sabato 11 maggio 2019

I METALLICA, PIERO & GHIGO E LA LEGGE DI MURPHY - LIVE REPORT E FOTO DEL CONCERTO DI MILANO DEL 08-05-2019 // TESTO E FOTO DI LJUBO UNGHERELLI


In tutta sincerità, organizzare concerti all’aperto nell’Italia settentrionale in pieno inverno con 10° di temperatura e il palco non coperto non si configura proprio come una brillante pensata. Aggiungere all’assunto una location che consente volumi a dir poco inadeguati per i fabbisogni di un concerto rock di tale impatto, già rende l’idea di ciò che è stata la giornata. Ad ogni modo, ogni passaggio italiano dei Metallica è pur sempre un evento. Un evento piuttosto frequente, invero, che ha richiamato presso l’ippodromo del galoppo di Milano, adiacente al ben più consono Stadio Giuseppe Meazza, svariate decine di migliaia di spettatori molto paganti. Si parla di 47 mila unità.


La cronaca musicale s’intreccia ai bollettini meteorologici e racconta che alle 18 è una pioggerellina poco più che lieve e intermittente a cadere sulle teste degli astanti così come degli addetti al palco, che imbandiscono la tavola per l’arrivo dei norvegesi Bokassa, trio di ascendenze assai più ariane rispetto all’omonimo autocrate centrafricano. Mezzora di hard rock stoner che incrocia un metalcore non troppo spinto. Almeno questo si riesce a intuire, stanti i livelli di audio, tarati al ribasso già nel confortevole pit: inquietante solo immaginare cosa possa aver infrasentito la folla nelle retrovie.


La situazione non migliora su entrambi i fronti, quando alle 19 partono timidamente le note di “Ashes” e un nutrito contingente di Nameless Ghouls entra in scena. Per lo sventurato autore di queste righe, trattasi del piatto forte della serata, inserito nel mezzo come un saporito ripieno tra due fette di pane. Difficile immaginare una situazione peggiore, con un gruppo formidabile che fatica a imporre il proprio gioco causa deficienza dell’impianto. Invece per la legge di Murphy può capitare addirittura di ritrovarsi fianco a fianco con un essere che ha scambiato il concerto per una serata al karaoke, spingendosi a “cantare” finanche i fraseggi strumentali, volendo forse emulare il fan dei Radiohead amaramente descritto da Stefano Solventi nel suo ragguardevole volume “The gloaming”.


L’ora di concerto degli svedesi Ghost, pur acclamati da buona parte del pubblico, scivola via senza lasciare il segno che dovrebbe. Il solenne ritornello di “Year Zero”, ad esempio, risulta poco più che un fruscio di sottofondo. Per il resto, scaletta imperniata sui recenti “Meliora” (2015) e “Prequelle” (2018), i due capolavori consegnati ai posteri da Tobias Forge, il controverso titolare del progetto, l’uomo dietro la maschera di Papa Emeritus e adesso calato nei più comodi e disinvolti panni di Cardinal Copia. La sua sete di successo, la rincorsa al mercato Usa con una virata stilistica dalle sonorità più rocciose degli esordi all’attuale pop rock ricco di tastiere e orchestrazioni, la causa intentatagli dagli ex sodali (peraltro sconfitti in primo grado di giudizio)… Al netto dei gossip, la musica parla da sé e testifica l’immenso talento di Forge. Una canzone del livello di “Cirice”, giustamente premiata in sede di Grammy, risplende come una gemma oscura persino nel plumbeo strazio che fuoriesce dai diffusori.


I tempi tecnici del cambio palco si protraggono fino circa alle venti e cinquanta, allorché sono due standard dei rispettivi generi a precedere l’arrivo dei Metallica: “It’s a long way to the top” degli Ac/Dc e “L’estasi dell’oro” di Morricone. Ed è proprio Eli Wallach ad apparire sui maxischermi, aggirandosi per il cimitero nella scena del film “Il buono, il brutto e il cattivo”, accompagnato dalle note del maestro delle colonne sonore. Nel mentre, la pioggia pare aver concesso una salvifica tregua.


Ecco, chi scrive non è esattamente un fan accanito del gruppo californiano. Di eufemismo in eufemismo, i centocinquanta minuti di concerto, per di più corroborati da un massivo spazio dedicato all’ultimo disco “Hardwired…”, non passano proprio in scioltezza.


Con gli headliner in pista, il suono ha recuperato un minimo di garra, ma sempre insufficiente a garantire un’esperienza degna di tal nome. Ad ogni modo, c’è poco da contestare alla prestazione dei Four Horsemen, che non si risparmiano e macinano quella musica di cui sono portabandiera fin dalla ragione sociale, incuranti delle avverse condizioni audio–meteo. Il suono va e viene, abbassandosi inopinatamente per alcuni istanti in varie occasioni, al pari della voce di James Hetfield, talvolta un po’ in affanno. Gli affanni sono invece quasi la prassi per Lars Ulrich, la cui batteria è sovrastata da una tettoia di plexiglas simile a quelle usate per coprire le panchine a bordocampo nel calcio e in altri sport. Le stecche del musicista danese sono ormai parte integrante di ogni suo live set.


La legge di Murphy torna in auge dopo una caterva di brani tratti da “Hardwired…” e dal “Black album” (uniche eccezioni “The memory remains”, con gli ululati del pubblico a sostituire il coro di Marianne Faithfull, e la title track di “Ride the lightning”): un Kirk Hammett setosamente rossovestito e Robert Trujillo ascendono al proscenio con l’usuale siparietto che li vede reinterpretare una canzone significativa del paese in cui si trovano. Dopo gli omaggi a Vasco, Dalla e “Volare” dello scorso anno, tocca a “El Diablo” dei Litfiba, canticchiata dal bassista dalle proverbiali treccine. Al di là delle ironie scatenatesi a margine, tanto dai metallari quanto dai radical chic (e in generale da tutti coloro che non possono mai esimersi dal dire la loro, specie su argomenti di cui non hanno alcuna competenza), è senz’altro apprezzabile che un gruppo della caratura dei Metallica “perda tempo” a cimentarsi in un omaggio alla storia musicale del popolo che li ospita. Dovrebbe bastare questo per far tacere qualunque sterile polemica.


Purtroppo, ciò non è grato ai poteri forti, che decidono di far ripartire le precipitazioni atmosferiche: già nella successiva “St. Anger”, celeberrima per il suono stile batteria di pentole del “Mister” Ulrich in panchina, la pioggia trascende in un diluvio che si protrarrà ben oltre il termine del concerto. L’area sottopalco si riempie dunque di figure incappucciate, quasi fosse in atto una riunione della massoneria (chissà se c’era pure Forge, notoriamente affiliato a una loggia svedese), mentre i Metallica, che si trovino sul palco o si spingano lungo le passerelle per suonare più a contatto con le persone, continuano a imbarcare acqua e a sciorinare un repertorio che via via si rimpolpa di classici quali “One”, “Master of puppets”, “For whom the bell tolls”, “Creeping death”, “Seek and destroy” e, nel bis, la doppietta conclusiva “Nothing else matters”/“Enter sandman”. Il moshpit, anch’esso intemerato e indifferente all’alluvione, persevera a triturare corpi più o meno impermeabili. Per fortuna di chi vola per le terre, è stata allestita una pavimentazione a prevenire la fanghiglia che altresì regna in buona parte dell’ippodromo. Altrettanto ineffabile, la legge di Murphy si accanirà ulteriormente a folate successive, ma sono vicissitudini extramusicali che non attengono a quello che è stato il racconto del concerto.
Testo e foto di Ljubo Ungherelli. Leggi e scarica in free download tutta la produzione letteraria di Ljubo cliccando qui.



Nessun commento:

Posta un commento