TRE RACCONTI A 33 GIRI
Come un Flaubert trascinato di peso nell’iconografia
rock’n’roll. Tre racconti ispirati ai testi di altrettanti LP, ciascuno
filologicamente suddiviso in lato A e lato B.
3. ALICE IN CHAINS “DIRT” (1992)
LATO B: “DIRT” “GOD SMACK” “IRON GLAND” “HATE TO FEEL”
“ANGRY CHAIR” “DOWN IN A HOLE” “WOULD?”
Non
mi ero mai sentito così frustrato e privo d’autocontrollo. La droga mi stava
uccidendo e scavava sempre più a fondo, fino a togliermi la voglia di
continuare a vivere.
Era
come sentire in bocca e sulla lingua il sapore schifoso di una lurida pistola
appuntita. Mi stava sfuggendo di mano. Ciò che un tempo era la mia linfa vitale,
adesso mi raschiava via dai muri, facendomi uscire di senno.
Era
un’esperienza così speciale da ridurmi a un cumulo d’immondizia. Inutilmente
avevo cercato di nascondermi da ciò che era sbagliato per me.
Spesso
bastava una pagliuzza per spezzarmi la schiena. Nessuno era cieco. Tutti
vedevano come mi stavo annientando. Tutti conoscevano le mie bugie. Eppure non
smettevo. Un buco nel braccio corrispondeva immediatamente a un gran
divertimento.
Dopo
di che, riprendevo a struggermi, girando e rigirando il coltello nella piaga.
Conoscevo bene la ragione per cui in molti non erano in grado di spingersi
tanto in là: era la paura di morire, nient’altro. La mia dipendenza pesava una
tonnellata, e me la trascinavo appresso in ogni istante.
Ahahah!
Quand’ero su di giri, l’angoscia svaniva. Avrei potuto avere un glande di
ferro! Ahahah! Fiumi di sangue, scritte rovesciate sui muri…
Che
cosa esattamente era andato storto? Non ci vedevo più bene, l’avevo tirata
troppo per le lunghe e mi ritrovavo pieno d’odio. Di che cazzo avevo bisogno?
Affogarmi appena sveglio? O riguardarmi per l’ennesima volta “Quello strano
cane… di papà”? Ovviamente in preda alle mie alterazioni, cosicché il cane
arrivava a strattonarmi per la gamba. Un uomo di plastica con la faccia di
carta e il cuore a caramella. Che spreco. Aiuto!
Quell’essere
allucinatorio mi fissava con occhi vacui e mi puntava addosso le sue parole di
biasimo: “Lo specchio appeso al muro ti mostrerà ciò che hai paura di vedere!”
Ma
io vedevo e sentivo tutto, anche se avrei desiderato non vedere né sentire
nulla. Odiavo vedere. Odiavo sentire.
Mi
arrampicavo sui muri, col sangue in circolo sempre più rarefatto, fino a
strisciare nuovamente nel letto. Avevo bisogno assoluto di riposare per lenire
almeno in minima parte il dolore lancinante al petto.
La
mia medicina era un puntaspilli, e faceva più danni che altro. Il mio unico
sostentamento era la merda che mi sparavo in corpo.
In
tutto questo tempo, avevo spergiurato che non sarei mai diventato tale e quale
a mio padre. E dannazione era giunto il momento di affrontare esattamente ciò
che ero. Un reietto che non aveva più alcun modo di indirizzare diversamente la
propria esistenza. Proprio come lui.
Seduto
su una sedia in fiamme, mentre i muri prosciugavano l’ossigeno nella mia
stanza, lo stomaco mi doleva e non m’importava più nulla di ciò che accadeva
giù in strada. Vedevo la mia immagine modellata nell’argilla, col mio volto che
cambiava continuamente forma, assumendo fattezze ogni volta più spaventevoli. Inoltre,
scorgevo ombre danzare dappertutto, evocate dalle due candele rosse che avevo
acceso.
Non
mi preoccupavo più di nulla. Avevo perso la testa, e non mi preoccupavo nemmeno
di ciò. Non riuscivo più a ritrovarla da nessuna parte, e non me ne
preoccupavo. La solitudine non era più una fase momentanea. Andavo al pascolo
in un campo di dolore da cui la tranquillità si teneva alla larga.
Avrei
voluto essere sepolto dolcemente nel tuo grembo. Avevo sacrificato una parte di
me per starti accanto, ma ero finito da solo, seduto in una tomba, con fiori
esotici in pugno, senza sapere se avrei potuto salvarmi, mentre dal cielo
pioveva sabbia.
Quando
era finita, avevo decorato il mio cuore come una lapide mortuaria. Ero un uomo che
non si sarebbe mai più lasciato andare.
La
mia colpa più grande era stata darmi troppo spesso la zappa sui piedi, e questo
aveva finito per convincere anche te che non valeva la pena continuare. In ogni
caso, non avrei mai più parlato apertamente dei miei sentimenti più reconditi.
Giù
nella fossa mi sentivo così solo, mentre avrei tanto voluto essere dentro di
te. Anche la mia anima se ne stava andando, e tutto era fuori controllo. Mi
sarebbe piaciuto spiccare il volo e librarmi infine in aria, ma le ali mi erano
state brutalmente tarpate.
Mi
ritrovavo per l’ennesima volta nell’occhio del ciclone. Lo stesso vecchio
viaggio intrapreso un tempo. Avevo commesso un grave sbaglio, cercando di conoscere
almeno una volta il mio tragitto.
Ero
un corpo alla deriva abbandonato a sé stesso. Avevo torto a essermi allontanato
troppo, così da non poter più tornare a casa? Forse ero stato io ad andarmene e
lasciarti? Non so. Ma se un giorno di nuovo io volessi, tu potresti?
Testo di Ljubo Ungherelli
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