“Blacktar”, nuovo album dei veneti IYV è l’esatto opposto di quella muzak imperante e priva di contenuti costruita a tavolino per assecondare il gusto della gente. Ascoltare il loro lavoro è infatti come leggere un romanzo di formazione che ti arricchisce facendoti toccare con mano un percorso di morte interiore e di difficile, ma fortemente voluta, rinascita. La blacktar che dà il titolo al disco è un particolare tipo di cocaina nero e vischioso ed è simbolico di ogni tipo di dipendenza in grado di legare a sé un individuo rendendolo schiavo. In 11 brani il concept album descrive l’ardua arrampicata di un uomo sulle pareti dell’abisso in cui è sprofondato fino a farlo tornare a riabbracciare la vita. Gli IYV, ovvero Matt G. (voce e chitarra), Alessio Galliazzo (chitarra), Samuel Battistella (batteria) e Neil Lucchetta (basso) si sono impegnati con ogni energia per trasmettere all’ascoltatore, grazie a quel medium straordinario che è la musica, il concetto chiave del riuscire a liberarsi dall’insopportabile peso di tutto ciò che può diventare tossico nella vita, quindi non solo sostanze, ma anche, per esempio, una relazione. Dal punto di vista sonoro l’album è potente e si connette soprattutto, ma non solo, al grunge e all’alternative rock. La voce di Matt G. spicca per intensità e sfumature che, a tratti, richiamano alla mente eroi musicali degli anni 90 come Eddie Vedder e Chris Cornell. La chitarra e la sezione ritmica rendono il sound massiccio al punto giusto contribuendo in modo determinante a conferire un tratto distintivo alle sonorità del gruppo. I brani sono vissuti, interpretati con una visceralità che ne testimonia l’autenticità e che permette all’ascoltatore di entrare in sintonia con l’interiorità dei musicisti. Blacktar, da questo punto di vista, è un disco necessario, sincero, vero. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con il bassista Neil Lucchetta per approfondire lo spirito della band e dell’album.
- Ciao Neil, innanzitutto ti chiederei, dato che è così particolare, di spiegarci il nome della band, “IYV”
- E’ quasi un progetto grafico più che un nome proprio. La “I” sta ad indicare l'individuo che si apre verso il mondo come una “zip”, che è la “Y”, e poi c’è l’apertura vera e propria verso il mondo esterno che è la “V”. Leggendolo così come è scritto suona poi come Eve che è il nome Eva in inglese.
- Sono rimasto colpito dalla vostra descrizione dell’album “Blacktar” come un viaggio di liberazione dalle dipendenze. Farlo è stato per voi una questione di urgenza creativa?
- Sì soprattutto per Matt, il cantante, che è l’autore dei testi, è una cosa in un certo modo autobiografica di questa persona che attraversa una serie di dipendenze, che può essere la dipendenza dalle droghe, ma anche amorosa e che lotta per uscirne e ritornare nel mondo reale.
- In questa lotta per uscire da una dipendenza la musica può salvarti la vita?
- Tutti abbiamo avuto questi problemi e sicuramente la musica è una terapia incredibile e quindi ha aiutato tutti.
- Prima di arrivare a questo nuovo album sono passati parecchi anni, il nuovo lavoro ha cambiato forma nel corso degli anni?
- Il progetto IYV risale addirittura al 2001 e il cantante Matt ne è sempre stato il Deus ex machina, intorno a lui sono ruotati diversi musicisti nel corso degli anni poi nel 2020 Matt insieme agli IYV dell’epoca avevano registrato questo album, poi c’è stato un ulteriore cambio di formazione e siamo entrati io come basso e Samuel alla batteria, abbiamo trovato un’etichetta discografica, la “Overdub Records” che ci ha proposto di fare un album. Siccome questo Blacktar lo proponevamo sempre live abbiamo deciso di vestirlo di nuovi arrangiamenti ed è stato remixato e rimasterizzato.
- Quindi non avete riregistrato tutto da capo, ma avete usato le tracce originali per fare qualcosa di un po’ diverso.
- Qualcosa sì è cambiato. Per esempio le mie tracce di basso sono state rifatte totalmente e anche alcune tracce di chitarra. E’ stato diciamo rivestito con suoni un po’ più moderni.
- In fase creativa in genere avete molto materiale e ne scartate oppure arrivate in studio già con un nucleo di brani definiti?
- Di solito componiamo abbastanza pezzi per poi scremarli e scegliere i migliori. Che è quello che stiamo un po’ facendo anche adesso perché non siamo mai fermi. Anche ora che è uscito “Blacktar” siamo lavorando a pezzi nuovi per un prossimo album e ne abbiamo già 8 o 9 pronti.
- E della vostra attività live che mi dici?
- Abbiamo già varie date a Treviso, a Preganziol. Stiamo cercando di muoverci quindi.
- Da quando registrate le tracce in studio a quando vi esibite dal vivo ci sono dei mutamenti nella struttura dei brani? Nel senso è un’evoluzione che continua dal vivo o rimangono nelle versioni in cui sono stati registrati, cioè li rifate uguali?
- Alcuni pezzi come l’ultimo singolo “Stay for Hire” lo allunghiamo dal vivo, facciamo un po’ di jam tra un ritornello e l’altro. Lo facciamo con quelle canzoni che per così dire “chiamano” questa situazione, aggiungiamo pathos, qualcosa di diverso. Invece altri pezzi, diciamo la maggior parte, li rifacciamo più o meno uguali.
- La vostra musica è molto d’impatto per chi ha vissuto l’epopea del grunge negli anni 90 e poi la voce del vostro cantante richiama a tratti quella di Chris Cornell o di Eddie Vedder. Pensate che la vostra proposta musicale possa portare le generazioni più giovani a riavvicinarsi al rock, sia ascoltandolo che suonandolo?
- Ovviamente è una speranza e io credo di sì perché, a parte i giovani che ascoltano trap, c’è ancora uno zoccolo duro di ragazzi che amano il nostro genere e quando ci parlo insieme e sento citare gruppi come i Soundgarden rimango stupito perché non è cosa affatto scontata di questi tempi.
- Una domanda sulla prima traccia di “Blacktar”, ossia “Synchronize to the shelter”, che tradotto letteralmente è “Sincronizzarsi con il rifugio”. Che significato ha?
- “Blacktar” è una specie di concept album in cui si racconta di questo uomo che dopo le dipendenze si apre al mondo. Il pezzo è un’esplorazione delle emozioni del protagonista perché è proprio la canzone di apertura. Si parla dalla sensazione di protezione offerta dalla dipendenza, questo il tema centrale del pezzo. All’inizio il cantato ripete “Mother, mother” cioè la madre che mi pare sia un tipo di droga o qualcosa del genere, quindi ciò che racconto il pezzo è la sensazione di protezione data dalla dipendenza che poi sfocia nel secondo brano “Renamer”, che è stato scelto come primo singolo, che rappresenta il momento in cui il protagonista si integra nella società.
- Qual è, secondo te, il vostro tratto distintivo rispetto ad altri gruppi che fanno il vostro stesso genere? La vostra particolarità?
- Sicuramente abbiamo molte influenze anni 90, penso che però una particolarità si possa trovare nell’alternativo, nel senso che tanti gruppi grunge seguivano un po’ quella scia hard rock anni 70, come i Soundgarden appunto o anche i Pearl Jam. Questa a noi manca e siamo un po’ più sull’alternativo, diciamo che è un po’ quello che ci diversifica e forse ci rende anche più moderni.
- Fate brani lunghi anche più di 5 minuti ovvero assolutamente fuori standard per le radio, che passano pezzi che devono durare i canonici 3 minuti e mezzo, massimo 4. Questo sembra confermare l’intenzione di riportare l’attenzione dell’ascoltatore più sui contenuti che non sulla forma e quindi anche di fregarsene di cercare il consenso del pubblico cosiddetto “generalista”, più massificato. E’ così?
- Quello sì sicuramente, proprio perché di questi tempi c’è una mancanza di attenzione da parte delle persone. Vedi su Instagram ad esempio un Reel deve durare non più di 15 secondi perché poi chi vede si stufa. Noi andiamo un po’ contro questa tendenza. Poi ci sono però anche casi come quello di una nuova canzone che abbiamo scritto recentemente che dura meno di tre minuti. A volte abbiamo questa urgenza di comunicare un messaggio preciso. Comunque speriamo che la gente abbia il tempo e la voglia di ascoltarci.
Sicuramente un album come “Blacktar” merita non solo attenzione, ma anche un ascolto ripetuto per essere compreso appieno e fatto proprio, un pò come avveniva nell’era pre streaming musicale, quando compravamo un LP, una cassetta o un CD in negozio e gli dedicavamo settimane o anche mesi di ascolti. E’ stato quello il modo in cui certi album hanno fatto la storia. Oggi, nell’era in cui ogni giorno troviamo continui frenetici input musicali sulle piattaforme manca il tempo di innamorarsi di un disco e di un gruppo. E innamorarsi della musica è amare la vita.
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