giovedì 25 febbraio 2016

ULTIMO TOUR SULLA LUNA // CAPITOLO 4: NELLA BOLGIA DEI NUOVI IDOLI ADOLESCENZIALI - UN ROMANZO DI LJUBO UNGHERELLI


Ecco "Nella bolgia dei nuovi idoli adolescenziali", il quarto capitolo di "Ultimo tour sulla Luna", il libro di Ljubo Ungherelli pubblicato ogni giovedì in esclusiva sul blog di Riserva Indie. Guy e Vicni continuano il loro tour e si apprestano a salire sul palco dopo l'opening act degli Agnelli Tonnati. Vi ricordo che potete leggere i capitoli già pubblicati cliccando qui.


Capitolo 4
Nella bolgia dei nuovi idoli adolescenziali

“Hanno finito, grazie al cielo in terra.”
Il sollievo di Vicni era comunque distratto dalla contemplazione compulsiva dello smartphone.
“Duecentododici partecipanti confermati”, mormorò scorrendo la pagina dell’evento su Facebook. “Quanta gente ci sarà stata in sala mentre suonavano gli Agnelli Tonnati? Una sessantina?”
“Più o meno”, concordò Guy. “E una ventina fuori a fumare. E quelli che devono ancora arrivare. E quelli che arriveranno dopo che avremo finito.”
Si erano rintanati in camerino dopo aver seguito metà abbondante del concerto degli Agnelli Tonnati. Il Sandy’s non era enorme, cosicché il colpo d’occhio era lusinghiero anche con un’affluenza non da tutto esaurito.
Ulvezio, come prevedibile, si era esibito con la medesima camicia che aveva a inizio serata. Solo gli occhiali erano spariti. Per il resto, cercava di gigioneggiare tra un brano e l’altro, raccontando storielle sconnesse dalle canzoni che precedevano e seguivano i suoi monologhi. L’esecuzione di tutta la band, invece, era piuttosto formale e didascalica.
Il problema degli Agnelli Tonnati era l’esasperato adeguamento ai dogmi dell’indie tricolore: suonavano, cantavano e somigliavano ad altri triliardi di gruppi e, cosa peggiore, non avevano nulla che li facesse spiccare. Facevano bene il loro compitino, intrattenevano il pubblico e fine.


2 Dualità, paradossalmente, soffrivano del problema opposto. La loro miscela d’influenze era fin troppo eclettica, tanto che il management spingeva perché definissero il sound in una direzione meglio delineata. E tale direzione avrebbe preferibilmente dovuto esser più confacente agli ascolti basilari del pubblico indie.
Partendo dal garage rock’n’roll più essenziale, Guy e Vicni avevano iniziato ad arricchire le composizioni con uno spruzzo di folk danzereccio che tanto andava nelle feste universitarie, rivestito da una patina electro, grazie alle tastierine synth lo-fi e ai campioni che Vicni manovrava unitamente alle bacchette della batteria.
A decretare la loro maggior fortuna, tuttavia, era stato senz’altro l’innesto di furbeschi ritornelli melodici, retaggio della migliore o peggiore tradizione del pop italiano da classifica. Guy si divertiva un sacco a scrivere in quel modo, gli riusciva facile e non aveva remore nell’esplorare un mondo che né lui né nessuno nella sua famiglia o nel suo giro aveva mai apprezzato più di tanto.
Non a caso, le recensioni si focalizzavano su quell’aspetto: due righe sulle sonorità sgangherate e vagamente vintage, sugli intrecci di voci maschile e femminile, quindi partiva il florilegio sul potenziale “da classifica” di alcuni pezzi, uno su tutti “Quasi uguali quasi diversi”, che aveva beneficiato di svariati passaggi radiofonici e figurava in qualche dj set alternativo.
Spesso veniva adombrato il ragionamento secondo cui, con i debiti aggiustamenti e una produzione di un certo tipo, 2 Dualità avrebbero potuto lanciarsi a capofitto nella bolgia dei nuovi idoli adolescenziali che si davano il cambio ogni tot mesi. Quella strada, in Italia, passava soprattutto per i talent show. Ne avevano discusso, non escludendo nulla. La barzelletta dell’indie italiano era proprio l’essere underground per necessità e non per convinzione, pronti a tutto per saltare sul carrozzone qualora ve ne fosse l’opportunità.
Il riflusso che dai tardi Ottanta alla prima metà dei Novanta aveva condotto alla situazione degli anni Dieci del nuovo millennio era impressionante: in Italia, il sottobosco musicale era dominato da gente che suonava tale e quale a chi stava nel mainstream. Quasi nessuno si azzardava a proporre sonorità meno standard, e chi lo faceva, era bacchettato come anacronistico e bisognoso di un rapido svecchiamento per destare l’interesse del pubblico. Gli unici in grado di sopravvivere erano i nomi già affermati da anni, il cui status gli consentiva di campare di rendita delle glorie passate. Se viceversa mettevi su una band nel 2016, o facevi indie o cantautorato o avevi le gambe segate.
“Per sempre! O finché dura!”, esclamò Guy. Erano pronti a salire sul palco. Già da qualche ora vi avevano apposto il loro fondale, un drappo nero col nome del gruppo scritto in caratteri dorati. Alle estremità stavano le teste di due gatti, ciascuno di profilo rivolto verso l’interno, con le fauci spalancate, come fossero in procinto di papparsi 2 Dualità in un sol boccone.


Proseguendo nel rituale, porse entrambe le mani a Vicni, che gliele strinse, quindi ne lasciò libera una. Mano nella mano, senza quasi rendersene conto si ritrovarono di fronte al pubblico.
“Ehi!”, esordì Guy a mo’ di prova microfono. Quindi imbracciò la chitarra e senza ulteriori cerimonie si girò verso Vicni e attese che lei battesse il tempo con i quattro canonici colpi di bacchetta.
La lunga permanenza in camerino gli era servita anche per cambiarsi e indossare i vestiti di scena. Guy si era portato dietro una camicia diversa per ognuno dei sette concerti. Al Sandy’s di Genova ne sfoggiò una di seta rossa, con solo il bottone più in basso attaccato, di modo da scoprire il torace rifinito e bianco. A ventitré anni era glabro come un dodicenne. Il suo look da uomo vissuto intrappolato nel corpo di un ragazzino piaceva alle ragazze, e la sua posizione di frontman lo avrebbe senz’altro agevolato in tal senso.
In testa aveva un improbabile cappello da cowboy, calato stretto sulla fronte temendo gli cadesse mentre suonava. Sotto, pantaloni neri di pelle attillati. Ne aveva visti portare di simili a Jon Spencer e Courtney Love.
Vicni, che sedeva alla sua sinistra, per il debutto aveva optato per uno dei tre look che avrebbe alternato durante il tour. Nient’altro che una corta sottoveste nera; spalle, gambe e decolleté erano ben in vista. Le scarpe col tacco non erano il massimo per suonare la batteria, ma ormai c’era abituata. Il trucco era abbastanza ordinario, nero intorno agli occhi e rosso fuoco sulle labbra.
Suonarono tre pezzi senza soluzione di continuità, quindi fecero una pausa. Guy si tolse il cappello, facendo al contempo un inchino al pubblico che li stava applaudendo, quindi si rassettò i capelli con la mano. Vicni si alzò dal suo sgabello e lanciò degli sguardi conturbanti in direzione delle prime file, che pure si tenevano a distanza di tre–quattro metri dal palco.
Riattaccarono con intensità ancora superiore. Avevano impostato la scaletta di modo che i cinquanta minuti di concerto fossero un ottovolante di ritmi e atmosfere. Con i primi due brani erano andati in crescendo, pigiando sul lato più rock’n’roll, per poi piazzare un ballabile elettronico e, a seguire, un episodio più smaccatamente pop e una disorganica ballata lo-fi, “Asma cardiaca”, dove la vocina squillante di Vicni si elevava a cantante principale, mentre il comparto strumentale era costituito da ukulele, tastiera e un quasi impercettibile loop di batteria elettronica.
Come ovvia logica commerciale, avevano proposto canzoni per lo più da “Due di coppia”, concedendo meno spazio al disco d’esordio.
I presenti avevano applaudito, con compostezza, restandosene per lo più fermi, a parte chi andava e veniva da bar e/o area fumatori. Ordinaria amministrazione in situazioni del genere.
 “Quasi uguali quasi diversi” era posizionata al terzultimo posto, una sorta di chiusura del set regolare prima dell’uscita e del ritorno per il bis. Guy aveva prolungato la coda strumentale in stile anni Settanta. Vicni l’aveva seguito in quella sorta di jam, fino al dissonante feedback conclusivo. A quel punto, anziché salutare e tornare dietro le quinte, 2 Dualità avevano proseguito con ciò che restava della scaletta.
“Continua”, una ballata piano e voce che mostrava il lato più romantico del Guy compositore, era sfumata nei power chord del pezzo che portava il loro nome. Vicni doveva frettolosamente suonare le ultime note di “Continua” e rimettersi in posizione per quell’ultima, poderosa cavalcata. “2 Dualità” rappresentava l’impeto del progetto agli esordi, la rabbia quasi violenta per demarcare le differenze col loro gruppo indie folk. Eppure, già in quell’embrione deflagrava la sagacia di Guy nell’inzuppare un brano punk in una melodia cristallina.
Con Vicni di nuovo in piedi, sexy e ammiccante, e Guy che sorrideva con candore, tenendo la chitarra dritta parallela al corpo, 2 Dualità incassarono l’ultimo applauso. Ogni volta la botta d’adrenalina era micidiale. Rincularono nel camerino barcollando, accaldati e stanchi. Si scambiarono uno sguardo d’intesa, soddisfatti e pronti a ciò che rimaneva della serata.
Il tempo di darsi una rinfrescata, che uscirono per allestire il banchetto del merchandising e incontrare i fan. Al solito, fu Guy ad andare in avanscoperta, mentre Vicni si attardava sempre qualche minuto in più nel backstage.
Lo raggiunse nell’anticamera del Sandy’s dove, con una buona illuminazione e il dj set ovattato, birra alla mano, era già dietro al tavolino imbandito con dischi, magliette, spille, adesivi e scatolette di cibo per gatti.
Prima di lei, però, si precipitò un ragazzo ad approcciarlo.
“Grande Gài, complimenti!”, gli disse il tipo, porgendogli la mano.
Ghì”, replicò compostamente, ricambiando la stretta di mano, “alla francese, come Guy Pardies, hai presente?”
“Gerard Guypardies”, chiosò Vicni, incombendo alle spalle del fan con quel calembour privo di senso.
“Eh?”, fece quello, girandosi in direzione della ragazza.
“Poppa”, poté leggere lei sulle labbra di Guy. Sorrise, e il tipo, ignaro di tutto, credette forse fosse rivolto a lui.
“Seratona!”, riprese Guy con entusiasmo, catturando di nuovo l’attenzione del ragazzo, “e come si suol dire, è solo l’inizio! Dimmi un po’, sei di Genova o arrivi da fuori?”



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