Si può essere giovanissimi con una lunga esperienza? In rare occasioni sì. Ed è il caso dei The Kollege, band piemontese formata da Alessandro, voce e chitarra, suo fratello Lorenzo alla batteria e l’amico Paolo al basso. Il gruppo nasce nel 2022 dall'idea di Alessandro e Lorenzo, di 17 e 18 anni, che sono polistrumentisti e figli d’arte così come l’amico Paolo, quindicenne, che nel 2023 giunge a completare il progetto. I genitori di Alessandro e Lorenzo sono a loro volta musicisti che si esibiscono come buskers in Italia e in Europa partecipando a vari Festival internazionali. E sono stati loro i primi sponsor dei figli valorizzandone il talento naturale con il progetto The family band 4 che ha coinvolto i ragazzi permettendogli di esibirsi con loro. Indubbiamente aver avuto questa opportunità contribuisce a dare ai The Kollege quella marcia in più rispetto alla stragrande maggioranza degli altri gruppi di coetanei esordienti. Esibirsi in strada è, infatti, l’esperienza più formativa che possa fare un musicista perché espone ad un contatto diretto con chi ascolta, che non conosce affatto chi suona e, quindi, può applaudire come fischiare e, pertanto, rappresenta una costante spinta al miglioramento. L’esordio discografico full lenght dei The Kollege, “Sensibility", uscito lo scorso 16 maggio, è la naturale conseguenza di questa vita in musica. I pezzi hanno strutture evolute ed emotivamente coinvolgenti. Grazie all’aiuto del padre di Alessandro e Lorenzo, che registra, mixa e produce nel suo studio casalingo i The Kollege hanno avuto l’opportunità di fare le cose perbene e con calma dando un’anima ben definita al progetto. “Sensibility” è, infatti, un lavoro con un intento ben preciso, ossia sensibilizzare i coetanei e tutti gli ascoltatori sulla necessità di recuperare la nostra umanità, staccandoci da smartphone, social network e tutta la tecnologia che ormai si è impadronita non solo delle nostre vite, ma ha letteralmente spento le nostre anime isolandoci dal mondo circostante. Come cantano infatti i The Kollege nel brano che apre il lavoro “Nihilism” “tutta questa libertà è la nuova schiavitù”. E vedere come non solo gli adulti, ma anche i coetanei siano intrisi di questa subcultura ha dato alla band un propellente formidabile: quella sana rabbia che è stata lo stimolo da cui è nato “Sensibility”. In genere i dischi migliori, infatti, nascono da una irrefrenabile urgenza comunicativa e così è per questo lavoro. Dal punto di vista musicale i pezzi sono un riuscito mix di rock, pop, blues, funk e reggae con un pezzo in particolare, “Paige”, guidato da un sax in cui emerge la grande passione per i Pink Floyd. Ma in realtà tutte e 12 le tracce che compongono il lavoro hanno una loro anima musicale che fonde insieme influenze diverse, dai grandi classici anglosassoni a gruppi contemporanei come i Red Hot Chili Peppers, come ad esempio nel caso di “Fuck the fame” e i Maneskin in “Get out of my mind (Adeline), brano più intimo. La maggior parte delle tracce sono in inglese, ma sono comunque presenti alcuni brani in italiano, come “All in all”, la citata “Get out of my mind (Adeline)” e “Mary”. Nel complesso è un album senza filler e già questa circostanza ne denota la qualità. I brani nascono da una certosina selezione dei riff e dei groove più riusciti per poi arrivare per gradi ad una forma canzone compiuta. Abbiamo avuto l’opportunità di parlare con Alessandro che ci ha consentito di esplorare più a fondo l’anima della band.
- Ciao Alessandro, il primo aspetto che mi ha colpito del vostro album è il livello molto alto della produzione. Tutti gli strumenti emergono bene nel mix. E’ sicuramente un disco fatto alla vecchia maniera, non plasticoso. Raccontaci come è nato, dove l’avete registrato e chi l’ha prodotto?
- Noi questo disco l’abbiamo registrato tutto nel nostro studio, abbiamo infatti la fortuna di avere lo studio nel nostro cortile a dieci metri da casa nostra. Nostro papà lavora lì, fa dischi mixa e fa pezzi come ha fatto con il nostro e appunto. Il nostro studio è piccolo, proprio una stanzetta ma abbiamo cercato di registrare nella maniera migliore possibile. Abbiamo fatto un certo investimento per la strumentazione e grazie al nostro papà abbiamo realizzato l’album nell’arco di sei o sette mesi tra registrazione, mix, editing e mastering. La registrazione è stata fighissima perché ci trovavamo un tre o quattro giorni ogni mese per finire le registrazioni e quello è sempre un momento bello. Quindi nostro papà è stato il nostro produttore ed è una grandissima fortuna perché con lui potevamo avere tutta la trasparenza del mondo e sapevamo che lui stava lavorando per il nostro bene.
- Nella composizione dei pezzi vi capita a volte di tagliare e cucire, intendo dalle sessioni iniziali vi capita di mescolare parti dei pezzi per ottenere ciò che volete?
- Sicuramente capita. Dal primo nucleo di un pezzo al prodotto finale cambiano tantissime cose. Il processo di creazione è lungo e tutti noi tre della band riteniamo che occorra aspettare del tempo prima di essere sicuri che di un pezzo venga fuori la versione migliore e poterla poi pubblicare. In questo modo ognuno ha tempo per riflettere sulle proprie parti nel pezzo e maturare nuove idee per avere poi il prodotto migliore. Quindi da un riff pensato ad esempio nella propria stanza al prodotto finale cambiano sempre molte cose. Inoltre ci capita anche di fare dei cambi dell’ultimo minuto perché magari ci viene in mente una cosa ancora più figa. Insomma vogliamo arrivare ad avere sempre il prodotto migliore possibile.
- Nel vostro sound si sente una mescolanza di vari generi, rock, pop, blues, funk, reggae. E poi c’è quel sax nel brano “Paige” che mi fa venire in mente i Pink Floyd.
- Hai centrato il punto. Noi abbiamo la fortuna di avere con noi Paul il nostro bassista. Lo conosciamo da sempre, da quando abbiamo iniziato a fare i corsi di batteria insieme. Quindi lui nasce come batterista. Per suonare con noi ha imparato a suonare il basso da autodidatta per due o tre anni. Lui ora fa il liceo musicale ed è al secondo anno perché ha 15 anni. Oltre alla batteria e al basso ha anche la fortuna di suonare il sax e anche il vibrafono, lo xilofono, la marimba. Lui in realtà suona il sassofono da un anno e mezzo, non ci aveva mai messo mano prima ed è venuto fuori un pezzo fighissimo. Ho iniziato io in cameretta a scrivere questa prima parte di chitarra e mi piaceva, poi quando lo abbiamo rifinito gli ho detto “Paul questo pezzo mi sa tanto di stile Pinkfloydiano” e lo abbiamo completato con questa idea qui. I nostri idoli sono appunto i Pink Floyd, Gilmour è il mio chitarrista preferito, anche se nell’album “Paige” è l’unico brano veramente alla Pink Floyd perché poi a noi piace anche schitarrare. Così gli ho detto “Paul prendi il sax e vediamo cosa ne esce fuori” perché comunque a noi piace improvvisare e dall’improvvisazione viene fuori il cuore di un artista, il suo istinto e Paul e noi crediamo di avere l’istinto, sicuramente Paul ce l’ha. Nel pezzo Paul ha cercato di far urlare quel sax di far uscire fuori quella voglia di ribellione che abbiamo e da quel sax si sente tantissimo e quindi siamo supercontenti di “Paige”.
- Il titolo dell’album è “Sensibility”, sensibilità. E’ un voler riportare al centro della nostra vita le emozioni, le cose più autentiche?
- Assolutamente sì abbiamo scelto questo titolo con molta attenzione perché siamo tre ragazzi molto giovani, ma siamo consapevoli di vivere in una società molto difficile, musicalmente per il genere che facciamo e poi soprattutto viviamo in un mondo in cui sappiamo che al centro non ci sono le vere tematiche che andrebbero trattate. C’è troppo odio e indifferenza. L’indifferenza per noi è un punto centrale, ce ne rendiamo conto nella vita di tutti i giorni con i nostri coetanei e questo non ci sta bene ed è il motivo per cui facciamo musica. Tra i nostri idoli ci sono anche artisti come Bob Marley, Bob Dylan che hanno scritto evergreen con dei testi che inneggiavano alla positività e alla sensibilità. E noi scegliamo la sensibilità perché è l’arma più potente per combattere tutta questa indifferenza. Se sei sensibile contagi il mondo con l’amore e non con l’odio e si sa che l’amore è l’arma che ti può far vincere. Il nostro album è un manifesto che parla di sensibilità e di ribellione anche perché, al di là di questi bei messaggi, siamo anche belli incazzati contro questo mondo e lo vogliamo far vedere attraverso il rock. Crediamo che questo tipo di musica dal vivo debba tornare. Non denigriamo i gusti mainstream e quelli dei nostri coetanei, ma non c’è paragone con la musica dal vivo.
- Nel pezzo che apre l’album “Nihilism” c’è questo verso che recita “All this freedom is the new slavery”, “Tutta questa libertà è la nostra schiavitù”. In effetti oggi puoi praticamente vivere chiuso in casa senza contatti con il mondo esterno, ti fai portare la spesa dai servizi di delivery, hai lo streaming per la musica e i film, possiamo chattare con i nostri amici sui social. Voi volete sfuggire a questa realtà che ci vuole “profilare”, renderci “targhettizzabili?”.
- Assolutamente sì, siamo consapevoli che non ci piace vivere nel contesto in cui viviamo, vogliamo provare a cambiare le cose. Sappiamo che è quasi impossibile perché siamo tre ragazzi della provincia di Cuneo che fanno rock, che è un genere che non va più come una volta anche se è pieno di gente che lo suona e anche molto bene. Noi ce ne freghiamo e continuiamo a fare questa musica anche per dare una voce a tutti quelli che sono troppo abbandonati a sé stessi. Vogliamo cambiare le cose in un modo di troppa corruzione e a noi non sta bene.
- Sulla copertina dell’album è ritratto questo bambino chino su un fiore che emana luce tra due file di soldati grigi che indossano quei visori per la realtà aumentata. Cosa simboleggia?
- Può avere in realtà una doppia interpretazione, da un lato un’allegoria in cui il bambino può rappresentare noi tre che davanti a un fiore ci stupiamo ancora. E’ il saper apprezzare le piccole cose, non andare a cercare la felicità in cose troppo materiali. Se noi riusciamo ad apprezzare le piccole cose come un fiore poi possiamo apprezzare anche le grandi cose. Già il fatto che suoniamo insieme e abbiamo uno strumento tra le mani è una cosa incredibile e noi ce ne dimentichiamo troppo spesso. L’altro significato vede sempre il bambino che simboleggia noi che in questa società cerchiamo di costruire qualcosa di bello, la nostra musica, il riportare al centro messaggi autentici contro quello che è rappresentato dai visori che sono i social, le false credenze, i falsi miti, le apparenze.
- Torniamo un attimo alle vostre origini. Ho letto che siete stati artisti di strada con i vostri genitori e tra l’altro ho trovato in rete il vostro gruppo famiglia “The Family band 4” in cui suonavate quando non avevate nemmeno 10 anni. Cosa vi ha insegnato l’esperienza di fare busking in giro per l’Europa?
- Io e mio fratello ripetiamo sempre che senza l’arte di strada non saremmo quello che siamo oggi. La strada è a tutti gli effetti un’arte e uno stile di vita, significa mettersi a nudo davanti a persone che non conosci e riuscire a fermarle e catturare le loro emozioni. Perché è proprio quello che fa la differenza. Oggi la gente per soffermarsi su qualcosa vuole essere stupita subito e per l’artista di strada non è facile anche perché è una questione di tempo. Fare il musicista di strada è tutt’altro che prendere la chitarra e andare a suonare. Noi da quando eravamo piccoli abbiamo imparato l’arte del sacrificio. Da allora, per esempio, sacrifichiamo tutte le estati a suonare che poi ovviamente è anche un piacere. Comunque è un lavoro a tutti gli effetti. Da dieci anni suoniamo tutte le sere e facciamo due spettacoli a sera più volte e quindi ci ha insegnato tantissimo. Anche il fatto di saper stare bene sul palco deriva dalla strada. Noi ringraziamo sempre i nostri genitori di aver potuto fare un’esperienza del genere. Poi c’è anche il contatto con gli altri artisti e a volte si litiga anche e inoltre si conosce gente nuova da tutti i Paesi. La strada rimarrà sempre nel nostro cuore e noi saremo sempre figli della strada.
- In strada poi è anche molto più difficile che suonare in un locale che ha fatto un po’ di pubblicità al concerto, ha affisso una locandina. In strada gli spettatori te li devi conquistare uno per uno.
- E’ quello che ripetiamo sempre. Da un certo punto di vista fare San Siro è per assurdo molto più facile che suonare in strada, sembra una roba assurda ma è così. In strada la gente la devi fermare e hai pochissimo tempo a disposizione per farlo. Se sei un artista famoso hai un tuo pubblico che comunque viene e che sai che è venuto per te, la sua attenzione te la sei guadagnata.
- Spostiamoci un attimo a parlare del vostro singolo “Fucking dream” e di quel verso che dice “grideremo io amo la mia vita”. Posto il fatto che purtroppo non esiste una ricetta per la felicità, c’è ancora qualcosa in questo mondo che vi rende felici?
- Sicuramente ci rende felici la musica, anche se mi rendo conto che è una risposta banale. Ci rende felici la consapevolezza che stiamo facendo il giusto percorso. Sapere di portare vibrazioni positive alle persone, portare un messaggio positivo è quello che ci rende più felici in assoluto. Noi amiamo la nostra vita, come hai citato tu. Se siamo consapevoli di questo d’altra parte non neghiamo quel che sta succedendo nel mondo oggi. E anzi siamo tristi amareggiati e capita di non sapere cosa dire di fronte a certe situazioni e siamo aggiornatissimi su tutto. Però cerchiamo di dare un’altra faccia criticando le cose brutte che accadono e chi le fa accadere cerchiamo di dare una parte positiva perché se dai positività alla gente magari anche solo in quel concerto di due ore regali un sorriso, perlomeno in quelle due ore le persone riescono a staccare con la testa.
- Parliamo di talent. Voi credete che alcuni talent come X Factor che tra tutti è secondo me, perlomeno in alcune stagioni, un vero talent musicale possa aiutare una band come la vostra ad emergere, partecipereste mai?
- Secondo noi ci sono due facce della medaglia. Da un lato è un modo per guadagnare più in fretta un proprio seguito e poter fare un tour in Italia in poco tempo ed è il lato positivo. Ma d’altra parte se un ragazzo non ha ancora la maturità, il che è giusto e lecito, non riuscire a gestire il successo e la pressione può stroncare delle carriere. Se una persona invece si sente abbastanza forte a livello mentale e matura da saper affrontare una situazione del genere allora perché no? Perché, come ripeto, è un trampolino di lancio a tutti gli effetti. Per una band come la nostra per come io conosco me stesso e gli altri della band penso che saremmo in grado anche perché anche se siamo giovani abbiamo alle spalle dieci anni di gavetta. Mai dire mai insomma.
- Ultima domanda, i pezzi cantati in italiano come “All in all”, “Get out of my mind (Adeline)” e “Mary” sono nati come evoluzione rispetto ai pezzi in inglese e potrebbero quindi rappresentare il vostro futuro?
- A dire il vero sono pezzi che sono nati in italiano in maniera molto naturale, non ci siamo messi lì a dire facciamo un brano in italiano. In realtà molti nostri amici ci hanno fatto notare che vorrebbero dei pezzi in italiano per poter cantare di più ai nostri concerti. Noi però abbiamo sempre scritto molto in inglese perché l’italiano è molto difficile, sicuramente è una lingua bellissima in cui ogni significato ha una parola per descrivere una determinata cosa però allo stesso tempo certe frasi possono sembrare banali, c’è un po’ la paura del giudizio degli altri da parte nostra. E scriviamo in inglese perché ci ispiriamo alle band inglesi degli anni 70 e 80 o anche più contemporanee. I pezzi in italiano sono nati in realtà abbastanza insieme agli altri. “Mary” quella sì è nata per ultima perché volevamo fare un testo perfetto tra virgolette, anche se di perfetto ovviamente non c’è nulla. Volevamo che rappresentasse bene il significato che volevamo far arrivare di questo pezzo. Invece “All in all”, “Adeline” sono nate insieme alle altre.
I modelli sono alti, c’è piena consapevolezza e padronanza dei propri mezzi e l’impressione è che con “Sensibilty” i The Kollege possano ambire ad una platea sempre più ampia.
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