mercoledì 22 gennaio 2014

C'ERA UNA VOLTA LA RADIO (LIBERA MA LIBERA VERAMENTE) // INDIETORIALE A CURA DI MAURIZIO CASTAGNA



Una rilettura, l'ennesima, della famosa canzone dei Buggles "Video killed the radio star" è assolutamente necessaria perché se è vero che negli anni 80-90 fu la "Tv a uccidere la star della radio" e a segnare una rivoluzione epocale nella fruizione della musica (un approccio maggiormente "etico" veniva sostituito da un approccio fondamentalmente e tragicamente "estetico"), durante gli anni "zero" è stata la radio a demolire e distruggere quel poco che era sopravvissuto allo stritolamento del tubo catodico con un'operazione degna del Tafazzi dei tempi migliori. Intendiamoci, nei più o meno favolosi anni zero sono mancati principalmente i soldi che mamma Rai e derivati si sono spartiti con leggi e leggine ad hoc che hanno lasciato le briciole a chi stava fuori dal mercato televisivo, nel frattempo passato da 20 a 600 canali, per contare solo quelli della tv in salotto. La torta pubblicitaria se la "pappano" quasi tutta la tv e "la rete" , anche perché un prodotto lo compri più con gli occhi che sentendone parlare, ma relegare la sparizione fisica di molta dell'offerta radiofonica, soprattutto locale, solo a una questione economica vuol dire affrontare una parte del problema che invece merita un'analisi più ampia. La verità (che come diceva la Caselli "fa male e lo sai") è che la qualità media delle emittenti radiofoniche in Italia è crollata in maniera incredibile, spesso inaccettabile, scendendo a livelli bassissimi, e parlo soprattutto di qualità di proposta musicale, provocando ulteriori cali di ascolti (soprattutto in chi non poteva avere ai propri microfoni Fiorello o Zoo e derivati), con conseguente calo di entrate derivanti dalla "reclame", e l'inevitabile chiusura di molte stazioni in cui valeva il teorema che "con la pubblicità nei programmi leggeri si mantiene anche la programmazione serie". Oggi la qualità la offrono, e sovente la chiedono, in pochi e inevitabile diventa rifugiarsi nei podcast, spesso di ottima fattura, che però sono cosa diversa. Sono lontani i tempi in cui la radio, spesso identitaria e  "libera, libera veramente", faceva da filtro a tutto quello che proponeva il mercato e imponeva i nomi nelle hit parade, oltre che lanciare mode, tendenze, suoni. Personaggi come John Peel alla BBC o Ernesto De Pascale (Stereonotte, Il popolo del Blues), solo per citare due nomi, non erano intrattenitori cinquantenni con la parlantina e il linguaggio di un ventenne che passa le sue giornate sui social ma appassionati competenti che selezionavano e proponevano solo quello che era davvero di qualità. Potevi farti una discografia e una cultura enorme ascoltandoli e non affollare la mente e la testa col "superfluo" che ingorga l'etere e il web nei giorni nostri. Oggi il panorama radiofonico è diviso principalmente in due categorie: i grossi network, per cui la musica è solo intervallo tra due pause pubblicitarie e che sono finalmente approdati nel loro ambito naturale che è la tv, e certi programmi cosiddetti di "nicchia" (relegati in piccole emittenti locali, webradio o network di seconda fascia) in cui i conduttori, troppo spesso, si vantano di aver scoperto un cantautore "seminale" della scena neozelandese in un'assurda gara tra pari a chi scopre la prossima "big thing" che ricorda comicamente le sfide adolescenziali su chi l'aveva più grosso. Non c'è quasi mai interesse se non quello di "coccolare" il proprio smisurato ego che si misura in like sulla pagina social.


John Peel o Ernesto De Pascale (tanto per ripetermi) erano persone che stavano in mezzo alla musica, e non solo dietro a un microfono, andavano ai concerti, respiravano l'odore del live, il sudore dell'artista, e tu sapevi che un gruppo finiva in una certa playlist non solo perché il cd era arrivato "nelle mani giuste" ma perché certi personaggi garantivano la qualità di una scelta fatta prima "sul campo" che sul divano. Oggi i "direttori artistici" di troppe radio stanno reclusi nei loro appartamentini piccolo borghesi, skippano svogliatamente mp3 anziché ascoltare cd o vinili, e i live che guardano sono quelli su Youtube o le dirette instagram, molto più tranquilli e meno impegnativi di un concerto in qualche club cittadino con qualcuno che suda accanto. E' per questo che  le novità musicali arrivano dalla tv (e si parla di "Amici", "X Factor" e derivati..)o dal web, mentre le radio sono anni che non propongono e impongono un nome che non sia quello di qualcuno uscito da un talent o da tik tok. Ne siamo davvero usciti migliori?

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