd in superofferta.
Guy si era già sganciato, vedendosi impossibilitato nelle pubbliche relazioni a nome del gruppo, ed era andato a piazzarsi su uno sgabello al bancone del bar, intenzionato a finire di disfarsi nel beveraggio, con Romaldio che continuava imperterrito a riempirgli il bicchiere.
Io decisi di smontare il palco e ricaricare la Luna. Nessuno mi dette corda mentre trascinavo fuori la strumentazione mia e quella di Guy, perciò fu un lavoro relativamente rapido.
Perfettamente a suo agio nei panni del beone lombardo–veneto abbrutito, Guy era sempre piantato dove l’avevo lasciato prima di mettermi a smontare. C’era stata però una variazione sul tema: non era da solo. Mi avvicinai. Non più di fronte al bancone, ma di profilo, con un gomito appoggiato sopra, Guy era alle prese con due ragazze.
Una aveva i lineamenti indios, i capelli lisci e nerissimi che non le arrivavano alle spalle, gli occhi scuri come la pece, il naso schiacciato. Era piccola e fine di corporatura, con i jeans coperti fino alle cosce da una blusa violacea. Una indios nell’indie.
L’altra era all’opposto. Alta e robusta, il viso paffuto sommerso da un cestone di riccioli castani in spregio a chi era costretta a farsi la permanente per avere la metà di quel volume di capelli. Come molte delle ragazzine hipster che vedevo in città e nei posti dove suonavamo, girava fieramente con costosi abiti vintage: borsa da pagarla a rate, gonna di stoffa a scacchi che le arrivava ai polpacci e pullover anni Sessanta di cachemire.
Tutt’e due, dallo stato infervorato con cui si agitavano intorno a Guy, parevano inebriate quasi al suo livello. Era una scena tutt’altro che rara per un postconcerto di 2 Dualità. Uno o più esseri di sesso femminile che si paravano incontro all’affascinante e socievole cantante, che le intratteneva in grande stile per poi lasciarle a bocca asciutta.
Rispetto agli standard, però, vedevo due sostanziali differenze. Uno: a un primo screening, quelle potevano non essere necessariamente attratte solo dagli uomini. E soprattutto, due: Guy era totalmente andato, e in simili condizioni avrebbe addirittura potuto accettare proposte di prosecuzione della nottata. Entrai di prepotenza per debellare i miei timori. La prima contromisura fu quella che usavo di solito: allontanare Guy con una scusa.
“Tesoro”, gli dissi, con un vezzeggiativo che non gli rivolgevo mai, “c’è da compilare il borderò, senti Romaldio e fatti dare il modulo… In pochi minuti ha fatto”, rassicurai falsamente le tipe che già mi guardavano di sbieco.
“La Siae deve arrostire su una grigliata infernale!”, mi rispose, infiorettando il tutto con una bestemmia che doveva aver metabolizzato dai frequentatori del Pino Wine Bar. Le due tipe scoppiarono a ridere. “Fallo tu se vuoi. Scrivici titoli e cose a caso. Tanto ormai la fine è vicina.”
Fallito il primo tentativo, m’inserii direttamente nella conversazione, presentandomi senza aspettare d’essere invitata a farlo.
Ullüllu”, mugolò la più massiccia delle due, dandomi mollemente la mano. Quindi esternò un breve discorso di cui non compresi mezza parola. Guy, dal canto suo, sorrideva convinto a quell’ammasso di suoni primordiali e si diceva pienamente d’accordo a metà. Non capiva più un cazzo.
Mi passò un flash davanti agli occhi: Guy semi incosciente sdraiato sul letto, sormontato da quelle assatanate. Per la prima volta, provai un fugace senso di invidia, o forse di gelosia, nei suoi confronti.
Cercai di prender da parte una delle due, la piccoletta con la carnagione da meticcia, nel doppio intento di neutralizzare il pericolo che volessero farsi Guy e svagarmi un po’ anch’io con quella che mi sembrava la più abbordabile.
“Giustizia! Giustizia!”, mi ripeté. Era persa in un suo trip mentale, su cui cercai di sintonizzarmi al volo. “Questo è un paese di merda, di ladri e figli di puttana che vanno eliminati. C’è bisogno di giustizia!”
“Hai ragione, gli uomini sono proprio dei bastardi”, provai a cogliere la palla al balzo. Giustizia mi guardava, perplessa nella sua alterazione alcolica. Incaponita nelle sue teorie, riprese il tormentone.
“Ci vuole giustizia! Ci vuole la pena di morte! Io sono a favore! E ripetuta più volte!”
“L’ho sempre detto anch’io. Non bisogna permettergli di farci del male. Tu sei un fiorellino che aspetta solo d’esser colto. Ma non dalle mani lorde di questi grezzi. Tu meriti di meglio…”
Mi avvicinai ulteriormente, pronta al successivo step. Fosse allontanarci assieme, o intanto sfiorarle le labbra con le mie e vedere come reagiva.
“No!”, si ritrasse lei con uno sdegnato passo indietro. “Finché non c’è l’assoluta certezza della colpa c’è la presunzione d’innocenza. La giustizia si basa su questo principio, altrimenti non c’è giustizia. Non possiamo abbassarci al livello delle bestie solo per la sete di giustizia da far west. Dobbiamo vederci chiaro prima di sparare sentenze e sbattere il mostro in prima pagina.”
L’improvvisa sterzata garantista di Giustizia mi tarpò le ali. Tipico delle donne sceme, dare seconde, terze e quarte possibilità agli uomini stronzi di farle soffrire. Incredibile come il semplice atto di ubriacarsi scatenasse nelle persone le pulsioni più varie. Sempre a mio sfavore, purtroppo.
Fresca di rimbalzo, con la coda dell’occhio vedevo Ullüllu che rideva con i denti sporgenti, dando vigorose pacche sulle spalle di Guy e facendoglisi sempre più vicina, salvo poi distaccarsi scontrosamente dopo pochi secondi e squadrarlo con aria di altezzosa superiorità. Lui non mutava la sua maschera sorridente e collaborativa, sia che Ullüllu gli alitasse sulla bocca, sia che si divincolasse quasi disgustata.
Pur fallendo nell’imbrocco, ero perlomeno riuscita a scoraggiare Giustizia e Ullüllu. Forti di un rigurgito di bigottismo che neppure i fumi dell’alcol avevano smantellato appieno, se ne andarono poco dopo. Guy non fece tentativi di trattenerle, né protestò quando proposi di levarci di torno a nostra volta.
Romaldio per la notte ci aveva lasciato le chiavi di casa sua. Guy, ormai prossimo al coma etilico, s’era buttato sul letto, ancora vestito; disse alcune frasi senza senso, poi si chetò, sprofondato di colpo nel sonno. Nonostante il nostro rider specificasse che dormivamo in letti separati, la camera (l’unica stanza che Romaldio aveva lasciato a nostra disposizione, oltre al bagno; le altre porte erano chiuse a chiave) aveva un letto matrimoniale. Poco male per una volta, forse l’ultima. Ne approfittai per prendermela comoda. Ero stanchissima, anche a livello mentale, ma sonno poco. Mi spogliai completamente e andai in bagno.
Quella volta, alla fine della serata organizzata dai tizi del Platino Picchiatore, invece ero vestita. Le poche ragazze che frequentavano “alla pari” i maschi sul loro stesso terreno, e parlavano come loro, e bevevano quanto loro, si facevano l’assurda fama d’essere disponibili senza nemmeno dover chiedere troppi permessi per coinvolgerle.
Mi avevano tirato su la gonna e scostato le mutandine. Poi non avevo più visto nulla, dato che qualcuno mi aveva sollevato la maglia, incastrandomela dietro la testa. Indebolita dall’alcol e colta di sorpresa, non ero riuscita ad avere alcuna reazione. Avevo solo chiuso gli occhi e stretto i pugni, mentre quelli a turno si muovevano dentro di me, e intanto varie mani mi tenevano ferma e mi toccavano da tutte le parti. Ero stesa su un cubo, dove durante la serata la gente si sedeva per fare una sosta dalle danze, bere e magari tra una chiacchiera e l’altra tentare qualche approccio con chi era lì accanto.
I giorni successivi, non riuscivo a capacitarmi di cosa mi fosse capitato. Se fosse stato un sogno, un incubo, se fossi stata al gioco o se l’avessero fatto contro la mia volontà. L’unica cosa che avvertivo con chiarezza era il senso di colpa e di disgusto verso me stessa.
Mi ero attaccata a Guy perché avevo il sentore che fosse uno dei pochi uomini che non mi avrebbe mai fatto del male. Avevo avuto ragione. In più, eravamo stati travolti da una relazione musicale che c’aveva portati dove mai ci saremmo immaginati di arrivare.
Guardai la mia immagine riflessa allo specchio. Vidi una donna provata tanto da brutti ricordi quanto da un presente che stava per diventare passato. Non vidi le curve che, quando mi alzavo dalla batteria, facevano sbandare gli incauti automobilisti che venivano ai nostri concerti (altra frase del cazzo scritta su un sito di musica indie). Vidi il bulbo superiore della clessidra con ancora pochissimi granelli di sabbia. Il resto era scivolato di sotto.
Cercai di non puntare più gli occhi verso lo specchio, che mostrava impietoso il mio corpo nudo e indifeso. Tornai in camera, dove avevo lasciato accesa la luce sul comodino dalla mia parte di letto. Guy respirava profondamente, devastato dal troppo bere al punto di non essersi levato nemmeno le scarpe prima di crollare. Per quanto involontaria, era un’immagine perfetta della sua contraddittoria morale nei miei confronti: mi parlava nei minimi dettagli delle sue esperienze sessuali, però si vergognava a farsi vedere in deshabillé. E lo stesso s’inalberava se mi scoprivo troppo davanti a lui. Chissà se anche lui aveva represso la curiosità di spiare l’intimità della persona con cui divideva ogni altro aspetto della vita.

Entrai sotto le coperte, con un po’ di difficoltà essendoci lui che le teneva in tirare da sopra. Prima di girarmi e provare a dormire, lo accarezzai sulla guancia. Non ebbe alcuna reazione. A me invece stava venendo da piangere.





Capitolo 18
Qualcosa di sconvolgente

Giovedì, metà pomeriggio, a bordo della Luna. 2 Dualità in viaggio alla volta di Busnago, dove si svolgerà la settima e ultima data del tour. Meteo inclemente con una curiosa mistura di pioggerellina fitta e nebbia. Vicni alla guida. Guy, ancora ottenebrato dagli eccessi della sera precedente, accasciato sul sedile di destra.

Vicni: Tempaccio infame, oggi. Visibilità sotto i cento metri. Ci vorrebbero i miei gattini con vista a infrarossi per filare lisci in questo pantano. Meno male ho un compagno di viaggio che mi supporta e mi dà mano.
Guy (sbadigliando): Questa di solito è la mia parte. Stai mischiando i ruoli. Ma sono troppo stanco per controbattere.
V.: La sera leoni, il giorno dopo dormiglioni. Era un po’ diversa ma te la risparmio per compassione.
G.: Come sei buona…
V.: Lo sono nella speranza che tu stasera sia in grado di reggerti in piedi. Se no potevo lasciarti dormire a Desenzano, farmi il concerto da sola e venire a riprenderti domani.
G.: Sono mai stato meno che al 110% della forma, in questi anni di concerti di 2 Dualità?
V.: C’è sempre una prima volta, Guy. E spesso c’è anche un’ultima volta.
G.: Non sarà stasera la prima volta. L’ultima non lo so, non dipende da me. (fa una pausa) Le spazzole tergicristallo grattano sul parabrezza. Fanno un rumore terrificante. Pare un dj che fa scratch con un disco bagnato.
V.: Te ne accorgi solo adesso? Sei ancora più stordito di quanto pensassi.
G.: Sono consumate… Sono da cambiare… Ma non potevano pensarci quelli della Luna? Cazzo, lo sapevano che partivamo per un tour. Dovevano controllare, accidenti a loro.
V.: Adesso sei tu che stai facendo la mia parte.
G.: A proposito di tergicristalli, ti ho mai raccontato di quando suonammo da queste parti, in un paese della Brianza, con una cover band di punk anni Novanta dov’ero chitarrista e seconda voce?
V.: No, Guy. D’altronde, tu non mi racconti mai nulla di te.
G.: Fringuellina, ti adoro quando ti approfitti della mia debolezza per colpirmi col mio repertorio di frecciate.
V.: Voi uomini siete tutti dei deboli. Per questo usate la forza bruta e la discriminazione. Per nascondere la vostra debolezza dietro la violenza bestiale. Siete frustrati poiché le donne riescono in qualunque cosa meglio di voi e cercate di mantenere l’egemonia con i mezzi più bassi. Ma siete destinati a perdere. Un giorno o l’altro il potere vi sfuggirà di mano, e quella mano vi tornerà buona giusto per farvi le seghe!
G.: Alé, è arrivata la tirata femminista da astinenza secolare di cazzo… Ti stavo dicendo, avevamo un repertorio di pezzi dei gruppi del giro californiano quando scoppiò il revival del punk melodico, Green Day, Bad Religion, NOFX…
V.: Guy, me lo ricordo quel gruppo. I Rock And Roll Lobont, li ho anche intravisti in qualche festa d’estate. Però non mi ricordavo ci suonassi pure tu.
G.: Sì, ho suonato anche con loro. Ovviamente i concerti li facevamo per lo più in zona; una volta invece ci chiamarono in un locale dell’hinterland su questo versante. Un amico del cantante e bassista che viveva lì ci aveva fatto da gancio, aiutandoci a fissare la data. Avevamo fatto il concerto, c’eravamo sfasciati dal bere e al momento di sbaraccare c’eravamo resi conto che l’amico del cantante, che c’avrebbe ospitato per la notte, abitava in un altro paesino fuori mano. Lui ci faceva strada con la sua auto e noi dietro col trabiccolo del padre del batterista, che faceva le consegne di caffè nei bar e quindi giravamo con questo catorcio decorato con una tazza gigante e fumante che spandeva il suo aroma in una scia che copriva tutta la fiancata. Prendemmo delle stradine immerse nella brughiera, con una nebbia dieci volte più fitta di adesso. Il batterista cercava di star dietro all’altro tizio, che era pratico del percorso e andava spedito, come tutti da queste parti, che hanno sempre furia. Io suggerii di accendere i tergicristalli, per vedere se migliorava almeno un minimo la situazione. Il batterista mi disse di non sparare cazzate, che era perfettamente inutile. Intanto, eravamo senza punti di riferimento, la macchina davanti era sparita nella notte. E la visibilità continuava a diminuire. Io provai a insistere sulla storia dei tergicristalli. Lui, solo per dimostrarmi quanto stupida fosse la mia idea, girò la manopola e le spazzole si mossero sul parabrezza una sola volta. E sai cosa accadde? Un miracolo! In un istante eravamo passati dalla cecità all’occhio di lince! Come se all’improvviso avessero acceso due file di lampioni che illuminavano a giorno la strada!
V.: E la nebbia?
G.: Non c’era. O meglio, ce n’era un po’ quand’eravamo partiti. Il resto era uno strato di condensa megaspesso che si era formato nel corso della serata.
V. (azionando freneticamente i tergicristalli): Qui non funziona. La nebbia parrebbe reale. E pare di stare ad ascoltare qualche complesso di rumorismo sperimentale, con la differenza che le spazzole della Luna non vanno fuori tempo. Ce n’era un paio, dalle nostre parti, te li ricordi? C’ho pure collaborato con uno di quei gruppi, i Death.Deaf.Test. Facevo delle note di synth stile drone, mentre i tre chitarristi facevano ciascuno delle note a casaccio, sempre stile drone. Tutto un crescendo a questa maniera, finché non arrivava il tipo della sala prove a mandarci via perché il nostro turno era finito.
G.: Dei miei amici mi ci portarono a uno dei primi concerti dei Death.Deaf.Test, dicendomi di prepararmi a qualcosa di sconvolgente. Avevano ragione, fu sconvolgente. Solo che loro intendevano sconvolgente in senso positivo. Per me fu così sconvolgente che dopo un quarto d’ora scappai via!
V. (vedendo Guy di colpo ammutolito e assorto sullo smartphone): Che cerchi? Mica qualche nenia dei Death.Deaf.Test?
G.: Tranquilla, padrona delle dune. Mi è tornato in mente di quando partecipammo al contest “A tutti play”, dove l’anno prima avevano suonato pure loro. Arrivando fino alla semifinale. Una roba immonda.
V.: Lo so, Guy. C’ho suonato insieme.
G.: Dicevo l’“A tutti play”, non i Death.Deaf.Test. Costoso, organizzato da far pena, senza uno straccio di credibilità.
V.: Infatti io non ho mai partecipato. Tu invece…
G.: Il gruppo votò a maggioranza per l’iscrizione. È la democrazia, bellezza. (riprende a consultare lo smartphone) Ecco, sono sul sito ufficiale. Chi siamo, il bando di concorso, regolamento, bla bla bla… La storia! Senti i nomi dei vincitori delle varie edizioni: Gli Adoratori del Demanio, i Plastilina Express, i Sad But Trans, Gli Esseri Inutili, finalmente un nome appropriato…
V.: E chi li conosce tutti questi fenomeni?
G.: Appunto. Però in compenso si bullano d’aver lanciato numerosi gruppi, tra cui il nostro. Lanciato non si sa bene dove, forse nello scarico del cesso, dato che ci volarono fuori al primo turno. E con noi, i pochi gruppi validi che fecero l’errore di gioventù d’iscriversi a quel cazzo di contest. Stroncati da un letale mix di voto popolare degli amici a cui i gruppi formati da ragazzetti di buona famiglia regalavano vagonate di biglietti per assistere alle selezioni, e giuria di addetti ai lavori che credo fossero audiolesi. Oltre ad avere l’Alzheimer.
V.: Povero caro, buttato fuori da un contest di scarsoni per un complotto internazionale! Noi dovevamo fare la trafila dei talent show, altro che.
G.: Saremmo sempre in tempo, a dirla tutta…
V.: Non lo so, Guy. Non sono sicura. Non credo.
G. (quasi gridando): Ma perché?
V.: Ti preferivo moribondo coi postumi della sbronza. Ne abbiamo già parlato.
G.: Sì ma non mi hai detto che mezze frasi peggio di un rebus!
V.: Abbiamo tutto il tempo di parlarne con calma quando torniamo a casa alla fine del tour. Cazzo, Guy, ragiona, non ti far trasportare dall’onda del momento. Non mi sto mica per trasferire in Patagonia! Credi forse che da domani non ci vedremo più?

G.: Tesoro, ho tanta paura che succeda una cosa del genere.



Capitolo 19
Headliner indiscusso dal Manzanarre al Reno

Ero tornato quasi del tutto in me. La mina della sera prima aveva esaurito i suoi riverberi negativi. Mi capitava spesso di bere tanto, fino a oltrepassare il limite. Mi capitava meno di frequente d’andarci giù così pesante da ricordare a malapena cosa fosse successo a Desenzano. Dentro di me, collegavo quegli eccessi allo scenario nebuloso che si prospettava per 2 Dualità. Faceva bene trovare giustificazioni, per lo più inconsistenti, ai propri problemi.
Busnago poteva essere il nome di una cooperativa di pullman di linea piuttosto che un grigio comune sperso nella Brianza. Lo raggiungemmo dopo aver superato un consistente numero di rotatorie. Il navigatore non temeva la nebbia e c’indicò la corretta direzione. Era il nostro migliore amico, dopo i gatti naturalmente. L’ultima di queste rotonde ci portò a deviare dalla strada maestra per immetterci verso il paese, il cui cartello apparve fatti pochi metri. La desolazione suburbana si dispiegò in tutto il suo squallore. Vicni puntò con decisione al centro cittadino, che saliva leggermente, fino alla piazza del comune, da dove scollinammo per raggiungere il Boom Boom, storica sala concerti dell’hinterland milanese, che pur trovandosi in culo alle faine aveva ospitato tanti gruppi anche di fama internazionale. E quel giovedì riapriva le sue porte per accogliere l’ultima data del tour sulla Luna.
“Santifichiamo il navigatore che c’ha portati sani e salvi al traguardo!”, rimarcai tutto contento quando la mia dolce metà spense il motore all’interno del cortile sul retro del locale.
“Guy, io ti ho portato sano e salvo al traguardo, non il navigatore.”
“Chiaro… Ci facciamo una foto da condividere sui social? Con questo clima da horror postatomico non c’è nemmeno bisogno del fotoritocco, verrà comunque una roba surreale!”, proposi, continuando a ostentare buonumore.
“Il genio della lampada a cui apriamo il concerto ha avuto la nostra stessa idea e l’ha già messa in pratica”, mi rispose scocciata e immersa nello schermo dello smartphone. “‘Stasera il filo di Arianna mi ha portato al Boom Boom di Busnago. Sarà un concertino per anime latine e anime salve. Vi aspetto.’”
Concertino”, ripetei con disgusto. “Sempre questo finto basso profilo che devi tenere nel nostro ambiente. Quando poi sei l’essere più spocchioso presente sulle terre emerse dell’indie. E sì che la competizione è serrata!”
“E ovviamente a noi nemmeno ci menziona.”
“Nella sua overdose di grandezza, noi nemmeno esistiamo. Dài, andiamo dentro a vedere, magari ci smentisce ed è simpatico.”
“Magari è ancora più stronzo di come sembra, invece.”
In giro da circa un lustro, Teseo il Minotauro aveva trovato la consacrazione con “Attestati di stima”, pubblicato in primavera. Presentandosi con la classica formula del cantautore alternativo dallo pseudonimo magniloquente, che si accompagnava con chitarra e vari effetti, loop di batterie, campioni e basi assortite, aveva letteralmente sbancato.
“Siamo solo a marzo, ma c’è da scommettere che ‘Attestati di stima’ riceverà questi stessi attestati, perdonate il gioco di parole, in cima a tutte le classifiche di gradimento che la nostra redazione stilerà a fine anno. Il capolavoro era dietro l’angolo, l’avevamo già previsto ai tempi di ‘Baglioni oscuri’, che pure non ci era parso al 100% a fuoco. Con questo nuovo album, che non esitiamo a definire un capolavoro, l’ex fuorisede pugliese trapiantato a Milano appare pronto ad assicurarsi un posto al sole nel sempre più radioso panorama indie di casa nostra. Non perdetelo d’occhio, sarebbe un peccato capitale!” Così aveva sentenziato l’immarcescibile Fosco Quiličić in coda alla sua recensione–tappetino su Indie Italie. A ruota, periodici e siti specializzati si erano genuflessi dinanzi a questo nuovo cantore generazionale. I cui concerti, partiti a ridosso dell’uscita del disco, avevano riempito i locali di tutta Italia.
I live report parlavano di calche disumane e ragazzine in delirio, roba che non si vedeva da tempo immemorabile nei territori plastificati dell’indie italiano. La mia bacheca di Facebook era ingombra di contatti che lo elogiavano, condividevano i suoi video e citavano strofe delle sue canzoni con la stessa enfasi di quando pubblicavano immagini accompagnate da una risibile didascalia poetica, invariabilmente attribuita ad Alda Merini, che essendo morta non poteva prenderne le distanze.
Dopo essersi crogiolato nell’estasi della stagione dei festival estivi, dov’era stato headliner indiscusso dal Manzanarre al Reno, Teseo il Minotauro era ripartito per una tranche autunnale di concerti nei club. Ringraziando i buoni uffici del nostro management, eravamo riusciti a incastrare la data a Milano e dintorni come supporter del grand’uomo.
Nel Boom Boom trovammo un discreto marasma. I tecnici del locale andavano avanti e indietro quasi di corsa, gridandosi indicazioni. Di fatto, nessuno badò alla nostra apparizione. Chiesi a uno di quei runner, nel vero senso del termine, se potevamo iniziare a montare. Ancora una volta, nessuno ci degnò della sua attenzione. Sembravamo due fantasmi.
Il più agitato, comunque, era un tizio seminascosto in un giaccone col colletto in pelliccia che gli arrivava fin sopra la nuca. Parlava al telefono a voce alta e concitata, gesticolando con l’altra mano, che spargeva intorno a sé il fumo della sigaretta accesa. Era Teseo il Minotauro con un principio di crisi isterica. Gli mancava qualcosa di fondamentale e stava impartendo ordini affinché gli pervenisse nel minor tempo possibile.
Ci sistemammo senza star troppo a badare ai suoi scleri. Poi lui essendo una one man band aveva teoricamente bisogno di meno spazio per la sua strumentazione. Perciò per ottimizzare i tempi, e soprattutto allontanarci dalla zona delle operazioni prima che Teseo il Minotauro iniziasse il check, piazzammo il nostro armamentario sul palco e ce ne andammo nell’antisala del Boom Boom, in attesa che fosse il nostro turno di provare i suoni.
Restammo lì un’ora e mezzo almeno. C’erano tavolini e sedie, un bancone bar e mensole piene di libri e fumetti. Distrazioni che non bastarono per impedirci di sentire il soundcheck del nuovo divo dell’indie, e soprattutto le sue lamentele ed esortazioni a una maggior solerzia nel soddisfare le sue esigenze. Nel frattempo, fummo raggiunti dalla coppia di finanziatori che avremmo avuto a cena con noi.
Lei era una cavallona bionda, con le forme arrotondate, in particolare il pancione che prometteva un erede in capo a pochi mesi. Il fidanzato era un fulgido esemplare di bomber delle periferie milanesi. Palestrato perfettamente in tiro, le vene violacee dure come il marmo che sbucavano dai muscoli delle braccia e del collo, al pari dei tatuaggi che gli ricoprivano persino il cranio rasato. Era vestito da biker metallaro, giubbotto, gilet al posto della maglietta, stivali, tutto in pelle. Eugenera ricalcava il look del suo uomo. A dispetto della gravidanza, non aveva rinunciato al completino in pelle, che sfilata la giacca era costituito da un top che conteneva a fatica le poppe e lasciava nudo il pancione.
“A lui piace così. Born to be wild”, rispose stonando a Vicni, che con insolita premura le domandava se non le fosse scomodo portare quegli abiti.
“È di sei mesi”, annunciò con orgoglio Ennio Ponciarelli detto il pilota, dando un buffetto al promontorio di Eugenera. “La nostra bambina è stata concepita durante la campagna di crowdfunding che avete fatto per il tour!”
“Hai capito, Vicni? La loro figlia è un po’ anche figlia nostra! La primogenita della grande famiglia allargata 2 Dualità. Se ancora non avete deciso chi farà il padrino e la madrina…”
“Moto, bionde con le tette grosse e rock’n’roll!”, ci regalò il proprio motto il pilota, che ridendo con la mandibola squadrata e il bicchiere di birra innalzato dal braccio innaturalmente bloccato a novanta gradi, pareva un Robocop anabolizzato. Eugenera implicitamente confermò, rassettandosi i lunghi capelli e abbassando gli occhi sull’abbondante decolleté.
“Lo dico sempre, io”, rilanciò Ennio Ponciarelli detto il pilota. “Il rock’n’roll è la forma più pura di unione dei poli opposti. Io normalmente ascolto solo il rock’n’roll classico delle origini, quello degli anni Cinquanta, andiamo spesso alle feste a tema, ai raduni… Ma voi no!”
“In che senso?”, si riscosse Vicni.
“Voi siete un’eccezione. Voi anche se siete nati negli anni Novanta, negli anni Duemila, insomma, voi avete quello spirito là. Quello delle vere radici del rock, la carica, l’istinto, il sangue, il sesso, i motori. Noi viviamo over the top, sempre, e non è un caso che quando facciamo l’amore è come a un concerto rock, e la nostra creatura ha iniziato a esistere mentre di sicuro ascoltavamo il vero rock suonato da voi due! Diglielo anche tu!”
“Lo sanno, amore, lo sanno; loro fanno il rock come non lo fa più nessuno in Italia”, lo avallò Eugenera.
Non feci nulla per contraddire quella teoria campata per aria. Noi avevamo semplicemente riadattato certi schemi primordiali del rock’n’roll alle tendenze che cicliche tornavano alla ribalta nell’indie, di modo da racimolare consensi a destra e a manca. Eravamo costruiti dall’inizio alla fine. Essere noi stessi c’avrebbe portato poco lontano. Come c’eravamo cuciti addosso i nostri personaggi, così avevamo fatto con la musica. Passavamo il tempo a infamare i gruppi italiani, a deridere le stesse persone che ci elogiavano e a cercare di farci amici gli uni e gli altri.
L’elemento di questo meccanismo che mi spaventava era che quel personaggio, e quel musicista, lo stavo diventando anche nella vita. Ero tutto sorrisi verso chiunque, comprese persone che manco avrei avuto interesse a salutare, e suonavo e componevo musica col solo obiettivo che potesse piacere al pubblico. Non riuscivo più a distinguere il mio gusto personale da ciò che ritenevo fosse giusto proporre per far progredire la mia carriera.
Non avevo idea se Teseo il Minotauro credesse in ciò che faceva, oppure fosse poco più che un mestierante, come stavo diventando io. Qualunque fosse la risposta, si trattava di una persona profondamente sgradevole. Aveva finito il check e non pareva per niente soddisfatto. Fece irruzione nell’antisala e iniziò ad aggirarsi come un tarantolato, continuando a lanciare invettive e berciando ordini al suo entourage, una ragazza e un ragazzo che avevano timore solo a respirare per non esacerbare la sua ira.
“Sul palco non si sente un cazzo! La mia voce deve uscire cristallina dai monitor, equalizzata sopra la chitarra e le basi. Invece gracchia e fischia tutto da fare schifo. Questo è il peggior locale dove ho suonato nelle ultime settimane. Ma chi l’ha organizzata questa serata? Questa è l’ultima volta che mi vedono, dirò al booking di girare alla larga da certi posti di merda.”
Presentivo che avrebbe chiamato in causa pure noi. Non avevo voglia di discuterci, però non mi andava giù il pensiero d’essere strapazzato da quel coglione che strillava come un bimbo viziato cui i genitori han fatto l’errore di darle tutte vinte. Lui, di contro, aveva la vena completamente intasata.
“Tecnici incompetenti e lavativi”, ripartì in quarta Teseo il Minotauro, “che hanno pure permesso a quegli altri di piazzarmi in mezzo la loro roba. Io devo potermi muovere liberamente da una parte all’altra, senza che rischio che il cavo della chitarra s’impiglia su qualche suppellettile inutile che sta dove non ci deve stare. E in più c’è quella cazzo di batteria fottuta che mi ruba più di metà dello spazio sul palco!”
Mi alzai in piedi, senza nemmeno sapere come iniziare la controffensiva. Gli attacchi a Vicni mi irritavano molto più di quelli indirizzati a me.
“La batteria la smontiamo appena finiamo di suonare, tranquillo, non rischi che c’inciampi e me la sfasci”, mi precedette invece lei, restituendo freddamente al mittente le accuse del Minotauro. Mentre con una calma soprannaturale sfidava il salvatore della musica italiana, Vicni mi prese la mano e mi fece rimettere a sedere. Intrecciò pure le sue dita tra le mie. Tornato al mio posto, la baciai sul dorso della mano, quindi sciolsi la presa.
“Sarà meglio”, borbottò Teseo il Minotauro, con tutto lo spregio che lo status di primadonna dell’indie italiano lo autorizzava a dispensare all’umanità.
“Va’ che faccia da pirla che è quello là. Io gli avrei dato quattro sberle qui davanti a tutti, così magari la smetteva di fare lo splendido!”, ci assicurò Ennio con fare giobbesco.
“Certo, così anziché l’ultima data del tour, questa diventava l’ultima data della nostra carriera”, gli rispose Vicni, sempre col contegno distaccato con cui aveva affrontato Teseo il Minotauro. La fissai, cercando di capire se fossero dichiarazioni diplomatiche di fronte agli ignari fan o sottintendessero la convinzione d’andare avanti. In cuor mio, a ogni uscita del genere associavo un barlume di speranza che potesse tornare sui suoi passi. Non avevo idea di cosa c’avrebbe riservato il futuro. Ero solo maledettamente preoccupato.
“Sentite me”, dissi a Eugenera e Ponciarelli, “noi dobbiamo fare il soundcheck, poi ceniamo tutti insieme. Però prima, sono troppo curioso: mi piacerebbe che andassimo un minuto fuori così ci fate vedere il bolide!”
“Eh no”, rispose costernato il pilota, “mi spiace ragazzi, la moto è rimasta in garage, ho preso l’auto. Sapete, questa bimba qui, e anche la nostra bimba che nascerà presto, vanno trattate con cura. Proprio come la moto, se no si usurano. Però siamo venuti lo stesso su un bel bolide!”
L’immagine dei due ottusi rocker a tutto gas che si presentavano al nostro concerto con la berlina coreana a due porte parcheggiata proprio accanto alla Luna mi accompagnò per l’intera mezzora che c’impegnò il check.




Capitolo 20
Fermarsi un momento e recuperare un po’ di tranquillità

Fuori, un gran rimbombo segnalava l’inizio del concerto. Era una decina di minuti almeno. Non se ne preoccupò e rimase dov’era, le mani incrociate in grembo, la testa reclinata all’indietro e gli occhi chiusi.
L’acustica sul palco non era niente male, a dispetto delle scenate di Teseo il Minotauro in sede di soundcheck. Da lì, invece, era un pastone indefinibile ad arrivare alle sue orecchie.
Il loro ultimo concerto era stato dirompente. Oltre che efficace nelle geometrie musicali, ma era il meno. Contavano l’intensità, la passione, il modo in cui riuscivano a colorare canzoni spesso leggerine e a tratti plastificate, rendendole piccole schegge pronte a esplodere. Eppure, non se li era filati nessuno. Il Boom Boom, un catino strapieno dove non entrava più uno spillo, li aveva accolti con indifferenza. Le prime file erano assediate dai fan e soprattutto dalle fan di Teseo il Minotauro, e l’ultima cosa che desideravano era scompigliarsi in inutile anticipo sulla comparsa del sommo poeta. L’occasione di aprire per un grosso calibro dell’indie pareva non aver portato frutti. Salvo che i seguaci del Minotauro non avessero voglia di fare acquisti targati 2 Dualità. Guy a tale scopo era schizzato fuori per allestire il banchino. Il tempo di togliersi la camicia madida e rimpiazzarla con una maglietta asciutta, era uscito dal camerino, armato del trolley contenente il merchandise. Ma c’era da scommettere che almeno per l’intera durata del concerto, nessuno avrebbe distolto la propria attenzione dallo scostante cantautore di natali pugliesi.
Vicni, come sua abitudine, se l’era presa comoda nel backstage prima di rientrare in sala. S’era scolata una delle bottiglie di birra che c’erano sul tavolo in camerino e che ancora non erano state depredate dal suo socio. D’improvviso rabbrividì. Stava per accendersi una sigaretta, ma si fermò. Ebbe un flash: vide entrare dalla porta un gruppo di algidi darkettoni che prima le facevano bere liquori dai colori improbabili e poi la costringevano a concedersi loro. Era una visione che la tormentava di frequente, specie quando si trovava da sola.
Non erano certo le scorie dello stupro di gruppo subito anni prima a farla titubare sul futuro di 2 Dualità. Quella, casomai, era stata una circostanza che in qualche modo l’aveva avvicinata a Guy. Però sentiva una grande stanchezza. E non si trattava della lunga settimana trascorsa in tour. Era una stanchezza più profonda, maturata da tanti fattori diversi.
Sapeva bene ciò che le avrebbe detto Guy, quando avrebbero riaffrontato l’argomento. Avrebbe cercato di rassicurarla, proponendole qualche settimana di stacco per poi, con calma e raziocinio, riprendere il filo del discorso. Avrebbe al contempo fatto pressione su di lei, provando a instillarle dei sensi di colpa perché a suo modo di vedere stavano gettando alle ortiche un progetto che gli avrebbe permesso di togliersi parecchie soddisfazioni. Forse l’avrebbe persino implorata di non lasciarlo.
Rabbrividì nuovamente. Si aspettava di veder aprire la porta e comparire quei bastardi per il secondo round di ciò che loro avevano preteso di spacciare per un’orgia tra persone adulte e consenzienti.
Nonostante stesse per dividersi da lui, ebbe la stringente necessità di averlo accanto. Il più presto possibile.
“Dove sei?”, gli scrisse semplicemente. Disperava che in quel casino, Guy avesse modo di controllare il telefono in tempi brevi, ma ci provò lo stesso. L’ipotesi più probabile era che si trovasse al banchetto merchandise. Fu lì che si diresse. Non fu un’impresa agevole.
Nessuno le badò, neppure coloro che spintonava per farsi largo. Evitò di voltarsi in direzione di Teseo il Minotauro. Poteva intuire ugualmente, dalle acclamazioni che udiva, quanta idolatria vi fosse nei suoi riguardi. Era molto oltre il suo limite di sopportazione, pensò Vicni, proseguendo a districarsi nel magma umano.
Raggiunto infine l’angolo merchandise, lo trovò incustodito. Del resto era una delle rare zone in cui non c’era assembramento. L’ansia di ricongiungersi a Guy la assalì ulteriormente dopo quel primo tentativo andato a vuoto. Teneva sottocontrollo il telefono, sperando in una sua risposta, ma senza esiti. Cercò di fermarsi un momento e recuperare un po’ di tranquillità. Si disse che non vi era alcun pericolo incombente. Sollevò lo sguardo sul palco.
Teseo il Minotauro sembrava più alto di quanto non fosse. Leggermente ingobbito con la chitarra a tracolla e l’aspetto da universitario fuorisede cannato, trasmetteva una notevole desolazione, solitario e spaesato sul palco.
Allo stesso modo, le sue composizioni, rivisitazioni nemmeno più di tanto aggiornate del cantautorato italiano anni Settanta, erano lineari e senza picchi d’intensità, scritte bene e interpretate con convinzione, ma lontane dalla rivoluzionaria genialità che gli veniva attribuita da critica e pubblico. Inoltre, il ricorso a basi elettroniche piuttosto monocordi, già dopo meno di due canzoni (il tempo che Vicni riuscì a concedergli) appiattiva tutto e non erano sufficienti campionamenti e suoni particolari a rendere più variegato il repertorio.
Tornò ad agitarsi e a sondare il suo campo visivo allo scopo di identificare Guy. Un nuovo timore s’impadronì di lei. Col suo fascino e savoir-faire, poteva essere riuscito a imbroccare un tipo anche in un territorio ostile come il concerto di Teseo il Minotauro. Vicni si augurò che non fosse successo proprio quella sera. Aveva bisogno di lui. Fissò ancora una volta lo schermo del telefono. Nessun messaggio di risposta.
Quantunque in camerino vi fosse da bere a volontà, non le andava di rifare la strada all’incontrario e ritrovarvisi da sola. Spese dunque una consumazione al bar. Un cocktail molto forte. Ne bevve due sorsate e, bicchiere in mano, avanzò con l’intento di scovare Guy, a costo di passare a zigzag dall’ultima alla prima fila del locale. Con le buone o con le cattive. Con queste ultime, in particolare, scostò due giovani fidanzati che, nel lasciarla passare a malincuore, le urlarono all’orecchio qualcosa che non afferrò. La voce di lei, in particolare, era tutto fuorché amichevole.
Fattasi largo in mezzo a quattro ragazzini dall’aria dormiente, probabilmente venuti al concerto anche col velleitario proposito di raccattare un po’ di fica, che abbondava quand’era di scena Teseo il Minotauro, riuscì a scorgere la sua testa. Era defilato sulla destra, tre file più avanti. La parte conclusiva dell’inseguimento si rivelò la più semplice. Vicni sgomitò per qualche altra manciata di secondi, beccandosi improperi e occhiatacce che le piovevano addosso già da un pezzo. Non appena lo ebbe a meno di due metri, verificò che fosse solo. Quindi fece l’ultimo sforzo per raggiungerlo, riuscendo a crearsi misteriosamente un varco per metterglisi di fianco.
Tutto il tramestio che aveva creato, fece sì che Guy si voltasse verso di lei proprio mentre gli stava andando incontro. Si guardarono negli occhi. Apparivano entrambi malinconici, lei stravolta per quella caccia all’uomo che le era parsa interminabile, lui con un pizzico di rassegnazione dipinta in viso.
Vicni abbozzò un sorriso, provando ad apparire vagamente rilassata. Guy sorrise a sua volta, quindi ammiccò alla folla in delirio, come a significare: “Hai visto? Abbiamo sbagliato tutto, noi due.”
Scossa e disarmata dalla remissività del compagno, sentì che stavano per iniziare a scenderle le lacrime. Gli si strinse contro, mettendogli un braccio intorno alla vita. Guy la cinse a propria volta al di sopra delle spalle. Rimasero lì, immobili e in silenzio, mentre si compieva uno tra i riti più in voga nel disastrato mondo dell’indie italiano.
Se mai qualcuno in quella folla amorfa ci avesse fatto caso, avrebbe creduto di vedere due innamorati, avvinti in un tenero abbraccio e immersi nell’atmosfera magica del concerto di Teseo il Minotauro. Forse per una volta, Guy e Vicni sarebbero davvero apparsi agli occhi altrui come la coppia che negli ultimi quattro anni e fino a quel momento avevano fatto finta di essere.









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