lunedì 13 ottobre 2025

GIOVANNI AMIRANTE - UN'IDEA DI LUCIDITA' - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Ci sono canzoni che raccontano emozioni in cui ci viene naturale specchiarci e la cui potenza evocativa riaccende parti del nostro cuore che credevamo ormai spente per sempre. Sono quel tipo di canzoni che ti fanno dimenticare il cellulare e sollevare finalmente gli occhi sul viso di chi ami per capire cosa prova, cosa potete avere in comune, le distanze, i non detti. Canzoni che danno voce alle nostre mille anime. Le canzoni di Giovanni Amirante, cantautore di origine partenopea, fresco di pubblicazione del suo album “Un’idea di lucidità”, sono proprio così. Sette mondi che puoi guardare come caleidoscopi perdendoti nei colori, nei giochi dei riflessi. Le storie narrate si amalgamano a tante piccole suggestioni poetiche, come nel pezzo di apertura del disco, “Sessantamila”, in cui riflessioni sulla vita si intrecciano ai ricordi di un antico amore di cui sono rimasti impressi particolari sulla pelle, piccole rughe che ci fanno volere ancora più bene a una persona che abbiamo ritrovato dopo lungo tempo. Il vertice dell’album è il pezzo “La truffatrice”, cantato in duetto con una voce femminile, lirico e commovente, in qualche modo figlio, dal punto di vista del feeling che è in grado di creare, di “Giudizi universali” di Samuele Bersani. Il brano seguente, penultimo dell’album, “Per il nome del padre”, è un piccolo gioiello di scrittura, una storia in musica che richiama le atmosfere dei cantautori classici come Francesco De Gregori o anche contemporanei come Lucio Corsi. “Un’idea di lucidità” ha la rara qualità di arrivare in punta di piedi bussando alla porta dell’anima dell’ascoltatore, un album in equilibrio sul sottile filo che separa i sogni dalla vita quotidiana, un disco che sussurra anziché urlare come troppi oggi fanno. 
Abbiamo parlato con Giovanni Amirante delle sue canzoni e di come è nato “Un’idea di lucidità”.



- Giovanni, prima di tutto qual è la tua idea di lucidità?
- Innanzitutto mi piace il fatto che il titolo del disco sia una parte del testo di una canzone e non sia il titolo di una canzone. Mi è sempre piaciuta come formula. Quando ho cominciato a pensare al possibile titolo dell’album ho cercato le frasi all’interno delle canzoni che però non fossero i titoli delle canzoni, frasi che potevano rappresentare un po’ l’insieme. La mia idea di lucidità non c’è ma è un percorso, nel senso che scrivere canzoni è anche un atto terapeutico, oltre che una forma di diario. Quindi queste due cose: un diario e una specie di terapia. E quindi un’idea di lucidità perché registrare questo primo disco e vedere le canzoni e non solo immaginarle mi ha dato un’idea del percorso che ho fatto in questi anni e anche cose che pensavo quattro o cinque anni fa e quindi abbastanza vecchie, mi ha fatto notare quelli che sono stati i cambiamenti, come le avrei scritte ora, cosa avrei cambiato.
- Quello che accomuna tutti e sette i brani che fanno parte dell’album è quella sorta di bussare alla porta dell’ascoltatore anziché impugnare un megafono per imporsi. Ti definiresti un cantautore gentile? 
- Sì, poi mi piacciono i cantautori che parlano piano, che fanno filtrare dei concetti e delle riflessioni importanti senza appunto usare un megafono. Per esempio mi viene in mente Concato, ma anche Ivano Fossati che è uno dei miei preferiti in assoluto. O anche Paul Simon se vogliamo andare al di fuori dell’Italia. Quindi anche negli anni cercando un pochino di migliorare la scrittura delle canzoni ho sempre cercato di togliere cose anche dal punto di vista vocale. Ho cercato un po’ di fare questo, di mettere meno acuti, meno parti a voce piena per concentrarmi su una modalità quasi confidenziale di cantato che potesse fare da contraltare con le parole perché cerco di usare parole che per me sono importanti ma dette con un filo di voce.
- Di quali persone o circostanze è la colpa di averti fatto venire la voglia di fare il cantautore?
- Il primo cantautore che ho ascoltato in assoluto è stato De Gregori perché quando ero piccolo mia madre ricordo benissimo che andando una domenica al bowling e c’era questo negozio di dischi sotto al bowling comprò “Il bandito e il campione”, l’album live con tutti i pezzi più famosi però c’era anche “Il bandito e il campione”. E quindi De Gregori è stato il primo amore sicuramente. Poi per esempio De Andrè l’ho capito più tardi, negli ultimi anni del Liceo. Poi chiaramente tutti i classici quindi Dalla, Battiato, Battisti e quant’altro.
- Nel tuo tipo di scrittura ci vedo anche un po’ di Samuele Bersani.
- Sì assolutamente, poi anche la scuola dei cantautori degli anni 90, Niccolò Fabi, Gazzè e anche quelli più recenti come Truppi o lo stesso Lucio Corsi. Mi piace anche molto Capossela cui sono legato anche per ragioni extra musicali perché ho partecipato per molti anni al Festival che lui organizza in Alta Irpinia, lo Sponz Fest. Ho partecipato non come musicista, diciamo come strumentista. Andavo lì in estate è diventato per me un appuntamento importante. Quindi diciamo sì c’è un po’ questa costellazione, poi ci sono questi cantautori americani come Leonard Cohen, Paul Simon, Bob Dylan e poi c’è anche la letteratura, ci sono sicuramente Calvino e Pasolini, i due che mi hanno fatto scegliere la Facoltà di Lettere, quelli di cui mi sono innamorato quando stavo finendo il Liceo. 
- Passiamo ai brani del disco. “Sessantamila” mi sembra una piccola autobiografia, a un certo punto canti “una camera con vista su tutte le città della mia vita”. E’ un pezzo in cui esprimi molti punti di vista poi fai anche una dichiarazione d’amore. Ci sono molte immagini diverse. Cosa intendevi portare alla luce con questa canzone?
- Questa canzone ha cambiato moltissime volte il testo delle strofe. Ultimamente ragionavo su questa cosa che secondo me le canzoni proprio per il fatto che stanno nell’aria possono anche non avere subito una forma definitiva, anzi è bene che cambino nel tempo, che vadano suonate un po’ di volte anche nei live e che ci sia un margine di cambiamento all’interno del testo. Quindi le strofe erano diverse anche se forse hanno fatto un giro a trecentosessanta gradi e che di fatto siano tornate quelle originarie. Nelle strofe sì ci sono diversi punti di vista, quello che sentivo io nella mia vita privata che non le cose più esterne diciamo. Sì c’è sicuramente qualche barlume di un rapporto amoroso, però c’è anche l’eco delle palestre nelle scuole, queste immagini attraverso cui cerco di mischiare il mio vissuto a qualcosa di più collettivo. E’ un po’ quello che vorrei fare diciamo, mischiare la storia mia personale e qualcosa che possa intercettare anche gli altri.
- Parliamo un attimo di “Dall’opaco”, qui si affaccia l’indie rock nell’arrangiamento. Quindi non ascolti solo cantautori.
- No no, comunque la versione di “Dall’opaco” del disco è molto diversa da come la faccio live da solo e anche da quella che ho preparato con la band che si è formata da poco. Non ci sarà quella versione lì di “Dall’opaco” live, è proprio una cosa che resterà sul disco. E’ nata perché il produttore con cui ho registrato che è Luca Vergano ha dato un po’ questa reference che erano i War on Drugs e infatti certe cose le abbiamo proprio un po’ scopiazzate dai loro pezzi. L’intenzione era un po’ quella. Poi c’erano altri gruppi anche, ad esempio, non proprio in “Dall’opaco” ma come reference del disco è stata Shangri-La di Mark Knopfler. Per esempio in “Per il nome del padre” c’è un po’ quella chitarra che è un po’ alla Mark Knopfler.
- Ti chiedo di parlarmi di Delorean, la Delorean penso che per molte generazioni sia sinonimo della macchina del tempo. Quindi “Ritorno al futuro” eccetera. Perché vorresti una macchina del tempo? Vorresti cambiare qualcosa del tuo passato?
- No diciamo che quella canzone è stata proprio una specie di divertissement tra il serio e il faceto. Negli anni sto cercando di essere meno polemico nei confronti del presente, di lamentarmi di meno però magari in una canzone a volte ci si può permettere di lamentare e quindi volevo scrivere una canzone in cui mi lamentavo un po’ dei tempi moderni. E’ stata un gioco praticamente, su un giro di accordi ho cominciato a scrivere un testo e mi piaceva l’idea di citare “Ritorno al futuro” e non pensavo che sarebbe finita nel disco sinceramente. Facendo vedere a Luca un ventaglio di canzoni l’abbiamo scelta però è stata un po’ una sorpresa anche per me. 
- Ti vorrei chiedere delle cose su un brano che davvero mi ha colpito molto, “La truffatrice”. Un brano lirico, delicato, cantato con una voce femminile. Come è nata la tua collaborazione con questa cantante?
- Sì, io e Francesca ci siamo conosciuti ad un suo concerto, lei collabora anche con un collettivo che si chiama “Canta fino a dieci”. C’è anche Anna Castiglia, insomma stanno facendo strada anche singolarmente. E io ero rimasto impressionato da questo concerto e in particolar modo da lei. Poi mi ha scritto ed è partito un carteggio, ci siamo mandati delle canzoni a vicenda ed è nata una stima reciproca. E quando ho deciso di registrare “La truffatrice” ho pensato che la sua voce potesse starci bene. Tra l’altro lei compare anche in un altro brano, “Serafino Gubbio”, però nei cori. Il suo intervento comunque era pensato proprio come nei dischi folk, non fare il duetto pop come featuring così, ma una presenza nel disco che compare in più punti.
- In “Per il nome del padre” mi sembra di sentire l’eco di De Andrè e anche un po’ dei Baustelle. Confermi?
- Dici De Andrè e i Baustelle? Sì De Andrè tantissimo, fa anche lui parte del mio background. E’stato proprio un innamoramento. Dai diciotto anni fino ai venti- ventidue ho letto tutto quello che riuscivo a leggere su di lui. Al di là delle canzoni mi è sembrato proprio di imparare un modo di stare al mondo. Anche il discorso legato alla Sardegna, i suoi rapporti di amicizia, mi piaceva molto questo suo rapporto con Fernanda Pivano. Quindi un po’ questo. Ora preferisco altri cantautori, anche Fossati adesso mi piace di più, lo trovo più vicino a me. Però De Andrè è stato proprio un autore di formazione. Invece i Baustelle mi piacciono molto, ho consumato “Fantasma”, mi è piaciuto anche l’ultimo. Mi piace in generale il modo che hanno di raccontare, ti dicono delle cose anche brutali però con questo tono disincantato, questa musica leggerissima direbbero Colapesce e Dimartino.
- Ti faccio una domanda sui live. Che effetto fa esporti al pubblico? E’ cambiato, se lo è, il tuo rapporto con chi viene ad ascoltarti?
- Io facendo un altro lavoro, perché insegno a scuola non ho mai avuto una vera e propria attività live, quindi diciamo che sono delle occasioni più che altro. Per ora non mi è mai successo di fare un tour in giro per l’Italia. Spero che accada perché sarebbe proprio una bella esperienza da provare. Per ora direi che sono state delle occasioni. Negli ultimi due anni, da quando mi sono trasferito a Torino la cosa che ho fatto di più sono gli house concert. Ne ho fatti quattro o cinque in questi anni.
- Allora sarà più difficile venirti a sentire perché non è che posso presentarmi così a casa dei tuoi amici…
- Sono live che mi sono piaciuti molto anche perché sono molto crudi diciamo, ho suonato anche senza microfono e quindi bisognava che ci fosse silenzio assoluto e così era. E poi il rapporto con le persone è anche più diretto, finisci di suonare e un secondo dopo stai parlando con le persone. 
- E puoi avere un feedback immediato su quello che hai suonato.
- Esatto. E c’è anche più necessità di scherzare con il pubblico per forza di cose, perché in una casa non hai quella distanza che si crea dal palco e che anche l’amplificazione crea. Sei in mezzo a loro e quindi la battuta la devi fare per forza altrimenti diventa una cosa pesante e anche un po’ artefatta. Questo tipo di esperienza secondo me è un’ottima scuola perché non è sempre facile essere spontanei e prendere alla leggera quello che sta succedendo mentre suoni.


Quello di Giovanni Amirante è il percorso di un giovane che sta imparando a fare il cantautore e che ha trovato nella musica un mezzo per trasmettere emozioni, pensieri che vanno oltre il mero significato delle parole. Forse l’idea di lucidità più che con la mente ha a che fare con il cuore.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra




 

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