TRE RACCONTI A 33 GIRI
Come un Flaubert trascinato di peso nell’iconografia rock’n’roll. Tre racconti ispirati ai testi di altrettanti LP, ciascuno filologicamente suddiviso in lato A e lato B.
1. THERAPY? – TROUBLEGUM (1994)
LATO B: “TRIGGER INSIDE” “LUNACY BOOTH” “ISOLATION” “TURN” “FEMTEX” “UNREQUITED” “BRAINSAW” “YOU ARE MY SUNSHINE”
Uscii di casa. Ero impacciato come quand’ero ragazzino e facevo piani per la mia vita infelice senza la benché minima traccia di autostima. Vidi arrivare una ragazza bellissima. Camminava sul mio stesso marciapiede, con passo sicuro mentre io arrancavo come il relitto che ero. Aveva un sorriso smagliante, ma non lo avrebbe mai rivolto a me. Mi passò accanto senza degnarmi di uno sguardo. Sapevo bene come doveva sentirsi Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee. Solo. Eppure ero troppo debole per reinventarmi serial killer. Avevo davvero dentro di me un grilletto pronto ad esser tirato, ma mi tremavano le mani e avevo la testa in subbuglio. Avevo l’impressione d’essere stato fregato per l’ennesima volta. Mi rintanai nuovamente nel mio appartamento vicino alla zona industriale di una città industriale. Anni segnati da lavoretti del cazzo in fabbriche dell’entroterra e dal tasso alcolico mostruosamente alto nel sangue. Ci detti sotto con la scorta di birra che avevo in frigo. In quello stato di semi incoscienza, mi apparve un Cristo farlocco, peggio della pornografia da quattro soldi che certi canali tv rivogavano a tarda ora. “Redimiti dai tuoi peccati”, arringò dal suo pulpito di ottone, “ti prometto un comodo inferno che ti purificherà da tutte le tue colpe!” “Preferisco aspettare l’arrivo del signore”, farfugliai in modo un po’ confuso. In effetti, ce l’avevo davanti, per quanto mi rendessi conto della sua mendacia. Alla fine, non trovai di meglio che autocommiserarmi al suo cospetto. “Perlomeno sono contento che lo specchio si sia frantumato la settimana scorsa. La mia immagine riflessa stava diventando un fardello insostenibile.” “Tu sei tale e quale a me!”, iniziò a ripetermi. Un mantra alquanto minaccioso, pur nelle condizioni di degrado in cui versavo. La sua faccia, peraltro, nemmeno riuscivo a scorgerla con precisione. Meglio così, forse. Dissolta quell’immagine, mi ritrovai di nuovo da solo con i miei patemi quotidiani. Senza troppo pensarci, presi carta e penna. Scrissi le prime righe di una lettera a mia madre. Cercavo quanto possibile di evitare i contatti con lei e col babbo. Non mi faceva sentire a mio agio mostrare loro ciò che ero. “Mamma, ci ho provato in ogni modo, credimi, ho fatto del mio meglio e sinceramente mi vergogno di tutto quel che ho combinato e della persona che sono diventato…” Non riuscii a proseguire, a tirar fuori lo sconforto che mi martellava il petto. Vivevo in una sorta di isolamento, materiale e spirituale. A volte era un rifugio, più spesso una prigione. Era ormai calata la notte ed ero in casa, perfettamente sveglio. Percepivo qualcuno o qualcosa pronti ad avventarsi su di me per punirmi. Perché era possibile dimenticare, ma era impossibile perdonare. E sarebbero venuti, smascherandomi se tentavo di imbrogliarli oscurando il bagliore nei miei occhi e abbassando lo sguardo. Ogniqualvolta mi voltavo, si trattava di affrontare l’ignoto, e non riuscivo a sopportarlo. Nella peggiore delle ipotesi, andavo a sbattere contro la presenza di dio. Ma erano anche altri pensieri, ben più terreni, ad agitarmi e togliermi il sonno.
Da ragazzo, la masturbazione mi aveva salvato la vita. Non l’aveva resa granché migliore, ma almeno aveva rappresentato una valvola di sfogo per i miei continui fallimenti. In seguito, le cose erano talvolta andate un po’ meglio, nemmeno più di tanto in verità. “Per ora sto semplicemente con te, il che non significa nella maniera più assoluta che io sia solo tua”, aveva messo in chiaro l’ultima donna con cui avevo avuto una relazione. Una relazione che avevo più che altro subito, venendo prosciugato delle mie forze a suo tornaconto, in un certo senso punito dall’amore e premiato tramite l’odio. Per il resto, tutto ciò che avevo dato non era stato corrisposto. Avrei voluto finalmente addormentarmi, senza che nessuno mi svegliasse. Mi sentivo vuoto. Cercai tra i miei rimedi più efficaci per annientare i cattivi pensieri. L’inferno era una visione sempre più ricorrente, come una sega circolare che agiva senza sosta nel mio cervello. Mi ci trovavo da solo, tradito e abbandonato da tutti. Persino da Giuda, che aveva garantito d’essere mio amico e che sarebbe rimasto al mio fianco. Invece se n’era andato pure lui, per giunta ridendosela alla grande mentre mi voltava le spalle, dopo che mi ero bevuto tutte le sue cazzate. Non ero più in grado di discernere la realtà dall’allucinazione. Beffardamente, gli ultimi sprazzi di quel delirio provenivano da un vecchio grammofono che non avevo mai avuto in casa. Una canzone dell’inizio del secolo scorso gracchiava da un invisibile diffusore. “…cara, non saprai mai quanto ti amo, perciò non portarmi via la luce del sole…” La puntina s’era incantata, irradiando senza sosta quella romantica frase. Era quasi l’alba. Chiusi gli occhi.
Testo di Ljubo Ungherelli
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