sabato 19 ottobre 2019

"L'ORA DEL DRAGONE" - DAVID DRAGO PARLA DEI VIZI E DELLE VIRTÙ DELLA SCENA INDIPENDENTE ITALIANA - INTERVISTA DI MAURIZIO CASTAGNA


Ciao David e benvenuto sulle "pagine" di Riserva Indie sperando, presto, di averti in studio da noi. Hai condotto per 13 anni "L'Ora del Dragone", uno dei pochi spazi radiofonici in cui "suonava" quella musica che solitamente non passava nelle radio "più commerciali". Cosa ne pensi del rapporto tra radio e musica indipendente? Si è pericolosamente scesi di livello, non solo musicale, in una folle corsa agli ascolti a scapito della qualità e della propria identità?

Grazie per l'ospitalità sulle vostre pagine, ammiro molto la trasmissione e la vostra resistenza. Che io non ho avuto, dato che, almeno per il momento, ho chiuso “L'Ora del Dragone” dopo averla portata avanti per ben tredici anni in tre radio diverse, prima su Radiogas, una delle web radio pioniere, e poi approdando all'FM: quasi la metà di quei tredici anni li ho trascorsi su Novaradio Città Futura a Firenze, dedicandomi prevalentemente alla cosiddetta musica indipendente. Ma molto in questi anni è cambiato. Non si tratta solo di corsa agli ascolti a scapito della qualità musicale, ma dello smembramento di una precisa filosofia della musica, quella appunto indipendente fatta di etichette forti, dischi venduti, concerti seguiti, manifestazioni di settore e radio che costruivano un rapporto proficuo e crescente con quel tipo di musica e il mondo che gravitava attorno. Nel tempo, con la crisi dell'industria musicale dovuta anche all'avvento sconsiderato e violento delle piattaforme web, il rapporto si è rotto, ma l'appiattimento qualitativo che ne deriva a parer mio è dovuto a tre sintomi di incompetenza: miopia, ovverosia mancanza di una visione a lungo termine; vigliaccheria, ovverosia galleggiare invece che cercare di incidere e formare; e conformismo, ovverosia rincorrere quel che viene promosso invece che promuovere a propria volta e contrastare così il pensiero unico musicale che ha travolto ogni differenza. Questa miopia e vigliaccheria e questo conformismo hanno contagiato tutti i protagonisti. Le radio, anche e soprattutto quelle che non appartengono ai grandi network, invece di crescere e offrire possibilità di crescita smettono di investire, non scommettono più sulla professionalità e si accontentano di vivacchiare magari con contributi economici a vari livelli ma senza un progetto serio che incida sul territorio e dia una vera mano alla musica indipendente. Gli artisti si perdono quasi tutti, anche quelli che hanno prodotto risultati egregi in passato, nella vana ricerca di ascolti e consenso, calando il livello della propria scrittura e composizione, e diventando inutili epigoni di quel che pare andare di moda in questo calderone musicale senza forma. Gli uffici stampa campano sulla pelle dei suddetti artisti e promuovono qualunque cosa capiti loro a tiro per tirare su un po' di soldi e sopravvivere, quasi tutti senza un programma artistico coerente. Le etichette discografiche nascono e muoiono in un amen, non investono né scommettono sui loro artisti con progetti a lungo termine. E i locali di musica live, quelli che non hanno chiuso i battenti, non hanno più alcuna capacità di lancio e scelta. Tutti a dare la colpa a un pubblico appiattito: ma il pubblico è anche differenziato, solo che a nessuno pare interessi più andarselo a cercare. Ovviamente ci sono le eccezioni, ma tali sono e magari ne parliamo dopo. Davanti a questo panorama desolante, ho preferito prendermi un periodo di riflessione, che non so dove porterà ma mi rende più sereno e dedicato agli ascolti che desidero. Perché c'è anche questo: la velocità con cui escono singoli, album, canzoni a centinaia al mese, non consente più una capacità di ascolto critico decente, con buona pace delle riviste musicali online più seguite, piene di recensioni impossibili e approssimative, scritte peraltro spesso con i piedi.

Oggi un certo indie è entrato nei salotti buoni della musica. Da Sanremo a X Factor passando per Radio Deejay. A cosa si deve questo passaggio impensabile fino a pochi anni fa? C'entra il fatto che questa nuova scena sia quasi completamente priva di contenuti politici?

Non credo si tratti di questo. Alcuni cantautori emergenti di grande e grandissima bravura affrontano temi importanti ma non vengono passati dalle grandi radio per un disimpegno che è più culturale che politico. Quando questa emersione dell'indie sui grandi network è iniziata, io ero molto contento perché pensavo che finalmente si aprissero opportunità per grandi talenti che passavo in radio e conoscevo bene. Non è stato così. O almeno lo è stato solo per la trap e dintorni, musica effettivamente nuova che ha scardinato le categorie, ma che si è anche contaminata di schifezze inenarrabili. Il fatto è che l'industria musicale in crisi nera di identità, ha fagocitato la musica indie togliendole la sua: si è divorata alcune band di bella presenza e scarso talento, attraverso i talent ha reso gli artisti una merce usa e getta, ha privilegiato la quantità alla qualità, spesso regalando illusioni e poi gettando nel cassonetto il musicista dopo averlo spremuto. Intendiamoci: l'industria musicale è un'industria e in quanto tale vuole fare soldi, non beneficenza, ma ciò che è cambiato rispetto a quando si vendevano i dischi è che a fronte di prodotti supercommerciali che andavano per la maggiore e vendevano moltissimo magari per una sola stagione, c'era un lavoro di scouting sulla qualità che permetteva di investire su talenti autentici e grandissimi da tirarsi su, come sa bene Mara Maionchi che di artisti ne ha macinati e si racconta abbia impedito ad esempio a Mango di smettere di cantare dopo i primi insuccessi. Così, accanto alle superhit di Sabrina Salerno c'erano i successi di Ivano Fossati. Oggi non potranno esistere un Lucio Dalla o un Angelo Branduardi, da seguire album dopo album, su cui la discografia ha scommesso a suo tempo con una tale convinzione da tirarseli su col tempo e imporli a un loro pubblico. Adesso sembra che a ogni album un artista anche quotato debba ricominciare da capo: si lavora sul presente, sul qui e ora, sui clic e le visualizzazioni che tutti stanno scoprendo quanto siano spesso inutili, e non si scommette sul futuro di nessuno. Avanti un altro, tanto c'è pieno. Solo che così non si differenzia la musica in base a un pubblico: i giovani più esigenti o le persone adulte e più che adulte ancora seguono i Led Zeppelin o i Pink Floyd, Battisti o Battiato, la Mannoia o la Bertè, e non sanno quanta bellezza mai emersa, ma che li conquisterebbe, esiste ancora. Poi, per carità, ogni tanto arriva un Ghemon, o un Mahmood, e allora grazie Sanremo di averlo fatto vincere! Lui ha talento e pare avere l'intelligenza per non dissiparlo in un amen. Ma da X Factor – che è un programma di divertente intrattenimento e nulla più quanto tempo è che non emerge più uno che duri? Ricordate i The Bastard Sons Of Dioniso? Dalla tv sono tornati a fare i concerti nei piccoli club, e si tratta di una band di talento e coerenza. Parliamo degli artisti, soprattutto quelli emergenti che spesso hanno trovato casa anche all'Ora del Dragone.


A Riserva Indie ho riscontrato una mancanza di professionalità e di serietà anche da persone che magari passano ore sulla rete a postare fotogrammi e sproloquiare. Parlo di biografie non aggiornate, brani difficili da reperire e interviste che non vengono neppure condivise. Manca oggi una figura professionale capace di guidare e magari fermare chi non ha le capacità per emergere?

Guarda, addetti stampa poco seri che conosco cercavano di convincere gli artisti a pagarsi lezioni da loro per poi convincerli che il futuro della promozione fosse Facebook. Certo che manca una figura professionale che guidi l'artista, perché funziona sempre alla vecchia: ci vuole qualcuno che creda in te, ci investa, un manager e un'etichetta seri che ti offrano una distribuzione decente in collaborazione con una major o con professionisti del settore, e allora qualche speranza ce l'hai. Ma come si rientra dei costi? Lì sta il problema: con la filiera disarticolata e impantanata che c'è, le possibilità invece che ampliarsi si riducono, e nessuno osa. Tanto che il crowdfunding – il finanziamento dal basso - è diventata un'opzione appetibile, anche ai grandi artisti: due fuoriclasse come Ginevra Di Marco e Cristina Donà lo hanno fatto con il loro disco insieme. Roba da pazzi. Le case discografiche avrebbero dovuto fare a gara per accaparrarselo, così accadeva quando le cose funzionavano. Per gli artisti emergenti, lavorare sulla rete e sui social, aggiornare biografie, è diventato un lavoro da aggiungere a quello che devono fare per campare e a quello irrinunciabile di fare musica. Li capisco. Ma credo che dovrebbero ribellarsi, fare rete insieme, unirsi e contrastare questa mancanza di professionalità che li circonda. Invece spesso se ne fanno complici, i progetti di collettivi musicali sono abortiti uno dietro l'altro, chi si fa promotore di possibili collaborazioni viene immancabilmente deluso e frustrato, e allora ognuno sta da sé, pensa a fare la rockstar, o il musicista incompreso, o di avere in cantiere il capolavoro del secolo. Sono pochi quelli seri: sono quelli che, consapevoli che fare musica è per loro una necessità primaria, continuano a scrivere e a fare quel che possono regalando spesso dischi molto belli, senza sfinirsi sui social, con umiltà ma con la certezza del proprio talento. Quella che avevano Emily Dickinson, Kafka, Van Gogh.

Un capitolo dolente è quello dei club dove si suona dal vivo. Spesso e volentieri si organizzano live che non vengono promossi e si investe sul dj set di fine serata con la musica trash anni 80. C'è anche un problema di gestori di locali?

Un problema annoso. Forse i gestori dei club come i direttori delle radio si sono avvicendati e chi li ha sostituiti non sempre è all'altezza. Ma se l'abitudine di pagare più il dj dell'artista che suona live è ormai diffusissima, il discorso “vieni a suonare per 100 euro ma solo se mi porti gente” è roba vecchia, c'è sempre stata. Però, è una catena che nessuno ha spezzato, e tutti ci hanno rimesso: molti club hanno chiuso o si sono trasformati adeguandosi ai presunti gusti di un pubblico che negli anni si è trasfornato da quello curioso che ascoltava i concerti per scoprire nuovi artisti a quello rumoroso che chiacchiera al bar a voce alta mentre aspetta il dj set. Nessuno, quando le cose iniziavano a cambiare, ha osato fare da pioniere e iniziare ad esempio i concerti alle nove invece che a mezzanotte, come accade nei club di Londra, per conquistarsi pian piano un pubblico più adulto, motivato, realmente interessato alla musica, e non a tirare tardi scofanandosi birre e mojitos come in discoteca. Tuttavia, ne ho visti tanti di concerti nei club, e a volte è stato bello. Ricordo anche i concerti al Mei di Faenza di oltre dieci anni fa: sconosciuti che venivano ascoltati da tanta gente, lì ho scoperto artisti come Celestino Telera, bel talento che adesso è a Londra a fare l'attore, credo. Poi, nei club, la gente ha iniziato a fottersene. Ma non si può ascoltare uno come Alessio Bondì con il chiacchiericcio di sessanta cretini alle spalle e dodici impavidi sotto al palco ad ascoltare quel che si riesce. Mi ricordo che a un concerto in un club di Prato, una tipa mi picchia sulla spalla e mi urla: ma quando arriva Pippo Diggei? Spero mai, le ho risposto. Adesso di concerti ne scelgo pochissimi, e li vedo o nei teatri, o nelle case. L'ultima volta in un club – ma era uno di quelli più grandi è stato per Mahmood.



Altro tema su cui vorrei sollecitarti è la mancanza di una circuitazione di cantanti e band agli eventi. Ti parlo da una provincia, Massa-Carrara, piena di musicisti che hanno fame di esibirsi ma che quasi mai si vedono sotto un palco a sentire gli altri. Perché chi suona, o ha la pretesa di farlo, ha smesso di andare ai concerti?

Conosco alcuni artisti che lo fanno e, come dici tu, ne traggono spunti e idee, magari collaborazioni. Ma sono rarissimi, mosche bianche, e in genere i migliori sulla piazza chiamiamola indie. L'ego spropositato e spesso ingiustificato di molti artisti non aiuta certo a uscire da questa situazione confusa e disarticolata. Raramente si sostengono, non si seguono ai concerti e sono avari perfino del famoso like sulle pagine dei loro colleghi emergenti. Ad esempio, se un artista emergente – o anche un po' più conosciuto viene chiamato per una collaborazione, che so, da Manuel Agnelli, lo strombazza per ogni dove, condivisioni a manetta sui social, comunicati del suo ufficio stampa a tutti i media dell'universo, e-mail urbi et orbi, messaggi Whatsapp a palla, telefonate alle radio, manca solo il megafono su un'auto per le strade. Posso capirlo. Ma perché non fai lo stesso, almeno sui social network, quando a collaborare ti chiama un emergente come te? Questo no, non lo capisco. Non si rispondono neanche alle e-mail, a meno che tu non faccia parte del piccolo giro locale, milanese, fiorentino o romano che sia. Chi sta su un gradino appena più alto, perché invece che in quindici lo conoscono in cinquanta, già se la tira abbestia. Altro che concerti: però, i primi sfigati sono quelli che trattano da sfigati gli altri.

L'avere smaterializzato la musica con le piattaforme di streaming e YouTube ha portato una rivoluzione epocale nell'ascolto. Trovi più pregi o difetti in questa deriva?

La trovo una deriva devastante. Ma credo che il vero male sia dovuto agli smartphone. Perché se devi sederti alla tua scrivania, accendere il computer, collegarci delle casse decenti, e navigare in rete, magari ti prendi anche del tempo per andare a scoprire cose davvero nuove. Invece hai lo smartphone, hai tutte le app fisse in tasca, e mentre cammini, o aspetti dal dentista, o sei in treno, o ti fai una birra in pizzeria, vai su Spotify o YouTube e clicchi su quel che ti suggerisce lui. Ed ecco uccisa la musica. Voglio citare un articolo uscito sul Financial Times lo scorso maggio, segnalatomi da Michele Faggi, uno dei pochi seri e capaci che si occupa di musica su Indie-Eye: “Di fronte alla scelta incredibilmente ampia di Spotify, diventa più semplice tornare ai vecchi autori preferiti più facile di quando cercavi nella tua collezione di vinili o CD, perché l'atto di guardare attraverso la tua musica ti consentiva di recuperare cose a cui non avevi pensato negli anni. Spotify in realtà trasforma le persone in ascoltatori molto più conservatori. Lo streaming ha spogliato la musica del contesto, ridimensionandola alla sola canzone e al momento. Ma parte di ciò che ha reso grande il pop è stato il rumore in eccesso, letterale e metaforico, ciò che ha migliorato il segnale, quello che dovevamo ascoltare. La vera differenza è tra un mondo arricchito dal rumore e un mondo che tende solo al segnale. Il rumore è il contesto della vita. Senza rumore, il segnale diventa insignificante".



I social hanno trasformato gran parte degli ascoltatori in opinionisti degni del peggior "Processo del Lunedì" di biscardiana memoria. Questo paese si è trasformato da una nazione di alunni a un paese di professori in cui, non solo nella musica, tutti parlano e nessuno ascolta. Qual è il tuo rapporto con i social?

Quello di chi ritiene che uno strumento potenzialmente utile sia diventato un mezzo di condizionamento di massa in mano a pochissime potenze economiche e finanziarie, illudendo chi ha bisogno di sentirsi importante che lo è davvero, mentre le sue opinioni di cui non frega granché a quasi nessuno scorrono via con un scrollo di schermo senza lasciare traccia, a parte qualche commento più o meno livoroso, dimenticato anche quello in un amen. I social servono a chi famoso lo è già altrove, il resto è gingillo. E anche in questo caso può essere devastante: pensa ai politici che invece di rivolgersi alle agenzie stampa twittano e i giornali ricopiano Twitter. Poi si lamentano che non vendono. Io ho solo Facebook, avevo un profilo mio e la pagina dell'Ora del Dragone, li tenevo per lavorare, poi ho cancellato tutto, e ho rifatto un profilo personale per mantenere amici che stimo e certi contatti lontani, e leggere quel poco di interessante che trovo sulle riviste online postate da loro. Ho Whatsapp che trovo utile anche se abusato, e non ho Instagram. Ma ecco, quando gestivo la pagina del mio programma, ed ero devastato di messaggi di band e artisti a cui impiegavo un sacco di tempo per rispondere, lavorare gratis per Zuckerberg m'è sempre stato pesantemente sul cazzo.

Torniamo all'Ora del Dragone che hai condotto per 13 anni. Hai qualche aneddoto particolare da raccontarci? Qualche episodio che ti è rimasto impresso? E soprattutto come si è evoluta la tua trasmissione nel corso del tempo?

Se all'inizio privilegiavo la musica indie perché c'era una scena, e andavo in giro a scoprire nuovi talenti da passare e intervistare, nel corso del tempo ho capito che la musica italiana è una sola, che quella distinzione tra indie e major era ormai datata, e man mano che venivo subissato da brani e album nell'ordine di centinaia al mese, ho iniziato a distinguere maggiormente per qualità e a disinteressarmi delle distinzioni. E così – ed è stata la stagione migliore – dai microfoni delle radio in cui ho lavorato passavo e intervistavo indifferentemente famosi e meno, mischiando Battiato e Giuni Russo ai The Half Of Mary o Femina Ridens. Episodi belli ne ricordo molti, come i concerti che abbiamo organizzato con Radiogas: i Ministri al Castello dell'Imperatore di Prato, e poi Alice in teatro, che prima ospitai in radio e parlando proprio di Giuni Russo si commosse, le scese qualche lacrima, si interruppe e io alzai la musica. Altri episodi sono legati prevalentemente a Novaradio: il bellissimo live da brividi di Andrea Chimenti in studio quando uscì il suo album “Yuri”, la lunga e bellissima intervista con Irene Grandi e i Pastis belli sorridenti in studio per l'uscita del loro capolavoro “Lungoviaggio”, la prima volta di Alia quando venne a presentare il suo esordio “Asteroidi” che mi folgorò tanto che volli averlo in studio facendolo arrivare da Bergamo a Firenze, Marco Parente e Serena Altavilla in un duetto fenomenale dal vivo, Ginevra di Marco e Francesco Magnelli ospiti in studio a ripercorrere la loro carriera divertendosi a riscoprire brani che anche loro non ascoltavano più da tempo. E a proposito di divertimento, le indimenticabli puntate mensili con Drusilla Foer come ospite, quando oltre a passare musica si affrontavano vari argomenti di attualità e lei, col suo mordente, mi prendeva anche per il culo ma mi faceva fare schiantare dal ridere in diretta: erano puntate molto seguite.



Ha ancora un senso dedicare molto del proprio tempo a dischi che non ascolterà probabilmente nessuno e a preparare interviste che interessano al massimo a un pugno di appassionati? Te lo chiedo perché come Riserva Indie ci siamo posti il problema parecchie volte in questi mesi.

Sì. Credo però che bisogna sforzarsi molto per non restare confinati in un ghetto. Io ho variato nel tempo il mio programma in questo senso: scegliere bene gli artisti da ospitare, in base alla loro originalità e bravura – anche vocale, che è importante cantare bene, eh cercando di fare in modo che la loro musica sia veicolata anche attraverso l'accostamento ad artisti e brani molto famosi, di ieri e di oggi. Insomma, riportare al centro la musica italiana, tutta quella che si ritiene più bella, senza distinzioni troppo rigide di generi e attitudini. Tanto vogliono tutti la stessa cosa: essere ascoltati. Io ho chiuso il mio programma perché all'interno della radio non mi si davano possibilità di crescita, né economicamente – che è importante, non siamo mica le dame di San Vincenzo della musica – né dunque attraverso un inserimento maggiore all'interno della radio proprio per svincolarmi da ruoli fossilizzati e magari condurre anche un programma completamente diverso – sono un giornalista, dopotutto in modo da unire ad esempio la musica con l'attualità, radicandosi in questo modo ancora di più sul territorio, e cercando magari di ampliare il pubblico. Non è stato possibile. Ammiro però la vostra costanza e caparbietà, siete un faro. Però, che ne pensate di rinnovare il programma anche solo cambiandogli il nome? Ho la sensazione che dalla Riserva Indie oggi vogliano tutti scappare...

Sul fatto di cambiare nome sono d'accordo con te ma per ora rischio il linciaggio fisico, più che morale, dei miei colleghi. Prima di chiudere David è d'obbligo chiederti qualcosa dei tuoi ascolti oggi. Hai qualche artista da segnalare? Cosa gira sul tuo piatto in questo momento?

Da quando non devo più ascoltare l'oceano di roba che mi arrivava fino a luglio scorso, quando ho chiuso l'Ora del Dragone, devo dire che sono piacevolmente tornato ad ascoltare i miei dischi e i miei amori passati che sono sempre presenti: Franco Battiato e Alice, Ivano Fossati e Mia Martini, Kate Bush, Sarah McLachlan, Joni Mitchell, Peter Gabriel, John Grant, Stevie Nicks, Cat Stevens. Ho poi scoperto grandissime voci del panorama musicale internazionale che non conoscevo come la svedese Sophie Zelmani, l'olandese Fridolijn, o le statunitensi Weyes Blood e Kacey Johansing. Ascolto spesso con grande piacere alcuni protagonisti della stagione migliore dell'indie: Amor Fou, Verdena, Non Voglio Che Clara. Ma ci sono artisti meno noti passati negli studi radiofonici a L'Ora del Dragone che sono diventati i miei ascolti più assidui: ad esempio Alia con l'esordio “Asteroidi” e il suo secondo splendido album “Giraffe”, ricco di collaborazioni bellissime come quella con Patrizia Laquidara nella title track, e musicisti di grande talento a suonare con lui. O l'appartatissimo cantautore lucchese David Ragghianti con l'esordio “Portland” e il disco nuovo appena uscito, “Carnival Sissi”, ambedue prodotti da Giuliano Dottori: un fuoriclasse. O ancora Alessio Arena, grande talento italiano trapiantato a Barcellona, che incide in spagnolo e in italiano, e Tommaso Di Giulio, autore romano che dopo il suo bel disco “L'ora solare” ha resistito alle lusinghe della più bieca musica commerciale pubblicando invece “Lingue”, un album intenso dedicato a suo padre. Delle cose più recenti, ho ascoltato molto Mahmood, i Tersø, e La Municipal. Quando imparo a memoria le canzoni e le canto in macchina, ecco, quello è il segno distintivo che l'artista in questione ha messo radici nella mia discografia personale. E allora mi accorgo di quanto pochi siano, del cosiddetto indie, quelli che hanno lasciato il segno dentro di me, e sono quelli che hanno continuato e continuano a fare dischi, con la loro cifra originale e coerente, in direzione ostinata e contraria.

Grazie ancora per il tempo che ci hai dedicato e, quando puoi, ti aspettiamo in radio a Carrara per un'intervista ai nostri microfoni :)


Molto volentieri. E grazie a voi di cuore, per questa chiacchierata e per il vostro lavoro!



1 commento:

  1. L'Ora del Dragone è stata un'oasi felice nel panorama musicale che oggi sempre più appare come una landa desolata. Evviva le interviste come questa a David Drago, dove è ancora possibile leggere sensibilità e intelligenza. Grazie!

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