sabato 1 settembre 2018

"ED È UN PO' COME ESSERE FELICI" // MOTTA LIVE AL BEAT FESTIVAL DI EMPOLI IL 25.08.2018 - TESTO E FOTO DI ELEONORA MARRAS


Osservando la copertina di “Vivere o morire” il volto di un inquieto Motta, più per genetica che non contingenza, si affaccia dal buio, allo stesso modo egli “ci inizia” al suo live e al suo disco attraverso una intro esclusivamente strumentale che ha tutta l’aria di dirci “mettetevi comodi” ora “vi parlo di me”. Ed è lo stesso Motta ad accomodarsi sul palco, dapprima in visibile imbarazzo lo solca in grandi traversate, perché “la musica è troppo forte non si riesce a parlare”, poi si accomoda nei suoi testi e nei suoi panni.


Se l’imbarazzo si schiude l’emozione no, Motta “si toglie i vestiti davanti a tutto quello che è diventato” e ci racconta con precisione chirurgica e minimalismo dei testi, il travaglio esistenziale di un’intera generazione che come lui è nata e cresciuta in provincia. C’è l’amore, il superamento dell’amore con “chissà dove sarai” e l’approdo a nuove consapevolezze: la maturità emozionale e quella musicale entrambe giunte dopo aver sperimentato: “non riesco mai a stare con una donna sola” e “ho cambiato casa cento volte, ce ne fosse una che mi ha fatto venire voglia di restare”.


Adesso che “ci pensi un po’”, “è arrivata l’ora di restare” e sul palco così come tra il pubblico, l’aria si fa densa di sentimento e l’atmosfera più intima. Seicento differenti battaglie, seicento voci diverse si stringono nell’unicum di “abbiamo vinto un’altra guerra” e la strada per il commovente finale è già segnata. Chiude “mi parli di te” che Francesco rivolge direttamente al padre tra il pubblico, riuscendo a esprimere ciò che ognuno di noi ha sempre desiderato dire al proprio vecchio vicinissimo, come in questo caso, o lontano. “Ed è un po’ come essere felici”.


Le lacrime rompono le voci, il gruppo dei musicisti si stringe intorno a quel ragazzo che con parole essenziali, raffinatezza e una dose d’incoscienza, ha saputo volgere in musica l’ordinaria vita di molti.


Testo e foto di Eleonora Marras



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