“Cellule stronze”, album d’esordio della cantautrice pugliese Francesca Pichierri, è un diario intimo svelato al pubblico per condividere una prova molto difficile, ovvero il percorso di diagnosi e cura di un carcinoma diagnosticato a sua madre. Il caleidoscopio di emozioni che si dipana brano dopo brano costruisce una narrazione coinvolgente. Il primo pezzo “Gelo” rappresenta la presa di coscienza. Si apre in modo spensierato con un pianoforte che traccia una melodia allegra a segnare il “prima” e il repentino cambio di atmosfera, sottolineato da un sax e dall’ingresso della voce che segna il momento della diagnosi, della paura. “E arriva il gelo. La pelle d’oca sulle gambe tese che tremano nude” canta Francesca Pichierri con voce ricca di sfumature jazz. In questo, come in tutti gli altri pezzi dell’album la fusione tra testi e musica è l’elemento chiave che crea il pathos. La successiva “Il nemico dentro” contiene uno dei versi più emblematici: “Lo so è ovvio siamo fragili, ci tradisce anche il nostro corpo”. Il crescendo è come un’esplosione di sentimenti in musica. A seguire “Io sto bene” è uno dei brani strutturalmente più interessanti, con il pianoforte ragtime e la voce in inglese che danza tra le note fino alla risposta alla classica domanda di rito “Come stai?” con un evitante “Io sto bene, io sto bene tutto bene”. Sono molti i frammenti diversi che compongono questa traccia multiforme, che si conclude sulle rive di un mare di cui si sente l’infrangersi dell’onda. “Amen”, quarto brano dell’album, è quell’up tempo funk che non ti aspetteresti. La successiva “Anime vaghe” inizia in un sussurro: “Attendevo un segnale, una parola, anche una sola, all’imbrunire per poi sentire quando il giorno muore lento, il rumore del vento”. Il piano accompagna la voce ora fragile, ora potente della cantautrice a simboleggiare il nostro essere anime vaghe. Segue “Guardami guardami” che riporta la rotta dell’album su ritmi pop su cui la voce sembra giocare grazie alla sua notevole duttilità. “Nel dolore cerca la” si apre col suono di un sitar e echi di voci lontane per poi rivelare una grana pop di gran qualità. La traccia conclusiva “Sperarci due eroi” è una cavalcata verso la luce, ricca di speranza e di positività.
Abbiamo parlato di questo album emozionante con l’autrice.
- “Cellule stronze” è un album molto intimo e, al tempo stesso, di sensibilizzazione nei confronti degli altri sulla malattia, sul percorso che state affrontando. Qual è stato il tuo personale percorso che ti ha fatto decidere di pubblicarlo?
- Diciamo che la ragione nasce dall’esigenza stessa di scrivere canzoni su questo tema, perché nel vivere la malattia, come è nella nostra famiglia, quello che accade è che ti rendi conto di quanto vivere la malattia sia complesso da tanti punti di vista, non solo fisico ma anche emotivo e sociale soprattutto. E che ci sia difficoltà nel comprendere la complessità della malattia. Quindi l’esigenza di pubblicare, di parlare di un argomento del genere nasce proprio dal voler comunicare l’esperienza molto semplicemente. Il voler raccontare un’esperienza affinché ci si soffermi un attimo a riflettere su questo tipo di vissuto.
- Quel che mi ha subito colpito del tuo disco è come ogni parola, ogni suono siano come necessari. C’è quest’alternanza di sconforto, risate, c’è un momento in cui si intravvede anche la voce di tua mamma. C’è questa alternanza di luce e buio anche dal punto di vista della musica oltre che dei testi. Ti ci riconosci?
- Assolutamente. Ingloba un po’ tutto, i momenti di positività, di speranza, ma anche di buio, di disperazione perché l’esperienza è anche questo, momenti di alti e bassi. La scrittura, la produzione sono stati molto autentici, immediati, non c’è un calcolo all’interno del brano o dell’album stesso. Quindi è estremamente immediato, proveniente da un’esperienza vissuta e quindi anche in questo ci trovi gli estremi, lo spettro dell’esperienza.
- Il primo pezzo dell’album “Gelo” comincia con un tocco lieve, quasi spensierato di pianoforte che poi viene interrotto da questo brusco cambio d’atmosfera con la tua voce che dice: “E arriva il gelo”. Immagino che si tratti del momento della presa di coscienza della diagnosi. E’ così?
- Sì assolutamente, è proprio quello. Racconta il percorso, quasi la scena. Andavamo in macchina a fare una visita, in questo caso ginecologica, normale e poi trovarsi un macigno addosso. Quindi sì racconta quel momento quasi di passaggio da una vita normale e una vita che viene stravolta.
- Un altro pezzo che mi ha colpito molto è “Io sto bene”, che è un po’ la risposta al classico “come stai?”, una risposta di circostanza. Gli altri si aspettano sempre una risposta positiva, poi ci rendiamo conto che invece intorno a noi c’è un’indifferenza totale da parte degli altri.
- Sì, questo aspetto della felicità, delle emozioni positive, del fatto che gli altri vogliano saperci sereni e sentirci dire che si sta bene, perché se invece la persona ci dice che non sta bene dobbiamo entrare in un discorso più ampio e approfondito, quindi dobbiamo anche saper ascoltare. Molto spesso si trova nelle situazioni di vita normale quel “Come stai?” “Bene, bene”, cerchi di tagliare corto perché non hai né voglia né è la situazione adatta per andare un attimo in profondità. Si può leggere da una parte come un’esigenza della persona di dire che si sta bene quando si vive una certa situazione anche per non sentirsi estremamente vulnerabili, non entrare troppo, non ammettere di stare male. Ma anche a volte come un senso di protezione. In questo caso del brano nasce come senso di protezione, di prendersi cura degli altri anche quando dentro di te tutto sta vacillando. Dici alle persone che ami che stai bene anche per questo senso di protezione, poi però chi ti ama sa che c’è qualche cosa che non va, lo sente dalla tua voce, o lo vede dallo sguardo, da tanti aspetti. E quindi mi piaceva anche esplorare questo aspetto che si ritrova in molte situazioni. Poi come dicevi tu a volte anche la superficialità dei rapporti umani quando ci si vede, perché si preferisce non andare a fondo perché richiederebbe del tempo e, nella vita che viviamo, il tempo è sempre molto scarso. Dal mio punto di vista le relazioni umane ne soffrono parecchio anche perché richiedono del tempo.
- Il pezzo “Amen” esprime sostanzialmente un paradosso, cioè non mi volete vedere perché poi voi soffrite. Il non voler vedere diventa un po’ un alibi, una convenienza. Riallacciandoci a quanto dicevamo prima un po’ l’ipocrisia della gente che nel momento in cui si ha bisogno casualmente ha sempre un impegno.
- Sì a me racconta proprio questo fenomeno, il cancel ghosting in cui persone familiari e che appartenevano alla sfera degli amici, dei conoscenti che magari prima popolavano la tua casa quando tu stavi bene a un certo punto non si fanno trovare. Ed è un’esperienza molto comune a chi affronta la malattia. Ci si rende conto di essere comunque soli, avevi un bel gruppo di persone e ti ritrovi quelle poche più strette che rimangono. E purtroppo sì si incontra tanta ipocrisia, persone che dicono “non voglio vederti perché altrimenti sto male, non riesco a gestire il tuo dolore, oppure c’è chi dice che vuole essere d’aiuto e prega per te ma nei momenti concreti non è mai presente. Stiamo parlando di fuffa quindi.
- Parliamo del pezzo “Nel dolore cerca la”, che è dedicata proprio a tua mamma, canti “mentre stringi i pugni brilli di più”. E’ un’esortazione a mettercela tutta per farcela?
- In realtà parla di un’esperienza molto forte, ad un momento in cui pensavo che non ci fosse più speranza, che fosse tutto lì per finire. In quella situazione di grande dolore, di grande emergenza quello che notavo è questo stringere i pugni per il dolore che quella persona sta provando, oppure nel momento di grande dolore c’è chi è lì a proteggere, è lì a brillare…non so bene come spiegartelo. E’ come se quella persona nonostante quel dolore, quella situazione di paura anche per se stessi fosse lì per dare forza a te. E’ una cosa quasi surreale se ci pensi. Vedi quella persona che ami che è lì con il rischio di morire e poi invece è lei a proteggere te e a darti forza. E’ un momento molto forte da vivere e si crea questo paradosso per cui dici “come fai tu lì ad avere quel tipo di forza”. Nei rapporti stretti con le persone che amano come tra una madre e una figlia o un padre e un figlio o una figlia è molto interessante vedere il potere dell’amore, che poi è il senso di tutto.
- Passando a considerazioni più musicali, nel pezzo di cui abbiamo parlato ora, “Nel dolore cerca la” mi sembra di sentire degli echi dei Depeche Mode. Ci avevi pensato scrivendola?
- Sì assolutamente ma anche altre band come i Wolf Alice, una band inglese per cui ho un forte amore, per la musica anche Matia Bazar hanno una forte influenza nell’album.
- Parlando della tua voce si sente nell’album che non è certo la voce di qualcuno che si improvvisa cantante, quindi vorrei sapere se hai affrontato un percorso professionale da questo punto di vista.
- Sì è da tantissimi anni, dal Liceo, dalle Scuole Medie che comunque ho seguito una serie di lezioni che ho continuato fino a che mi sono diplomata al “Complete Vocal Institute” di Copenaghen in Danimarca che è una scuola molto importante. E lì mi sono diplomata anche come insegnante, quindi sono una vocal coach. Comunque ho anche sperimentato da sola, sono anche un po’ nerd quindi i vari studi e corsi anche un po’ all’estero, le varie masterclass. La mia voce è il mio strumento preferito quindi sono molto interessata a coltivarlo.
- Ho notato che in quest’album hai un cantato quasi jazz, vero?
- Sì ho iniziato in realtà con il blues, che è stato il mio primo amore, poi ho continuato con il jazz facendo parte di diverse band sempre della scena indipendente. E sì confermo che ci sono forti influenze jazz, ma anche blues. Mi piace spaziare in musica, ascolto anche rock, alternative rock, ma anche punk e folk. Ascolto veramente di tutto ma comunque l’aspetto che mi interessa di più è lo storytelling, al di là del genere musicale che viene usato e come viene usato, qual è il senso della canzone, com’è la storia che mi stai raccontando e in che modo me la stai raccontando. Deve avere tutto una connessione, un senso.
- Ho letto che tu hai scritto, composto e arrangiato l’album quasi tutto da sola, sei stata affiancata da Stefano Iuso come coproduttore e chitarrista, Simone Ferrero (al mix) Giovanni Versari (al mastering), ma il disco è stato registrato nella camera in cui sei cresciuta.
- Sì Stefano è anche bassista, suona il piano, insomma è un polistrumentista. Comunque sì in gran parte è nato ed è stato registrato nella mia cameretta qui in Puglia, a casa dei miei genitori per questioni anche logistiche, di presenza. Vivo all’estero, in Germania, ma molto spesso ero in Puglia per stare accanto a mia mamma. Gran parte della produzione è stata fatta online. Io ho iniziato con Stefano, lui era il mio insegnante di produzione musicale, gli ho parlato del progetto cui stavo lavorando e da lì abbiamo iniziato a lavorare insieme sull’album.
- L’arma più potente che abbiamo quando ci troviamo ad affrontare queste esperienze è l’amore per i nostri cari e il desiderio fortissimo di star loro accanto, perché uniti si può farcela.
- Bellissimo, esatto. Si può affrontare tutto con uno spirito diverso rispetto al fare tutto da soli. E’ questo, come hai sintetizzato tu il messaggio che volevo dare. Nella vita ci sono esperienze particolarmente complesse ed è attraverso l’empatia si può fare la differenza nella vita degli altri, ci tengo a sottolinearlo.
L’empatia di cui ha parlato Francesca Pichierri al termine dell’intervista è effettivamente palpabile anche ascoltando “Cellule stronze”. Sembra quasi che la cantautrice pugliese voglia prenderci per mano per portarci alla scoperta del suo mondo interiore. Un mondo di brani in grado di emozionare e coinvolgere.
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