E' uscito per Effequ il nuovo libro di Gabriele Merlini. "No music on Weekends" racconta la new wave e gli eroi della colonna sonora di una vita. Qui sotto la nostra intervista con l'autore a cura di Maurizio Castagna.
Ciao Gabriele e grazie per la tua disponibilità. Partiamo da "No music on Weekends", uscito recentemente per Effequ. Il libro è un saggio sulla new wave e i suoi protagonisti inclusi in una narrazione con molti elementi di autobiografia. Il sottotitolo "storia di parte", credo identifichi l'intento di voler dare la tua propria versione dei fatti e non solo snocciolare band e dischi. Come hai strutturato il libro?
Ciao e grazie a voi. Sì, il sottotitolo vuole indicare l'aspetto che hai colto. La parzialità è dettata da molti fattori, su tutti quello strutturale: un impianto saggistico con ampie dosi di fiction. Del resto mi occupo di un genere musicale specifico e di tempi circoscritti partendo ogni volta dal mio personale punto di vista, mescolando fatti reali a digressioni letterarie, interviste sbobinate chirurgicamente e dialoghi con personaggi immaginari. La new wave è stata un'abile mescolanza di stili e contaminazioni e ci tenevo che un testo pensato per omaggiarla fosse altrettanto eterogeneo. Mi auguro di esserci riuscito in modo decoroso.
Il tuo viaggio nella new wave parte dall'Italia, e da Bologna in particolare, per poi spostarsi a Firenze, Milano, Pordenone, Roma. C'erano differenze tra le varie scene? Questo movimento arrivò solo marginalmente al sud?
Beh, iniziare dalla Bologna del 1977 è stato funzionale per descrivere due ambiti con i quali la nascente wave ha avuto stretti rapporti. Uno di filiazione più o meno diretta, l'altro di contrapposizione: la preesistente scena punk cittadina e la radicata tradizione cantautoriale del capoluogo emiliano. Bologna e l'atmosfera politicizzata dell'università, tra occupazioni e scontri di piazza, per aprire a Firenze, agli Ottanta dell'edonismo, delle vetrine, della porosità tra musica e teatro e moda che nella mia città si è ben strutturato creando una curiosa mitologia interna. Facce connesse ma differenti della stessa medaglia. Quindi Pordenone e il Great Complotto – esempio meritevole di piccolo centro capace di creare una scena duratura e riconoscibile – e le metropoli: Milano poi Roma, portatrici di nature imparagonabili e meritevoli di approfondimento. Sul sud non parlerei di marginalità. Napoli per esempio ha espresso molto nel mio specifico e mi è dispiaciuto, per ragioni di spazio e scadenze, non approfondire meglio. Spero ci sarà opportunità nel futuro di studiarne le ramificazioni.
In Italia il fenomeno si sviluppa in un contesto fortemente politicizzato. E' stata la new wave la reazione di chi era stufo di essere schiavo del testo, e di un certo cantautorato fortemente impegnato, a spese della musica?
La sbandierata rottura con la tradizione è stato un refrain piuttosto in voga tra i musicisti del periodo, ed è indubbio quanto ciò che definiamo new wave abbia offerto una gamma di suoni tendenzialmente più ampia rispetto alla canzone d'autore che – anche qui, per la maggior parte ma con valevoli eccezioni – traeva la propria forza dalla linearità nella esecuzione lasciando al testo il ruolo di perno centrale. Ma forse non accadde solo per riconsegnare alla musica la predominanza sulle liriche; tendo a vederlo come qualcosa figlio di un tempo propenso alla esplorazione sonora, giorni in cui veniva sdoganato il sarcasmo come risposta a decadi di impegno ritenuto troppo sterile. Roba che necessita coraggio, e per farsi coraggio ogni tanto va pugnalato il padre anche se ovviamente lo amiamo.
Tu non hai vissuto direttamente lo sviluppo della new wave in Italia per ovvie ragioni anagrafiche. Come ti sei avvicinato a questo genere e qual è stato il momento esatto, concerto, testo, ascolto, che ti ha fatto innamorare di questa musica?
Più che un concerto o amore per questo tipo di sonorità, per me troppo vaste per essere raccolte in una definizione di singolo genere, la scelta di scrivere del periodo ha ragioni anagrafiche, anche se non di fruizione diretta. Volevo collegare il tema musicale al tema del ricordo, della metabolizzazione del vissuto ed essendo nato nel 1978 ho fotogrammi in testa legati agli interessantissimi – specie per un bambino – albori degli Ottanta: tizi vestiti di nero, strambe creste e concerti capaci di rapire per intero la mia città. Inoltre a metà anni Zero vendevo dischi in un negozio del centro fiorentino e ricordo l'interesse che provavo per il revival in voga di roba tipo synth e atmosfere dark. Diciamo è stata una curiosa congiunzione astrale di coincidenze.
La new wave è anche immagine e feticcio. Secondo te in un contesto come quello di oggi, con negozi di dischi ormai quasi solo virtuali, programmi musicali di qualità praticamente assenti in tv, le radio che hanno perso la capacità di proporre novità, e club più attenti ai dj set che al concerto, potrebbe svilupparsi una scena come quella che hai descritto in "No music on weekends"?
Le forme aggregative sono cambiate al pari nelle necessità. Scene sovrapponibili e paragonabili non penso siano possibili ma immagino sia un bene. Confido in evoluzioni autonome con simili elementi portanti: apertura, desiderio di sperimentare, scazzo intellettualmente godibile, voglia di essere dissacranti usando il cervello. La TV ha perso importanza sotto ogni punto di vista e oggi mi lagno meno dell'assenza di programmi musicali di spessore. Devo però ammettere che la reclusione mi ha fatto scoprire spazi online eccellenti per la diffusione di nuovo materiale e ne sono rimasto piacevolmente stupito. Tipico di chi sta invecchiando, temo.
Nel libro il viaggio si sposta poi all'estero e in particolare Usa, Canada e Gran Bretagna. In che modo si sono sviluppate le scene in quelle nazioni? Anche da loro è stata fondamentale la componente politica nei contenuti?
Assolutamente fondamentale. Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno dato un contributo unico alla musica coeva nei rispettivi paesi, sviluppata principalmente per spirito antagonista e ricerca esasperata di arte come antidoto a una socialità recepita troppo materialistica: Smiths, le controculture newyorkesi, Manchester e la Factory. Il fatto che presumibilmente sia Reagan sia la Thatcher non lo volessero minimamente rende la faccenda ancora più spassosa. Un contrappasso crudele ma giusto.
«Nel 1977 piove in continuazione, ma non è dato sapere se la faccenda sia collegata con l’uscita di Marquee Moon dei Television, Suicide dei Sucide e 1977 dei Talking Heads». La new wave è anche un po' figlia di pomeriggi piovosi, termometri sottozero e di un clima meteorologico che oggi è, forse irrimediabilmente, cambiato?
Specie il versante nordamericano, con particolare attenzione alla No Wave, l'ho sempre percepito strutturalmente meteorologico, connesso al clima: la scena industriale di Detroit chiama cieli plumbei, al pari del nervosismo agitato della New York dei Talking Heads. Siberia dei Diaframma, per l'Italia, è esemplificativo in quanto a sentimenti evocativi. Manca ancora un filone compositivo per il cambiamento climatico in corso di svolgimento, tolto qualche noiosa elegia di band famosissime. Diamoci tempo.
Ci sono eroi "nascosti" nella new wave? Artisti o band sia in Italia sia all'estero che secondo te non hanno avuto la fortuna che avrebbero meritato?
Moltissimi. Tendo a essere un tizio confusionario – so che non è il massimo se esci con un testo di saggistica – ma in questo caso ho voluto darmi parametri netti per la scelta delle band trattate: musicalmente ineccepibili e dal successo minore di quanto avrebbero meritato. In musica, dal 1979 al 1985, ho scovato una valanga di artisti degni di riscontri maggiori. L'intero capitolo inglese nel libro è dedicato a loro. Sono comunque convinto che la maggior parte di questi complessi sia stato benissimo nella nicchia che si è ritagliata. Non vedo troppo rimpianto in giro.
Anche in ragione delle ultime performance, sia su palchi prestigiosi (Sanremo) sia online (Facebook), come è invecchiata la new wave?
Quando affermiamo che la musica è uno specchio fedele di tutti gli ambiti della vita tendiamo a generalizzare. Ma ammetto in questo caso ci sia una base di verità: come per qualsiasi settore, alcuni musicisti sono stati capaci di reinventarsi e proseguire le proprie carriere splendidamente, altri a parere mio devastando il ricordo di quanto di buono hanno combinato agli albori. Sui nomi sorvolo per non trovarmi domani al portone eccellenti strumentisti imbufaliti, armati di forcone.
Il titolo del tuo libro è perfetto anche per descrivere questo periodo in cui non possono esserci concerti e non solo nei fine settimana. A livello musicale cosa dobbiamo aspettarci da un periodo come questo? La musica può fare a meno di un palco?
Un certo tipo di musica, penso a quanto definiamo rock, magari prescinde male da un palco. Altre incarnazioni – le variazioni elettroniche ma non solo – in teoria possono reinventarsi più agilmente, ma resta un azzardo e una eventualità cui nemmeno voglio pensare. Si tratta di una fase transitoria, non ne dubito. Sulla quarantena imposta, ripeto quanto sopra: è per me un momento di scoperte e ricerca. Almeno nel mio giro non sono l'unico. Fosse così per tutti non potremo parlare di tempo perso. Me lo auguro. Inoltre riportano di un grande incremento del tempo speso a cucinare: ottimo. Spadelliamo scoprendo le cose buone che stanno uscendo. Ci sono album eccellenti.
Grazie ancora Gabriele per la tua attenzione e prima di salutarci la classica domanda di fine intervista. Come possiamo interagire con te e dove si può acquistare il tuo libro?
Grazie a voi. I metodi per interagire con me sono classici – Facebook, Twitter e Instagram – oppure attraverso Effequ, la casa editrice del libro. Spero finita l'emergenza di riprendere il calendario di presentazioni nazionali già programmato. No Music On Weekends è distribuito in tutte le librerie italiane, nel sito Effequ e nei principali shop online. Non vedo l'ora di tornare a portarlo a spasso.
Gabriele Merlini (Firenze, 1978) è giornalista musicale e culturale, nonché redattore della rivista L’Indiscreto. Con Effequ ha pubblicato il romanzo Válecky o guida sentimentale alla mitteleuropa (menzione scrittore emergente al Premio Letterario Vallombrosa 2014 – cinquina migliore testo di narrativa Premio Dedalus/Pordenonelegge 2014) e curato le antologie Selezione Naturale e Odi. Quindici declinazioni di un sentimento. Suoi racconti, interviste e reportage sono apparsi su magazine e quotidiani tra i quali «Nazione Indiana», «minima et moralia», «Le Parole e le Cose», «Corriere Fiorentino», «404: File Not Found», «Scrittori Precari», «Riot Van».
Leggo una sicumera che somiglia tanto a spocchia da parte di un ragazzino che parla per sentito dire, non foss'altro perché durante quei magici giorni era giusto un infante
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