martedì 31 gennaio 2012

Off Topic - The Black Keys Live@Alcatraz - Milano 30 Gennaio 2012

I biglietti li ho comprati a Novembre, 5 nanosecondi dopo l'apertura ufficiale delle vendite; ho consumato i loro CD; ho imparato a memoria i testi delle canzoni; ho atteso per mesi che arrivasse questo Lunedì per poterli finalmente vedere dal vivo. Sì, sembravo una quindicenne impazzita. Eppure per Dan Auerbach e Patrick Carney facevo questo ed altro da quando capitò per caso nei miei ascolti "Attack & Release", album del 2008. Fu amore al primo ascolto. Ieri finalmente il Live a Milano. Sono partita con aspettative enormi, e come me anche le altre 2500 persone che affollavano l'Alcatraz di Milano. Non solo perché i Black Keys sono una delle band della scena rock americana che sono cresciute di più negli ultimi anni; personalmente dovevo rifarmi dal deludente concerto dei Wolfmother (Luglio 2011 - Trezzo sull'Adda - MI ndr). 
Puntuali come un orologio svizzero, i Black Keys spaccano il secondo e alle 21:30 salgono sul palco e attaccano a suonare. 


"Howlin' for you" per iniziare. Una bomba sembra esplodere sul palco, e l'onda d'urto travolge tutto quello che incontra. Suoni sporchi e valvolari uniti ad una ritmica che trascina il pubblico: balli, mani che battono a tempo, cori. Un inizio grandioso insomma. A fine brano Patrick, il batterista, si toglie gli occhiali già completamente appannati e si asciuga la fronte. Giusto per farvi capire che la batteria non la accarezza. 



I Black Keys, accompagnati sul palco da un bassista e un organista, continuano la loro scaletta composta di brani dell'ultimo album "El Camino" e brani più datati. Il mix è micidiale, non c'è un attimo di respiro, a parte una bellissima ed intensa "Little Black Submarines" acustica.


E poi si torna a fare sul serio.


Alle 22:30 (anche qui la precisione robotica è impressionante) Dan, presenta la band e annuncia gli ultimi due brani della serata. Si chiude con il singolo "Lonely Boy". 


La band esce, ma oramai si sa come vanno le cose, e i "finti bis" fanno parte dello spettacolo, nessuno accenna ad uscire. Insomma, lo sanno anche i bambini oramai. Pochi minuti e il palco si rianima. 


Gran finale, saluti, e tutti a casa. 23:00 in punto. Mai vista tanta metodica precisione in vita mia. Mai visto neppure finire un concerto a quest'ora. Di solito quella è l'orario di inizio. Non sono una di quelle che ama gli orari "estremi" e le ore snervanti di attesa, però la sensazione era quella di una serata appena iniziata: avevo ancora le forze necessarie per farmi altre 2 ore di concerto. Invece luci accese, i tecnici cominciano poco a poco a smontare le attrezzature e il pubblico si avvia verso l'uscita. 

Un'ora e mezza di musica travolgente, atmosfere fantastiche, non un solo brano che non fosse da cantare a squarciagola e ballare. Ma non un attimo di pausa per assaporare quello che stai vivendo. Niente fuori dalle righe, niente eccessi, poche parole rivolte al pubblico (addirittura il rito del lancio delle bacchette non lo ha fatto il batterista a fine concerto, ma un tecnico a luci accese, quando oramai la band era nei camerini), coinvolgimento sì, ma forse poco trasporto. 
Poco trasporto. Sembra che tra la band e il pubblico ci sia un vetro: noi sotto ad adorarli e loro sopra che suonano perché devono, perché è per quello che sono lì. Ma non si capisce se e quanto sono contenti di farlo.
Questo è il difetto di fondo che spesso noto nei concerti a cui assisto, soprattutto di artisti affermati (alcuni nomi: Muse, PJ Harvey, Wolfmother, Arctic Monkeys): esecuzioni come da CD, professionalità, ma nessun contatto con il pubblico. 

Almeno, questo è quello che sento io. Sarà che sto invecchiando. 

Foto: Stefano Antonucci

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