Cantautore comasco nato nel 1999, Tommaso Imperiali è uno di quegli artisti per i quali l’aspetto artistico musicale è inscindibile dalla capacità di raccontare storie in cui i giovani come lui, ma non solo, si possano identificare. Il fatto di essere un grande fan di Bruce Springsteen e delle sue storie di gente comune che non molla mai si sente palpabilmente nel suo ultimo singolo “Inni generazionali”, che è una storia, raccontata in maniera molto diretta e senza particolari metafore, di incrollabile amicizia e sana “voglia di spaccare il mondo”, quella voglia che dà il coraggio di affrontare gli altri sempre con un sorriso, che piaccia o meno. Il sentimento prevalente che emerge dall’ascolto del brano è la contagiosa positività della giovinezza, quel coraggio, che certi ragazzi come Tommaso riescono a mettere in musica, di prendere di petto la vita con un pizzico di spavalda incoscienza, rialzandosi in piedi dopo ogni fallimento senza mai perdere la fiducia nel futuro. Dal punto di vista della scrittura musicale il pezzo è una ballata classica venata di rock con una melodia molto orecchiabile e coinvolgente che sfocia in uno di quei ritornelli che viene voglia di cantare in coro.
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Tommaso per esplorare più a fondo il suo mondo e ciò che lo ispira.
- Allora Tommaso partiamo da un tuo ritratto musicale. Sei stato membro dei Five Quartets e ora sei solista, ma mi sembra, a vedere anche l’ultimo post sulla pagina Facebook della band, che siete rimasti in buoni rapporti. Perché vi siete sciolti e cosa ti ha lasciato quell’esperienza?
- E’ stato uno scioglimento in realtà molto parziale perché il Five Quartets rimangono la mia live band. Da due anni e mezzo circa il progetto a livello discografico è mio, a nome “Tommaso Imperiali”, ma per tutti i live che posso fare con la band di fatto chi mi accompagna sono i Five Quartets.
- Sappiamo che sei un grande fan di Springsteen, loro quindi sono un po’ come la tua E Street band
- Esatto è proprio quella cosa lì. Poi a livello discografico lavoro con il produttore Lorenzo Cazzaniga, mentre invece i live li facciamo sempre noi. Con alcuni di loro suono insieme da quando avevamo 14-15 anni, quindi da circa 10 anni.
- Ora ti faccio una domanda strana. Immaginati di naufragare su un’isola deserta e che tu abbia a disposizione legno e utensili per costruire un solo oggetto tra un riparo dal vento e dalla pioggia e una chitarra. Che faresti?
- Rispondo un riparo dalla pioggia e dal vento perché essendo su un’isola deserta della chitarra me ne farei ben poco principalmente perché quale sarebbe il senso di suonare? Per me stesso? Quindi no punterei a salvarmi e poi a tornare a suonare il prima possibile.
- Hai un timbro vocale, sentendo in particolare “Inni generazionali”, vicino a quello di Edoardo Bennato. E’ un paragone in cui ti riconosci, che ti piace?
- Ovviamente sì mi piace moltissimo e in realtà me lo dicono veramente in tanti, ma è qualcosa che mi è venuto per caso, spontaneamente. Ovviamente lo metto tra i grandi però non avrei detto che mi ispiro a Bennato. Però davvero me lo stanno dicendo in tanti quindi evidentemente è qualcosa che c’è nella mia musica.
- Parliamo del testo di “Inni generazionali” mi ha colpito la frase “imparando a sorridere per confortare, chi ci vuole bene o per fare incazzare chi non lo fa”. Qual è la potenza sovversiva di un sorriso?
- L’idea è quella che anche un sorriso che può sembrare una manifestazione spontanea di uno stato d’animo, in verità è qualcosa che è fatto per uno scopo. Non è il sorridere per il gusto di farlo, ma diventa qualcosa di meccanico se vogliamo che viene fatto o per confortare un amico o per far incazzare, cioè far vedere che sorrido lo stesso. Quindi il senso è che quelle cose che sembrano spontanee poi scavando sono un po’ di facciata.
- Nella canzone c’è questa storia di tre amici che è legata alla crescita insieme, al fatto di condividere delle esperienze. Ce ne parli meglio?
- Sicuramente sì, il tema è quello di tre amici al tramonto con la birra, le chitarre e la voglia di spaccare il mondo e cambiarlo, quindi questo quadretto da romanzo americano “on the road”, come dice la canzone, “la sintesi sfacciata di nostalgia e bellezza”, poi però uno si ferma a pensare e si rende conto che non ci siamo mai mossi da questi viali e viene un po’ l’ansia, l’angoscia che sia tutto di facciata, una brutta imitazione del vero sogno americano, di chi ha vissuto veramente quei momenti in modo autentico. Come in tutti i pezzi nuovi l’intenzione è di spingere molto sulla parte del testo, l’approccio cantautorale alla scrittura cercando però di dare allo stesso tempo anche molto risalto alla parte suonata. Fare quindi canzoni che siano cantabili da più persone possibile insieme, canzoni che si prestano bene al coro, non diciamo da stadio che è un po’ troppo, ma da arena.
- Ecco qui arriviamo a Springsteen perché diciamo che tu hai definito questo brano come “heartland rock” con una forte tematica sociale. Dammi una definizione di “heartland rock”.
- Difficilissima, è quel movimento che parte da Springsteen e va in avanti e che è in grado di tenere insieme una scrittura cantautorale con un sound da rockband, quindi suoni potenti, approccio molto live all’arrangiamento. Un genere che ha avuto in Springsteen il suo punto di riferimento ma che è poi continuato negli anni con i vari The Killers, i Train e che adesso sta tornando molto in voga in America e in Inghilterra soprattutto con Sam Fender, Zach Bryan, tutto quel mondo lì. In Italia forse c’è un po’ meno un movimento heartland rock e il tentativo è proprio quello di portarlo anche da noi.
- E poi questo genere di canzoni racconta una storia, anche nelle tue canzoni c’è lo sviluppo di una storia.
- Sicuramente sì, il tentativo è sempre quello di raccontare delle storie che siano abbastanza concrete, personali, non nel senso che siano personali mie ma che parlino di persone, che si aprano a qualcosa di universale in cui più persone possibile possano rivedersi. L’ambizione inarrivabile è quella di fare appunto dei piccoli inni generazionali, canzoni che parlano sì di tre amici al tramonto ma che in verità vogliono parlare di qualcosa di più ampio.
- Qual è stato il tuo inno generazionale per eccellenza, quello che ti ha fatto scattare la passione per la musica, il desiderio di diventare musicista?
- Bisogna per forza tornare a Springsteen poi scegliere una diventa difficile, se proprio dovessi direi “Born to run”, che sarà banale però è anche il primo pezzo che abbiamo suonato come band, cioè la band nasce, prima ancora che io ne facessi parte, con chitarrista, batterista e sassofonista che a 13 anni per scommessa dicono vediamo se il sassofonista è in grado di suonare il solo di “Born to run”. E’ il pezzo inno generazionale perché è quello da cui tutto è partito.
- Facciamo un passo indietro per parlare un po’ del pezzo “Ragazzini viziati”. Mi ha colpito in particolare un verso che dice: “cominciano ad essere troppe le sere che si torna presto, le notti che non dormi e i giorni che passi a letto”. Questa sequenza di solito è un chiaro sintomo di depressione.
- Decisamente sì, il pezzo non è particolarmente autobiografico. Anche nella prima strofa quando canto “cominciano a essere tanti i ragazzi con la faccia stanca” è una cosa che notavo nelle persone attorno a me e anche in alcuni miei amici molto vicini. Questa fatica a trovare stimoli nel quotidiano che è qualcosa che secondo me abbiamo vissuto un po’ tutti soprattutto nel periodo Covid, post Covid. Il pezzo è nato in quel periodo lì quando c’era la voglia di voglia di uscire ma c’era la fatica di farlo e tutto diventava macchinoso. Quindi si parla della mancanza di stimoli per alzarsi dal letto, motivi per uscire. Però è un pezzo in cui c’è anche una parte di speranza quando canto “c’è che serve un concerto e urlare tutto questo, in mezzo alle canzoni così fa meno impressione”, cioè se gridiamo tutti insieme questa nostra condizione forse ne usciamo.
- Parliamo ancora del singolo “Le lune di Giove”, in cui ci sono lui e lei che vagano alla stazione di notte e dei versi che recitano “Adesso tocca a me solo per un secondo diventare quello che sei per me ogni giorno”. I piccoli gesti che sembrano insignificanti sono in grado di restituire un senso alla vita?
- Sì diciamo che tu hai detto “lui e lei” ma il testo è volontariamente ambiguo dal punto di vista di chi sono queste persone perché, per esempio, il mio chitarrista appena gliel’ho fatto sentire mi ha detto “ah che bella questa storia di padre e figlio”. Non ci avevo mai pensato che suonasse così, c’è chi ci ha visto padre e figlio, due ragazzi, chi ci ha visto una coppia. Partendo da questo stimolo ho deciso di tenere il testo più aperto possibile per far sì che potesse diventare qualcosa in cui più persone possibile potessero riconoscersi.
- Il comun denominatore della tua attività come musicista è la condivisione.
- Sicuramente sì perché il terrore più grande che ho come cantautore è di cantare dei fatti miei che è l’errore peggiore che può fare un cantante e che capita piuttosto spesso. Il tentativo è sì di partire da qualcosa di autobiografico, ma di renderlo universale.
- Nell’album dell’anno scorso “Meccanismi di difesa” c’è una canzone che si intitola “Tom Waits”, ce la puoi spiegare?
- Anche qui torna il discorso che facevo per “Ragazzini viziati”, perché è il pezzo più triste dell’album in cui diciamo che la speranza non è che abbondi però se vogliamo vedere il lato più luminoso è la testimonianza di come i dischi, gli amici e i concerti possono arrivare veramente a salvarti la vita. Canto “tornare con Diego dal concerto di Bugo cantando Tom Waits”. Diego è il mio trombettista, a quel concerto siamo andati veramente e tornavamo in macchina cantando Tom Waits”.
- Abbiamo parlato molto dei grandi come Springsteen, ma nel mondo del rock contemporaneo c’è qualcosa che ti stimola dal punto di vista internazionale e anche italiano?
- Sì dal punto di vista internazionale come ti dicevo prima Sam Fender è fantastico e mi ci sto appassionando veramente tanto, poi Zach Bryan e Glen Hansard che ha qualche anno in più però è veramente la mia musica. In Italia ci sono, a parte gli storici intoccabili, un po' di cantautori nuovi che vale la pena ascoltare come Brunori che tra i nuovi è veramente forte.
- Come sta il rock oggi, non ci sono più gli investimenti di un tempo sul genere e tu come la vedi?
- Sì però penso che in Inghilterra e in America ci sia un ritorno anche su grandi numeri del rock nel senso lato, nel senso che Sam Fender è primo in Inghilterra e in America gente come Zach Bryan stesso sono in testa alle classifiche. In Italia no però siamo sempre in ritardo di un quattro-cinque anni su queste tendenze.
- Nella classifica dei più venduti in Italia si trova ben poca roba attinente al rock
- Sì anche se stiamo assistendo al ritorno dei cantautori, pensiamo a Lucio Corsi, fanno benissimo.
- La tua cover di “The Wrestler” di Springsteen che hai fatto con Daketo ha vinto il contest “Cover me”. Quello che ho notato è come hai interpretato il pezzo, cioè che la vera cover non è una riproduzione pedissequa dell’originale, ci vuole un tocco personale come hai fatto tu. Che ne pensi?
- Sì esatto. E’ un pezzo cui sono affezionatissimo sia per il film che è uno dei miei preferiti ed è un pezzo che sentivamo molto nostro con il mio chitarrista Daketo che è il chitarrista dei Five Quartets. Quando abbiamo delle serate in acustico siamo noi due e mi segue sempre. Abbiamo fatto questo riarrangiamento e poi alla finale, a Bergamo, l’abbiamo suonata con tutti i Five Quartets. Vincere è stato ovviamente molto bello, ma è anche un bel concorso perché è molto sano, non importa tanto alla fine chi vince ma entrare a far parte di questa famiglia che si chiama “Noi e Springsteen” di Bergamo con cui abbiamo fatto tante cose in questi anni e mi ha aperto tante porte.
- Al Fringe Festival, il festival della scena teatrale indipendente che si è tenuto a Torino, cui hai partecipato per la parte musicale dello spettacolo “Ecologia Capitalista”, ho visto che hai portato anche una canzone come “Society” di Eddie Vedder che ha una vocalità molto diversa dalla tua, diciamo che noi hai paura di confrontarti con voci così diverse dalla tua.
- Vocalmente sì non ho paura, ma nel caso di Springsteen c’è da parte mia un atteggiamento un po’ più reverenziale e questo contest è stato veramente un unicum, perché come band facciamo raramente cover di Springsteen anche perché se si fa si fa bene, non lo puoi affrontare a cuor leggero. I nostri spettacoli adesso come adesso si basano quasi solo su brani originali però un paio di cover le mettiamo dentro perché comunque funzionano.
- A proposito di cover, oggi purtroppo gli spazi per la musica originale si sono ristretti, funzionano le coverband che si limitano a riproporre le canzoni di artisti famosi. Nulla da dire sulla capacità tecnica dei musicisti che ne fanno parte perché sono bravissimi, ma è proprio un problema di non avere spazi per la musica originale.
- Sì in questo momento il problema della musica italiana è proprio la mancanza di spazi piccoli per far suonare le nuove band che propongono musica originale e stanno iniziando. A Como siamo stati fortunati perché negli anni in cui eravamo al Liceo abbiamo potuto suonare tanto e si è creata una bella realtà, un bel giro, per cui riusciamo a fare dei numeri abbastanza grandi con il nostro pubblico che sera dopo sera torna. Per chi comincia adesso o per noi quando ci spostiamo dalla nostra zona diventa un problema quello di trovare spazi. La cosa bella sarebbe riuscire a costruire quello che abbiamo fatto a Como anche in altre città. Inizi a suonare nei localini, ti fai le ossa, la gente ti ascolta poi magari torna. A Como possiamo fare anche concerti nel teatro con 300 persone quindi fighissimo, ma se ci spostiamo dobbiamo ricominciare dai localini, dal basso. Secondo me l’approccio deve essere quello lì.
- In te coesistono un cantautore e un cantante di rockband. In quale di queste due categorie ti identifichi di più?
- Diciamo che a casa mi sento più cantautore, mentre sul palco più cantante di rockband. Infatti diciamo che a casa tendo a scrivere in modo cantautorale poi vado a provare con la band e mi rimproverano e mi rimprovero da solo che mancano un po’ i pezzi rock n’ roll e allora vado a casa e scrivo dei pezzi rock n’ roll in ottica live.
- Nella tua band vige la democrazia? Nel senso che ognuno porta le proprie idee e poi si sviluppano insieme.
- No, assolutamente no. Diciamo che vige una dittatura illuminata (ride). Secondo me, a parte gli scherzi lavoriamo meglio. Fino al 2022 quando ci proponevamo come Five Quartet in senso stretto si doveva sempre mediare su ogni scelta con otto teste e quello che ci rimetteva di più era il sound, l’identità che veniva fuori molto meno precisa rispetto ad adesso. Ora il lavoro in studio, di arrangiamento è fatto in autonomia rispetto alla band e così sappiamo esattamente come suonare, cosa vogliamo e andiamo avanti così.
- Chi è il tuo produttore in quanto Tommaso Imperiali?
- E’ Lorenzo Cazzaniga che ha prodotto tutti i miei pezzi come Tommaso Imperiali. Lavoriamo insieme da fine 2022 diciamo da quando mi sono “messo in proprio”. Lui è una persona con un’esperienza enorme nel mondo della musica, lavora con molti grandi della musica italiana come Negramaro, Baglioni, poi ha fatto delle cose con Ultimo. Adesso vuole sviluppare dei progetti meno pop, meno mainstream per fare la musica che piace a lui, che coincide con quella che piace a me. Per cui ci siamo trovati e adesso lui è cofondatore dell’etichetta di cui faccio parte, che è AltaVibe. L’obiettivo è fare la musica che ci piace, però con un altro livello di professionalità.
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