Mentre si parla, con la dovuta prudenza e sicurezza, di poter tornare a vedere un film in una sala multi/sala, abbiamo voluto fare il punto della situazione Cinema in Italia (e non solo) con Stefano Cavalli, grande appassionato del grande schermo e autore, con Sara Parigiani, di "Home hell Home: The evil dead, storia di un mito fatto a pezzi", il libro edito da Cut-Up che racconta la saga de "La Casa" di Sam Raimi.
Ciao Stefano e grazie per la tua disponibilità. Partiamo dalla stretta attualità. Come pensi sia stata gestita l'emergenza pandemica dal punto di vista "apertura/chiusura" delle sale? Credi ci sarà davvero la possibilità di avere per il 27 Marzo le sale di nuovo aperte?
Direi che la parola chiave è inconsapevolezza. Inconsapevolezza perché non ci si rende conto del vero valore delle sale (ma il discorso si allarga ai teatri, alle sale concerti, ai locali che fanno musica dal vivo). Non si tratta solo di intrattenimento ma anche di, passami l'espressione, nutrimento per l'anima e l'esperienza in sala è una prima necessità tanto quanto quella di andare in libreria (che, però, sono rimaste aperte). Inconsapevolezza perché si è ignorato l'esempio del Festival del Cinema di Venezia dove, io testimone, è filato tutto liscio e grazie all'organizzazione, nonostante le decine di presenti, non è stato registrato un caso di coronavirus. Inconsapevolezza, infine, perché chi di dovere ha dimostrato e sta dimostrando di non comprendere affatto la situazione in cui si trovano numerosi esercenti e operatori del settore (i distributori in particolare) in tutta Italia. In ottica 27 marzo, al di là delle limitazioni imposte, non si può dire a una sala che può aprire da quel giorno ma che però deve essere in zona gialla e che però la decisione definitiva sulle riaperture sarà presa dopo il 12 marzo. Cosa possiamo poi dire a un esercente che magari si organizza, ad esempio, con la vendita dei biglietti online (come richiesto) per poi scoprire che magari non può aprire? E cosa invece a un distributore che investe i soldi in promozione e poi gli viene comunicato che le sale in quella regione in cui decide di far uscire un film (perché magari sa che lì potrà andare bene al botteghino) non possono aprire? La risposta soffia nel vento.
In questo periodo molti festival e rassegne si sono spostate sul web spesso dietro il pagamento di un piccolo biglietto. Qual'è stato il feedback degli appassionati? Ci sono numeri che attestano il successo o meno di questo passaggio, si spera, temporaneo?
Va fatta una premessa. Nella prima ondata di Covid-19, quella che ha portato al lockdown di marzo, è stato, con il senno di poi, commesso un errore. In molti hanno deciso di regalare il loro tempo e la loro arte (non solo musica ma anche performance teatrali ad esempio) a titolo completamente gratuito. È stata una cosa certamente istintiva ma non priva di conseguenze. Ha instillato nella testa delle persone che queste performance debbano essere gratuite. Perché, ad esempio, dovrei darti dei soldi se fino al giorno prima (letteralmente) potevo vederti senza pagare? Può andare bene se è una tantum o se lo si fa con l'obiettivo di portare, poco dopo, a contenuti a pagamento, con un piano di marketing preciso ma altrimenti è un disvalore di quello che si fa e che, lo si voglia o meno, si finisce per pagare.
Fatta questa lunga premessa, va detto che ci sono delle cose che funzionano, come nel caso dei Festival di Cinema che hanno messo un ticket. Le persone sono letteralmente "affamate" di contenuti video, di film (lo dimostrano gli investimenti di Disney, Netflix, Amazon, giusto per i citare i players più importanti) e la possibilità di vedere titoli di Festival, nel momento stesso in cui la manifestazione è in corso e a cui magari non si può partecipare, è entusiasmante. Una formula che piace e che, anche passata la pandemia, secondo me resterà. Mi auguro, anzi, che si allargherà il più possibile.
Inevitabile chiederti delle serie tv e della loro crescente popolarità. Prima i ragazzi si chiudevano nelle loro camerette per ascoltare un disco, oggi guardano "La casa di Carta", "Stranger Things" o "Vis a Vis" sul loro smartphone. Tra generi e sottogeneri le serie hanno avuto lo stesso impatto tra i giovani che aveva la musica fino a pochi anni fa?
Si, decisamente. L'entusiasmo che si crea intorno a queste serie che escono a getto continuo è contagioso, seppur molto diverso da quello che ha circondato in passato serie come "Twin Peaks", "X-Files" e "Lost" che avevano dei tempi di fruizione molto più dilatati. È comunque un fenomeno che non riguarda soltanto i più giovani. Io veleggio verso i 40 anni e onestamente conosco moltissimi miei coetanei (ma anche più grandi) che sono appassionati di serie e le consumano in maniera ossessiva. Le serie (ormai possiamo togliere il limitante "tv" dall'espressione) da sempre accompagnano lo spettatore nella sua quotidianità, anche una volta finito l'episodio. La possibilità di vederle su vari schermi le rende smart e lo smartphone è la loro destinazione perfetta, perché lo abbiamo sempre con noi. È il classico caso, citando l'abusata espressione di Marshall McLuhan, in cui "il medium è il messaggio". Prima il medium era la tv, ora lo smartphone. Potremmo smetterle di chiamarle serie tv e chiamarle smart series.
Una delle possibilità di Netflix è quella di poter guardare produzioni da tutto il mondo. Devo dirti che ultimamente ho visto produzioni colombiane ("La rapina del secolo"), messicane ("Storia di un crimine: il candidato"), argentine, spagnole, svedesi e tedesche che difficilmente avrebbero trovato spazio nei canali generalisti gratuiti. Ho trovato della grande qualità ma fiction che stilisticamente si assomigliavano. Si rischia che la piattaforma, in questo caso Netflix, "imponga" uno stile che in qualche modo limita la creatività?
Assolutamente sì. La qualità è molto alta e soprattutto le piattaforme hanno molta più libertà di manovra rispetto, ad esempio, ai canali generalisti. Quello dell'omologazione di Netflix non è un pericolo ma ormai una certezza consolidata. È lo "stile Netflix" che naturalmente può dare fastidio, perché per un occhio più attento è segno di omologazione stilistica (e lo è), ma è funzionale al successo della piattaforma. È una comfort zone in cui ritrovarsi, una coperta di Linus sotto la quale mettersi mentre si sorseggia una cioccolata calda e si guarda l'ultima produzione "originale".
Ho l'impressione che stia succedendo anche per il cinema quello che accade per la musica. La digitalizzazione dei contenuti e la facilità di accesso a cataloghi sterminati di proposte in streaming disperde sia l'ascolto che la visione. Può essere l'eccesso di proposta, spesso gratuita o comunque dietro il pagamento di un abbonamento più o meno alla portata di tutte le tasche, un problema?
Come nel caso dell'omologazione stilistica dettata da Netflix, di cui parlavamo prima, anche il tema "dispersione" è assolutamente qualcosa di concreto e attuale. Quante volte ci troviamo a vagare nel catalogo per interminabili minuti per scegliere un titolo e poi decidere di uscire senza guardare niente? Quante volte scopriamo alcune perle che ci erano state tenute "nascoste", talvolta per una cattiva organizzazione della piattaforma? In realtà non è molto differente da quando si andava in videoteca senza l'idea di un titolo preciso in testa. Ed esattamente come in quel caso, oggi, youtuber (paragonabili in questo caso ai "vecchi" gestori delle videoteche) e riviste di settore, si sono organizzati per dare consigli precisi in base ai propri gusti o alla linea editoriale del magazine.
Per rispondere precisamente alla tua domanda ti dico che, per me, l'eccesso di proposta non è mai un problema. Basta avere la voglia di formarsi un proprio gusto personale e avere qualcuno di fidato che sappia dare i suggerimenti "giusti". Esattamente, ripeto, come avveniva ai tempi delle videoteche.
La rivoluzione digitale e la possibilità di contenere i costi ha comportato la moltiplicazione di piccole autoproduzioni. Ci sono siti o piattafome che fanno da filtro e intercettano queste novità?
Se ci riferiamo sempre alle produzioni cinematografiche sicuramente mi vengono in mente Nocturno e Ingenere Cinema. La prima è una realtà storica dell'editoria italiana che ha avuto in passato il grande merito di parlare nel modo giusto di registi italiani (Fernando Di Leo, Lucio Fulci, Enzo Castellari, giusto per citare i primi che mi vengono in mente) che la critica aveva, erroneamente, sottovalutato ma che avevano avuto un grande impatto su grandi autori internazionali (Joe Dante, Quentin Tarantino e non solo). Oggi Nocturno guarda anche alle produzioni italiani indipendenti, adottando lo stile che lo ha sempre contraddistinto e pur esistendo soprattutto come rivista cartacea ha anche un sito in crescita. Ingenere Cinema è un sito, editorialmente molto più giovane di Nocturno, che porta avanti da anni, in maniera militante, una divulgazione del cinema indipendente italiano che poi è soprattutto horror. Ecco, direi che ad oggi i due posti dove andare per farsi un'idea di cosa si può trovare in giro sono questi.
Passiamo al cinema in Italia. Ho l'impressione che la sala ormai sia diventata terreno fertile solo per commedie più o meno popolari e molte ottime produzioni siano passate sulle grandi piattaforme a pagamento. "Gomorra", "Suburra", "Zero Zero Zero", "Diavoli", "Who are who we are", "The young pope", dimostrano la capacità del nostro cinema di poter produrre fiction di qualità e da esportazione. Tu come vedi la scena italiana?
Per quanto riguarda le serie direi che i titoli che hai citato parlano da soli. Sono tutte serie magnifiche, produzioni di cui andare orgogliosi al di là dei singoli gusti. Ma attenzione a sottovalutare il cinema italiano che sta lentamente ma decisamente cambiando passo e allargando lo sguardo. Giusto per farti qualche titolo mi vengono sicuramente in mente il peplum "Il primo Re" di Matteo Rovere (che è anche un ottimo produttore da tenere d'occhio), il grottesco "I predatori" di Pietro Castellitto, i film dei fratelli D'Innocenzo ("La terra dell'abbastanza", "Favolacce"), l'horror "The Nest" di Roberto De Feo ma anche "Freaks Out" di Gabriele Mainetti e "Diabolik" dei Manetti. Gli ultimi due sono titoli in stand-by, in attesa di uscire al cinema, ma che certamente sono una forte spinta al cambiamento.
Beh, adesso diamo spazio alle tue preferenze. Hai qualcosa da consigliarci, magari tra i titoli meno noti, per le nostre visioni casalinghe?
Beh, sicuramente mi sento di consigliare "Malcom & Marie" di Sam Levinson, ufficialmente il primo film ad essere stato completato dopo lo scoppio della pandemia di Covid-19. Un dramma in bianco e nero che è una intensa riflessione sul tema del successo (in questo caso cinematografico) e su come questo possa modificare i rapporti all'interno di una coppia. Poi, vediamo...beh, "The dead don't die" di Jim Jarmusch, ironica riflessione sul genere "zombie" e, per spostarsi nel mondo della musica, "Sound of Metal" di Darius Marder, storia di un batterista che perde l'udito! I primi due li trovate su Netflix, il terzo su Amazon Prime Video.
Com'è cambiata l'esperienza del film con l'avvento delle multisale? Fino a non troppi anni fa il cinema era un punto fondamentale di ritrovo per ogni città. Una piccolo capoluogo come Carrara era arrivata ad avere anche otto sale tra prime e seconde visioni. L'aver creato le multisale in periferia ha cambiato anche la composizione degli spettatori privilegiando un target più giovane e costringendo di conseguenza i cinema ad una programmazione più mirata per quel target?
I cambiamenti più radicali e radicati avvenuti con l'arrivo delle multisale sono stati sicuramente due. In epoca pre-multisale, innanzitutto, si andava al cinema per vedere un determinato film, mentre con la multisala non è raro andare e scegliere sul momento, proprio perché se ne ha la possibilità. Il secondo aspetto riguarda sicuramente la qualità dell'esperienza. Le multisale (e il processo è ancora in evoluzione) ci hanno subito proposto standard molto più alti delle classiche sale di città. Oggi, tanto per prendere esempio concreto, con poco meno di 20 euro, al multisala Uci di Campi Bisenzio (FI), si può godere di un film in Imax, sdraiati su una comoda poltrona mentre si consuma un aperitivo. In futuro vedo sempre più un pubblico polarizzato tra le sale d'essai cittadine e i multisala in grado di offrire però dei servizi sempre di più alto livello. Chi sta nel mezzo, pandemia o meno, rischia di restare schiacciato.
Stefano grazie per il tuo tempo prezioso e prima di salutarci so che hai una rubrica in tv e sicuramente hai qualche progetto in cassetto. Parlaci di te e di cosa bolle in pentola
Figuriamoci, grazie a voi! In realtà in questo momento non ho nessun progetto specifico futuro, se non quello di coltivare la mia carriera giornalistica tesa sempre più al giornalismo d'inchiesta e di approfondimento, cercando in ogni caso di dare la mia prospettiva sul mondo. Certamente mi piacerebbe, dopo che avrò preso (in estate, auspicabilmente) il tesserino di giornalista pubblicista, sviluppare progetti editoriali (anche in forma video) strutturati, in cui, inevitabilmente mi ripeto, l'approfondimento sia al centro. Di certo c'è, però, che quando la pandemia sarà un ricordo ci dobbiamo trovare per un aperitivo.
Benissimo per l'aperitivo, magari dopo una diretta a Riserva Indie. Grazie ancora e buon cinema a tutti.
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