DA “ULTRACORE” A “SACHERCORE”
Quando
si tratta di musica, specie suonata dal vivo, ma anche di feste di compleanno,
Riserva Indie è sempre sul pezzo!
Musica.
Buona musica. Come diceva L. v. Beethoven, esistono solo due tipi di musica:
buona e cattiva. E lui, essendo sordo, ne sapeva a palate. Per questo motivo,
lo scorso sabato 15 ottobre una delegazione del vostro radio show preferito è
partita da Carrara (con tappa intermedia a Firenze) in direzione Bologna per
testificare la data conclusiva del tour europeo della band di Bob Mould, che
tronfio dell’omonimia col recente premio Nobel per la letteratura Dylan si
esibiva addirittura all’Estragon, la sala di gran lunga più capiente del
capoluogo emiliano.
Gioie
e dolori del vedere concerti sul suolo italico. La gioia è sostanzialmente una
sola: non dover espatriare per coltivare la propria passione. Per il resto, si
è costretti a fare i conti con una pletora di disservizi organizzativi che
potrebbero occupare per intero questa pubblicazione. In primis, la pressoché
inesistente trasparenza su orari di svolgimento degli spettacoli e
disponibilità e prezzi dei tagliandi d’ingresso è un male oscuro di cui pare
impossibile venire a capo. Davvero è così empio pretendere di sapere a che ora
iniziano e finiscono i concerti, il costo dell’ingresso e quanti biglietti
avanzano?
Arriviamo
in loco che i romagnoli Occhi in apnea, il gruppo di apertura, stanno già
aprendo. Ecco. Vedi il discorso di cui sopra.
Ci
siamo noi e poche altre anime. L’ampio e dispersivo Estragon rende ancor più
impietoso il colpo d’occhio. Ulteriori dolori del vedere concerti sul suolo
italico. La gente ai concerti non ci va. In più, non vi è ricambio
generazionale, sicché al momento di guadagnare agilmente la transenna, siamo
circondati da uno sparuto nugolo di astanti che possiamo con generosità
inquadrare come over trenta. Ma parecchio over.
Cerchiamo
di non farci sopraffare dallo sconforto e, per circa novanta minuti a partire
dalle ventidue, ne avremo ben donde. I nostri eroi prendono possesso del palco senza
troppe cerimonie. A sinistra, il bassista Jason Narducy. Al centro, il
batterista Jon Wurster (già nei Superchunk). Sulla destra, un chitarrista e
autore di cui potremmo sbrodolare a volontà coi classici copia e incolla di
wikipediana memoria che leggete in calce a ogni comunicato stampa, a ogni
recensione, a ogni live report.
Bob Mould è la Storia della Musica, camuffata nel corpo di un signore ben piantato,
con pochi capelli, una folta barba bianca e occhiali da rassegnato travet della
provincia americana che non fanno molto iconografia rock’n’roll. In quasi
quarant’anni di carriera, ha guidato gli Hüsker Dü dalle cantine di Minneapolis
a tour mondiali e dischi licenziati dalla Warner (evento tutt’altro che comune
per una band underground a metà anni Ottanta), per poi salire su un ottovolante
fatto di intensi e dolorosi dischi a suo nome (“Workbook”), inattesi exploit
commerciali (“Copper blue” degli Sugar), esperimenti elettronici che lo hanno
portato a rinnegare per anni le sue origini musicali, dj set techno e,
nell’ultimo decennio, un progressivo riavvicinamento al suono chitarristico che
è il suo marchio di fabbrica, con due trittici di album, il primo a mo’ di
ponte tra attualità e antiquariato (il notevole “Body of song” e i meno
convincenti “District line” e “Life and times”), mentre i tre lavori più
recenti rappresentano il ritorno ufficiale all’energetico “pop core” che lo ha
elevato allo status che occupa con pieno merito.
La
chitarra di Mould graffia come ai tempi d’oro. I volumi, quantomeno sottopalco,
sono ai limiti dell’audiolesivo. Siamo a concreto rischio di ridurci come il
Beethoven citato poc’anzi.
La
sequenza iniziale, tutta marchiata Hüsker Dü, è da infarto oltre che da precoce
consunzione dei padiglioni auricolari. “Flip your wig”, “Hate paper doll” e “I
apologize”. Potremmo già andarcene via pienamente soddisfatti.
Invece
rimaniamo ai nostri posti, mentre gli ardimentosi che hanno scelto di
trascorrere anacronisticamente il sabato sera vedendo un concerto rock si son
fatti avanti e il pit appare un po’ più decoroso (si sta sempre larghissimi, eh,
non c’inganniamo). Là sopra, intanto, non si fanno prigionieri. Le canzoni
vengono triturate e gettate in pasto al pubblico (quasi privato, data la magra
affluenza) senza soluzione di continuità. Schegge di due, tre minuti, che in
sede live sacrificano la componente melodica peculiare nella scrittura di Mould
per assumere forme punk ai confini con l’hardcore.
Disincantate
filastrocche accelerate fino al parossismo, col male di vivere che le impregna
ma, sciorinato in questo impetuoso live set, si fa catarsi, fino a toccare le
corde di una pur effimera gioia.
È
un’autentica benedizione osservare un Mould che, nel ricreare il suo
inconfondibile crunch chitarristico, solca il palco disegnando larghe
traiettorie circolari come già faceva con gli Hüsker Dü, col corpo e la testa in
avanti a mo’ di ariete di sfondamento.
Pochissime
pause, una canzone dietro l’altra, un power trio collaudato da anni di concerti,
dove la scaletta è altrettanto consolidata e attinge per lo più al repertorio
targato Hüsker Dü (citiamo tra le tante “Something I learned today”, “Chartered
trips”, “Celebrated summer” e una meno scontata “No reservations”, tratta dal
superlativo canto del cigno “Warehouse”) e Sugar (i cui brani, in questa veste
più arrembante, risplendono ben oltre la poco incisiva produzione dell’epoca;
vedi “A good idea”, chiaro omaggio a “Debaser” dell’amico Francis Black, e la
sempre stupenda “Hoover Dam”). Ovvia aggiunta, i brani degli ultimi tre dischi
solisti: “Silver age” (“The descent” a parere di chi scrive è una delle
migliori composizioni di Mould), “Beauty and ruin” (segnaliamo “I don’t know
you anymore” e “Hey Mr. Grey”), e una mezza dozzina di estratti da
“Patch the sky”, edito la scorsa primavera. “The end of things”, in
particolare, è un signor pezzo.
Il
bis si apre con Narducy ad annunciare che l’indomani è il compleanno di Mould.
Il garrulo cinquantaseienne soffia sulle candeline della torta sorretta dal
roadie mentre dalla platea si leva il classico coro “Happy birthday to you”.
Per motivi misteriosi, al contempo ci piove addosso una poco attinente doccia
di birra. Presto asciugata dalle rasoiate di “In a free land”, che inaugura il
segmento conclusivo, tutto targato Hüsker Dü, il cui culmine è l’inno “Makes no
sense at all”. Finisce il concerto, ma non la serata.
La
festa di compleanno prosegue infatti sul retro del locale. Bob offre ai fan
fette di torta Sacher e autografi, ricevendo in cambio gratitudine e regali. Tra
questi, anche una maglietta di Riserva Indie che andrà a impreziosire il
guardaroba di un artista che a noi ha donato canzoni memorabili e, in quel di
Bologna, un concerto rock’n’roll con pochi eguali al giorno d’oggi. Buon compleanno Bob e grazie di esistere!
Testo e gallery di Ljubo Ungherelli
Per la precisione non mi pare di avere ascoltato No Reservation forse era citata in scaletta ma poi non eseguita.
RispondiEliminaLe assicuro che "No reservations" è stata eseguita. C'è anche una breve testimonianza video su YouTube, peraltro ripresa da me medesimo.
EliminaUn cordiale saluto sig. Eliseno, mi ricordo di Lei dai tempi di Planet Rock!
Ljubo Ungherelli, Firenze
Faccio pubblica ammenda dopo avere chiesto conferma a Jason Narducy in persona e visto il video che conferma la presenza di No Reservation in scaletta. Evidentemente ero troppo in trance per ricordare tutto.
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