Davanti al Museo Egizio di Torino c’è una chiesa il cui ingresso ricorda le porte di un tempio antico, quasi a sottolineare che qui, come in diversi altri luoghi della città, si fronteggiano e si mescolano forze invisibili e millenarie. Nei locali di quella chiesa è nato il nucleo di “Sexy Droga”, album dei NOCRAC, quartetto con influenze alt rock soniche, blues e progressive, composto da Andrea Marazzi (basso e voce), Carlo Barbagallo (chitarra e voce), Riccardo Salvini (tastiere e voce) e Frank Alloa (batteria). Il loro album, pur essendo distribuito in digitale, si suddivide in quattro lati, proprio come un doppio vinile. Sono già usciti i Lati A, B e C e si attende il Lato D per completare l’opera. La struttura in quattro parti è funzionale al concept che lega tutto “Sexy Droga”, ovvero il viaggio nel cuore della notte di un ragazzo insonne che deve affrontare le proprie dipendenze e ossessioni prima di poter ritrovare sé stesso. “Insonnia”, la traccia che apre “Lato A” inizia con una chitarra che rintocca quasi come le campane di una chiesa per poi aprirsi in una melodia ampia e carica di inquietudine, sottolineata dall’armonizzazione delle tre voci di Andrea, Carlo e Riccardo. “L’unico modo”, pezzo conclusivo del “Lato A”, introdotto da suoni arcade da sala giochi, è la cartina di tornasole dell’ecclettismo che caratterizza lo stile della band con un andamento jazz blues che sfocia in un ritornello da big band. Il Lato B si apre con “Zebàni”, termine che indica i diavoli alle porte dell’inferno musulmano e racconta una storia ad alta tensione erotica con una lei al centro di desideri spavaldi. Sempre da Lato B il brano “Sogno” riesce a trascrivere fedelmente in musica le fasi di un sogno, tra schizofrenia e calma. Dal punto di vista musicale il brano ricorda le atmosfere del Manuel Agnelli solista, soprattutto nell’uso della voce. Altri pezzi degni di nota, contenuti nel “Lato C”, sono il rock blues malato dall’incedere sognante “Amare tutto” e “Le sei (Gioventù Ketamina)”, in bilico tra ballata e i Sonic Youth.
Il bassista e compositore Andrea Marazzi si è prestato a dialogare sul concept e sulle molte suggestioni sonore di “Sexy Droga”.
- Il vostro album dimostra un attaccamento affettivo profondo al formato fisico della musica, infatti, come un doppio LP o un doppio CD ha un Lato A, un Lato B, un Lato C e ora ci aspettiamo il Lato D per completare il tutto. A parte il discorso vintage avete scelto questo formato perché avevate una storia articolata, con un suo sviluppo da raccontare?
- Sinceramente noi non pensavamo di fare il vinile perché non abbiamo i mezzi per farlo e perché non abbiamo prospettive di vendere questo disco, stiamo facendo molta fatica a dargli un minimo di risalto e sono negativo sotto questo aspetto. Però in realtà per come è stato pensato nella sua struttura è certamente legato a un certo tipo di immaginario e ad un certo modo di raccontare una storia che è proprio insito nel medium vinile, cosa che poi ci aveva portato anche nella sua realtà digitale, di disco fatto di codice binario nel computer, a pensarlo come un vinile. Diciamo che il paragone potrebbe essere un romanzo solo in formato pdf in cui non si sente l’odore della carta, però pensato comunque in quella modalità. Noi, presi singolarmente siamo tutti musicisti che facciamo varie cose e, sotto molti aspetti, la nostra produzione è ipercontemporanea. Questo disco in particolare è un’opera che oltre che strizzare l’occhio, seppur in modo critico, alla retromania è un’opera che si traveste da disco degli anni 70, sia per come è pensato come formato, sia proprio nel contenuto musicale e testuale. In realtà giochiamo con questo aspetto. Cioè non lo è tout court, ma è travestito in quel modo e ne è anche allo stesso tempo un po’ una parodia.
- State pubblicando un album che trasuda sensazioni, emozioni. Se dovessi trovare una definizione direi che è un album felicemente allucinato. Quanto c’è di te, di voi come band nel protagonista del disco?
- In realtà c’è il cento per cento. Io sono quello che ha creato il concept, autore della maggior parte dei testi, insomma l’album l’ho un po’ messo insieme io. E, seppur pieno di metafore, è in realtà totalmente il diario di una fase della mia vita. Nello specifico si racconta anche una storia d’amore esistente, cioè il tu di cui si parla è una persona che esiste. I pochi intimi sanno benissimo di cosa si tratta, di che storia sto raccontando. Poi ovviamente nel costruire un disco si utilizzano le metafore e diventa di tutti, un mondo poetico che racconta della vita di tanti. Ma inizialmente è nato quasi come un diario.
- Considerandolo come un unico album “Sexy Droga” ha uno stile molto eclettico, le sonorità variano molto a seconda dei pezzi. Sembra quasi come un sonnambulo che nella notte cammina toccando tutto a tentoni nel buio. La varietà di stili presenti nell’album è dovuta al fatto che c’è più di un compositore tra voi?
- Direi che è dovuta al fatto che noi tutti come compositori siamo eclettici ed è una nostra caratteristica non avere una direzione univoca dal punto di vista musicale e quindi questo è un motivo. L’altro motivo è la differenza con cui sono nate o sono state registrate le canzoni. Il nucleo fondamentale dell’album è nato in uno spazio ben preciso che è una chiesa di fronte al Museo Egizio di Torino. Per un periodo di tempo avevamo una stanza in questa chiesa ed era però un posto in cui non potevamo fare troppo rumore perché c’erano problemi di volume. Suonavamo a volume bassissimo e, grazie anche a queste circostanze, sono nate queste ambientazioni sonore che poi caratterizzano in parte il disco. Molti pezzi sono nati così, con un certo tipo di sapore. Altri pezzi hanno avuto una gestazione diversa. Ad esempio il pezzo “Aritmia” è partito da una registrazione fatta con il telefono che poi ho rifatto a casa registrando la voce dal microfono del computer, seduto sulla scrivania, quindi in modo iper lo-fi. In “Malincocktail” ci sono state poi delle sovraincisioni, ma tutto nasce da una demo fatta in camera. Per altre siamo stati in studio da Boosta, come ad esempio nel caso di “Sogno”. Lo abbiamo registrato voce e pianoforte e poi Carlo ed io ci abbiamo messo un po’ di elettronica dal computer direttamente. Quindi ogni pezzo ha una sua storia di produzione che lo porta ad essere così.
- Toccate molti generi, tra quelli più affini a voi c’è l’alternative rock, il progressive, il blues che si trova in vari pezzi. Perché amate fondere insieme questi generi così dissonanti tra loro?
- In realtà non è mai una cosa programmatica, non lo è mai stata, nel senso che non ci siamo mai detti “adesso facciamo un pezzo più in questo modo, o in quest’altro”. Tutto è nato in modo molto naturale. Ovviamente c’è la stratificazione dei nostri ascolti e parte di quello è venuto spontaneamente. Citi dei generi che hanno avuto a che fare con la nostra storia non solo come ascoltatori ma anche come musicisti. Carlo, che secondo me è uno dei più grandi chitarristi in Italia, ha una storia anche nel blues e in un certo tipo di rock e siccome tutti ci divertiamo a suonare, ci annoia fare l’accordo e la tonica, facendo a modo nostro vengono degli arrangiamenti particolari che possono richiamare il prog e altri dei generi che hai citato. Però ci tengo a dire che è stato tutto molto naturale, semplicemente noi ci troviamo insieme suonando e ci è venuto di trovare quelle sonorità. Anche e soprattutto con gli strumenti che avevamo in mano in quel momento. Penso che saremmo potuti essere una band totalmente diversa con le stesse persone se avessimo fatto delle jam con i sintetizzatori. Magari ora si starebbe parlando di un disco come quelli dei Kraftwerk o di Aphex Twin.
- Per quanto riguarda il progressive italiano siete degli estimatori degli Area?
- Sicuramente, ora non voglio parlare troppo per gli altri, ma sicuramente sì. Gli Area mi piacciono molto, ma in realtà non sono un grande estimatore di Demetrio Stratos, diciamolo come provocazione un po’ ironica. Mi spiego, Demetrio Stratos è stata una grandissima figura musicale, ma ora, nel 2025, sentendo i dischi degli Area trovo degli elementi ipermoderni e altre cose che sono invecchiate male. E penso che una delle cose che sono invecchiate male è la voce di Stratos. Basso e batteria invece sono ancora proiettati nel futuro oggi.
- Il diritto di critica è sacro, non ci sono intoccabili, per cui il tuo è un punto di vista che non condivido, ma che è legittimo.
- Oltretutto per dirti il legame che poi abbiamo con gli Area, quando dovevamo scegliere il nome della band abbiamo scelto “NOCRAC” che ha vari significati, quello legato al crack come droga, ma anche legato al disco “Crac” degli Area. Per cui in realtà è anche insito nel nome il riferimento agli Area.
- “Insonnia” è il pezzo che apre il Lato A e quindi tutta l’opera. Cantate “attendere il sole contando le ore”. E’ una condanna o è l’imbocco del tunnel per evadere?
- Questa in realtà è la domanda che pure il protagonista si pone e riguarda un po’ tutto il disco. Il punto è proprio fare in modo che non sia una condanna. L’album sembra arrendersi alla condanna esistenziale, ma allo stesso tempo è il tentativo di emanciparsi. Quindi direi che è ambivalente, spetta all’ascoltatore trovare la forza per leggerla nel modo migliore.
- Parliamo adesso di “Sogno”, una canzone musicalmente molto movimentata, prima calma poi di colpo frenetica quasi a riflettere le fasi di un sogno, poi nuovamente serena nel finale. C’è questo carillon che sembra impazzire e poi sul finale trova la calma. Volevate ricostruire in musica l’andamento stralunato di un sogno?
- Sì esattamente, infatti il titolo di lavoro del pezzo era “Sogno/incubo/sogno”. E’ il pezzo che chiude il primo dei due “vinili” e quindi rappresentava proprio la fine della prima parte, in cui il protagonista torna a dormire ed è un riposo dopo due lati di delirio, avventure. Però il sogno non è del tutto tranquillo perché sa di non avere ancora risolto le sue dinamiche esistenziali e quindi anche in questo caso è ambivalente ed è anche un incubo, non la soluzione.
- Ho trovato interessante l’armonizzazione delle vostre voci che danno all’album, in particolare in alcuni brani, un’atmosfera quasi lisergica. Un esempio è “Amare tutto” del Lato C, che tra l’altro cita anche il rumore bianco, quel tipo di suono che si usa per trovare il sonno.
- L’idea delle tre voci è nata in quanto tutti cantiamo e nel concept il protagonista in realtà è diviso in tre ed è in tre fasi diverse della sua vita. Quindi c’è la mia voce che rispecchia quando è più giovane ed è più spavaldo e meno controllato, la voce finale di Carlo che è quella più vecchia ed è quella della resa e poi c’è la voce di Riccardo che è quella centrale che cerca di trovare delle soluzioni. Quando ci siamo tutti e tre è un po’ una sintesi e infatti, per esempio, “Amare tutto” è un pezzo un po’ più distaccato e parla in terza persona. Quindi quando dicevi che è lisergica, sì vuole dare un po’ quell’impressione. Poi c’è il fatto che il disco ha dei riferimenti musicali degli anni 70, di un certo tipo di fare rock, non è un disco pop dell’oggi ed è pieno dal punto di vista lirico, ma soprattutto musicale. Ci sono alcuni glitch che disturbano questo riferirsi a un genere, cioè l’uso dell’elettronica e l’utilizzo delle voci. Per esempio in “Amare tutto” è molto leggero, ma c’è anche un pizzico di autotune. Fa parte anche quello dello smascheramento della finizione che mettiamo in atto.
- “Malincocktail” è un dialogo al tavolino di un bar su come bere la vita. Come riesci tu e come riuscite voi come band a “bervi la vita”, cioè ad affrontarla?
- Dal punto di vista specifico direi che è il fatto di non arrendersi e non tenersi distaccati dalle negatività, dalle difficoltà della vita scegliendo di viverla con piena consapevolezza, anche se questo può portare a disagi emotivi. Però bisogna non rinunciare a vivere la vita in pieno, non pensando alle cose nel loro essere positive o negative, quanto piuttosto a coglierle.
- Invece l’apertura del Lato B “Zebàni” è un pezzo rock blues molto sensuale su una donna. E’ un inno al sesso?
- Sono contento di aver scritto “Zebàni” in quel modo come testo perché ha degli incastri particolari, una modalità di scrittura che non avevo mai utilizzato prima e che invece è uscita molto bene. Ti racconto una serie di curiosità legate a questo pezzo. Il termine “Zebàni” è utilizzato in Turchia per indicare quelli che, nella mitologia islamica, sono i diavoli alle porte dell’inferno mussulmano. Quindi è presente questa figura del diavolo. Il pezzo è una di quelle esternazioni finto spavalde, il tentativo di approccio nei confronti di una donna. Poi vengono citati dei luoghi iconici di Torino, ad esempio il “Bunker” e si parla di andare a ballare la techno al “Bunker” (ndr locale storico del clubbing torinese) così come ci sono anche dei piccoli riferimenti a cose, persone e situazioni reali di questa città. E quindi è un tentativo di approccio molto spavaldo dal punto di vista sessuale e molto erotico. Poi però c’è il finale che è la resa in cui si dimostra che questo protagonista è solo fintamente spavaldo, ma in realtà sta soffrendo perché non riesce ad unire i punti che possono rendere effettiva quella relazione.
- Una domanda in base a quello che mi hai raccontato. Abbiamo parlato di una chiesa, di diavoli. Qual è il tuo rapporto con l’aldilà?
- Domanda molto difficile. Direi che forse non me ne curo troppo. Seppure abbiamo delle spinte, come si nota nel disco, verso le energie, le forze, trovo che però questo sia un disco molto materialista e che quindi non si cura troppo dell’aldilà.
- A proposito di “Le sei (Gioventù Ketamina)” che avete scelto anche come singolo, mi ricorda come testi i Marlene Kuntz e come suoni, come incedere un po’ la new wave anni ’80 fiorentina, ad esempio i primissimi Litfiba ancora pre “Desaparecido”.
- Anche quello è un pezzo che ha una storia molto particolare perché usciva da una demo totalmente diversa. Volevo fare i Wilco ubriachi. Cioè dei Wilco che armonizzano male le chitarre. Poi però il risultato mi hanno detto che sembrava una rappresentazione dei Sonic Youth sotto Ketamina e quello mi ha in realtà aiutato nel testo. Poi quello che tu dici è uscito un po’ per caso per la modalità con cui ci siamo ritrovati a registrarlo in studio. Non era una cosa ricercata. In realtà nelle chitarre sentivo molto all’inizio i Velvet Underground, ma capisco che alle volte le sensazioni che danno i suoni possano essere molto diverse a seconda dell’orecchio che le ascolta.
Alla luce dell’intervista con Andrea Marazzi si coglie meglio il senso del titolo dell’album, “Sexy droga”. Le dipendenze, di qualunque tipo siano, possono essere attraenti, ma bisogna lottare e affrontare tutte le prove che ci pone di fronte la vita per liberarcene.

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