mercoledì 3 dicembre 2025

UMBERTO MARIA GIARDINI - OLIMPO DIVERSO - RECENSIONE A CURA DI IRIS CONTROLUCE PER #GLORYBOX


Ci sono artisti di grande qualità che hanno una sorta di superpotere: quello di farci sentire a casa appena ci si mette in ascolto dei loro dischi.
Confucio scrisse “La mia casa è piccola ma le sue finestre si aprono su un mondo infinito”.
Mi succede la stessa cosa con Umberto Maria Giardini che in 25 anni di carriera ha mantenuto intatta la sua coerenza artistica e di stile.
Il suo ultimo lavoro, dal titolo “Olimpo diverso”, uscito a novembre 2025 per Tempesta dischi, è un vero e proprio concept album che ha come filo conduttore il tentativo di comprendere i cambiamenti che caratterizzano l’epoca storica che stiamo vivendo. 
Probabilmente si comunica di più, ma lo si fa peggio. Sempre più spesso, l’obiettivo ultimo non è più condividere realmente, ma soltanto ottenere consensi o aumentarne il numero. 
Una situazione grottesca a cui ci siamo (quasi) abituati.



Nella titletrack, le intenzioni del cantautore sono messe subito in chiaro: all’ascoltatore viene richiesta concentrazione, apertura mentale, propensione all’introspezione. Descrive se stesso come un agnostico che non teme di ammettere il declino dei valori della società contemporanea e che alla pietà continua a preferire la realtà.
“Frustapopolo” è una delle canzoni più importanti dell’intero disco. Autodefinita “la mannaia che amputa l’ipocrisia, attraverso la quale attualmente tutto si sviluppa e tutto sopravvive”. Anche qui si vorrebbe porre fine alla falsità, diventata ormai caratteristica dei rapporti umani. L’uomo moderno diventa martire del suo tempo: annichilito e sopraffatto dagli impegni e dalle responsabilità, non trova uno spazio per manifestare le proprie emozioni. E’ un brano di chiaro carattere politico che pone l’accento su quanto il dolore e la sofferenza degli operai d’oggi siano in contrasto con la visione della vita di molti giovani.
In “Energia”, un arpeggio ipnotico ci trascina in un’atmosfera alternative-rock che sa farsi vibrante ed incisiva. Le liriche parlano di un legame sentimentale che si è spento. Non ha più importanza capire chi sia il responsabile dell’epilogo di una relazione: aleggia solo confusione, aggressività e un ambiguo vigore che non si è in grado di gestire.
Non possiamo non citare le struggenti “Vipera blu” e “Paga la vita”, vere perle dell’intera opera. Entrambe rimandano in maniera evidente al progetto Moltheni e sono di una disarmante intensità emotiva. La prima è una malinconica ode all’amore perduto, in cui sarcasmo, cinismo e razionalità danzano liberamente, rivelando che le radici dell’autore sono ben salde e la marcata identità sonora ed artistica che ben conosciamo non è stata intaccata dal trascorrere degli anni (“Peggio per te che non ti importa mai di niente, che ti nutri dell’oscenità di tanta gente. Meriti me, io davvero non direi. Ci incontreremo nella lava laggiù all’inferno. Nel tormento dei tuo io mi vedo anch’io”).
“Paga la vita”, affrontando il tema della routine e della noia, ci lascia sospesi a galleggiare leggeri nelle splendide armonie distese tipiche del buon post-rock intimista (“A malapena la calamita del mondo ci attraeva arrotando i coltelli del tempo”).
Nell’album trovano spazio anche una composizione completamente strumentale, code sperimentali, suggestioni nostalgiche e bellezza poetica decadente (“Pigri ignoranti belli e lontani, come gabbiani avviliti nei propri divani” - Pietre nell’accappatoio).
Olimpo diverso è un disco che parla di amori al capolinea, di rapporti interpersonali e di quanto si siano modificati, nascendo e disperdendosi quasi alla stessa velocità con la quale si tende a fruire di tutto: musica, film, serie TV. La scena musicale è apparentemente sempre più ricca ma in verità è bloccata e condizionata dal rapporto deviato tra music-business e televisione.
Umberto Maria Giardini approda a questa sua ultima uscita discografica con una rinnovata consapevolezza della magnetica forza espressiva della sua cifra stilistica. Sa graffiare senza mai dimenticare l’eleganza e la grazia che da sempre lo contraddistinguono. Per mezzo di liriche schiette ed evocative, la sua scrittura si veste di efficacia persuasiva, sagacia, dubbi, domande e ipotesi di risposte demandate a chi ascolta. L’autore ha recentemente dichiarato di “creare senza conoscere la direzione, di cercare un orizzonte che prima non c’era, fino ad intravederlo”. Mi sono venuti in mente i marinai descritti da De André in “Crêuza de mä”, che rientrando dopo una lunga e faticosa traversata in mare, ritornano non solo a casa, ma anche alla propria essenza. Chissà se anche Umberto Maria Giardini, così come loro, è riuscito riuscito a fare lo stesso e a scorgere prospettive nuove.


Recensione a cura di Iris Controluce


domenica 30 novembre 2025

PAOLO MORESCHI - "DESIDERA"_STORIA DI UNA PASSIONE_ CONCERTO DISEGNATO - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Musica che diventa disegno, in un intreccio che muta e si evolve continuamente sul palco ad ogni esibizione aggiungendo dettagli sempre nuovi. “DESIDERA_Storia di una passione” è il concerto disegnato, portato in scena lo scorso 18 novembre 2025 a Torino, che ha il suo fulcro nell’album “Storia di una passione” del cantautore piemontese Paolo Moreschi. L’esibizione ha visto il coinvolgimento, oltre che dello stesso Moreschi (voce e chitarra), anche di Gianluca Della Torca al basso, storico membro dei Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo e dei Franti MM nonché produttore artistico del disco, della cantautrice rivolese Giulia Bi, di Andrea Mazzari alla voce e dell’illustratore Marco Martz, i cui disegni, realizzati in diretta durante il concerto, sono stati proiettati su uno schermo alle spalle dei musicisti. Stilizzato e intenso, il tratto essenziale di Martz suggerisce anziché limitarsi ad essere didascalico prediligendo la libera interpretazione in base alle emozioni dello spettatore. “DESIDERA_Storia di una passione” ha un’ambientazione storica ben precisa. L’ispirazione nasce dalla relazione sentimentale profondamente carnale tra gli scrittori Henry Miller e Anaïs Nin, raccontata nel libro “Storia di una passione. Lettere 1932-1953”, che raccoglie l’intenso carteggio tra i due amanti. L’ambientazione è la Parigi degli anni 30 del secolo scorso, città vibrante dal punto di vista culturale, cosmopolita e meta di scrittori e artisti attratti dal suo clima effervescente e dai suoi costumi liberali. E’in quella Parigi che Henry Miller e Anaïs Nin, scrittori tormentati, l’uno cacciato dalla moglie June con in mano un biglietto di sola andata per la capitale francese e l’altra insoddisfatta e annoiata dal matrimonio con un ricco banchiere, si incontrano e intrecciano i loro destini abbandonandosi ad un vortice di desiderio e condividendo l’ambizione di fare della propria vita un romanzo. Paolo Moreschi nel suo concept si è concentrato sul periodo iniziale dello scambio epistolare, ovvero tra il 1932 e il 1936. I due amanti, in preda alla loro bruciante voluttà, danzano metaforicamente un ultimo ballo sul ponte del Titanic, ignari o piuttosto volutamente inconsapevoli dei molti segnali che annunciano la brutalità della Seconda Guerra Mondiale. Mentre il mondo stava scivolando sul piano inclinato che lo avrebbe fatto precipitare nella tragedia imminente, infatti, il milieu culturale e artistico parigino sembrava rifiutare tutto questo, come ben espresso nel quarto dei 14 brani che compongono l’album, “Dovrei gridare orrore?”. La voce soave di Giulia Bi canta, su una base sonora di echi elettronici e chitarra acustica “E dovrei gridare orrore? Io grido amore”. Dunque gaudeamus igitur (espressione latina traducibile con “godiamo dunque”), volteggiando tra arte e amori totalizzanti. Dal punto di vista musicale il disco è fortemente influenzato dall’elettronica anni 80, una vera e propria opera rock, come la definisce lo stesso autore, con un suo svolgimento che, partendo dalla storia carnale raccontata nello scambio epistolare tra Henry Miller e Anaïs Nin, descrive un suo inizio, un apice e un epilogo che vede lei fuggire al di là dell’Oceano Atlantico decidendo di non decidere tra Henry e il marito. Ripercorrendo la storia attraverso i brani che compongono il disco, l’incipit cupo di “Manifesto” vede una progressione sonora elettronica che sfocia in una citazione dal capolavoro letterario di Miller “Tropico del Cancro”: “Questo è un insulto prolungato, Uno scarabocchio in faccia all’arte, Un calcio al divino, all’Uomo e al Destino, al Tempo, all’Amore e alla Bellezza”. Altro punto focale sotto l’aspetto musicale e lirico dell’album è “Vieni presto” in cui, sul ritmo di valzer tracciato da una chitarra acustica, la voce di Giulia Bi esprime il culmine della passione tra i due amanti cantando “voglio sentire il tuo pulsare, sangue ardente e impetuoso e il lento ritmo cullare, l’esplosione del piacere”. Dopo mesi di appassionati e furtivi incontri Anaïs sale le scale di un albergo malfamato, diretta alla stanza di Henry. “Spolpami” vede Moreschi recitare come un mantra in crescendo dall’andamento febbrile i versi “Scoprimi, scrivimi, scovami. Scoprimi, spolpami, scopami!”. “Desidera”, posto a metà album, è un pezzo acustico che, dal punto di vista musicale, concede una tregua nell’ambito della tensione narrativa. Dal punto di vista lirico il pezzo appare come una riflessione sulla propria arte: “Questo scritto non è, Questo diario..non è, Un romanzo ..non è, L’intuizione ..non è, La bravura ..non è, Il mestiere ..non è, Il successo ..non è, La mia arte..Non so più cos’è”. 
Dopo un anno di passione la storia tra Henry Miller e Anaïs Nin inizia a scadere in una stanca consuetudine. I due amanti si allontanano progressivamente, divisi da difetti che generano insofferenza dell’uno nei confronti dell’altro. Nel dipanarsi della loro storia il pezzo “Portami altrove” rappresenta il momento in cui lei decide di sottrarsi sia al marito che la opprime che all’amante che la umilia andandosene a New York. Sul basso pulsante di Gianluca Della Torca la voce di Giulia Bi canta “Il tempo che vivo è un sogno avvizzito, ricatto continuo è un canto strozzato. Ho preso un biglietto di sola andata, io me ne vado non vi dico la meta. Lascio un amore ed una passione, lui sicurezza, l’altro il piacere”. La donna, che ha scritto due lettere, una per il marito e una per l’amante, chiude le buste e le spedisce forse invertendole. Di fatto Anaïs sente di appartenere finalmente a sé stessa “sono la donna che avrei voluto, senza più schiavi, senza padroni”. Libera infine. Nel frattempo si moltiplicano i cupi presagi dell’imminente guerra, ma prevale ancora una volta il desiderio di aggrapparsi all’illusione della luce, anche se ormai tutto è ridotto a un patetico inganno. Il brano che segna in modo emblematico questa fase è “Luce (Singolo)”, che vede la partecipazione alla voce di Andrea Mazzari. Su una trama sonora molto anni 80 le liriche recitano “E allora splendi timida luce, desidero tu splenda ancora, riannoda i fili della tua voce, recisi da uno strappo in gola, consuma la tua anima stanca, dimentica il vero e canta”. Di impronta synthpop è il seguente “Meravigliosa sul dorso”, le cui strofe accrescono la sensazione che tutto stia giungendo ad un epilogo, sia in amore che nelle speranze di un futuro di pace. “E’purpureo il suo manto, Meravigliosa sul dorso, Così vitale il suo pianto, Se non fosse che sta morendo. Ogni cosa ha una fine, Anche il bello anche il dolore, Devi solo accettare di essere un fiore, Rinascere per poi morire”. La traccia che chiude l’album, “Fine”, è la definitiva presa di coscienza che il mondo spensierato, gaudente e dedito all’arte e alla bellezza degli anni 30 sta volgendo verso il suo epilogo: “In attesa che tutto abbia fine, forse è meglio che inizi a ballare”. Un’ultima danza disperatamente attaccata alla vita, ignari ma al tempo stesso ormai pienamente consapevoli. 
A margine dello spettacolo di Torino abbiamo scambiato due battute con alcuni degli artisti che danno vita al progetto. 



- Hai una routine quando sei sul palco, cioè sai già cosa disegnerai o ti fai ispirare dando vita a una jam session visiva con la musica?
MARCO MARTZ - Ho un canovaccio e lo devo seguire, ma ogni volta in base a come ci sentiamo cambio, aggiungo delle cose. Ci sono delle regole da rispettare ma sono regole abbastanza libere che io mi dò.  
- Ho notato una geometria nei tuoi disegni.
MARCO MARTZ - C’è una ricerca di equilibrio tra i colori, assolutamente. E’ questo il lavoro dell’illustratore. 
- Come vi è venuta in mente l’idea di sposare la retromania anni 80 con uno spettacolo di questo genere?
GIANLUCA DELLA TORCA – Paolo mi ha cercato perché io avevo fatto per gioco un album di italodisco che era la musica che mi faceva schifo negli anni 80, però poi ho ascoltato un pezzo, sono impazzito un anno intero e ho fatto un album come Uncle Dog, Italodisco, cantato da me in inglese maccheronico come si faceva negli anni 80. Ci ho lavorato un anno perdendoci il cuore, la testa. Paolo lo ha ascoltato ed è impazzito anche lui per quel disco e mentre scriveva questo spettacolo ha ascoltato quel suono lì che ora è questo qui. Mi ha detto “voglio quel suono, quello che hai fatto per Uncle Dog”. Mi ha contattato e abbiamo deciso di trovarci, parlarci e ci siamo detti: “se poi ci piacciamo collaboriamo” e così è stato.
- “Storia di una passione”, fa riferimento abbiamo detto a questa travolgente storia d’amore tra Henry Miller e Anaïs Nin, ambientata a Parigi negli anni 30 del secolo scorso, sull’orlo della Seconda Guerra Mondiale. In realtà ovviamente è una metafora dell’oggi, dato che stiamo vivendo un tempo pericolosamente simile a quello. L’inquietante ciclicità della storia non potrà mai essere spezzata?
PAOLO MORESCHI – Domanda grossa. Temo di no, però si possono fare delle cose mentre questa ciclicità incombe. Si può vivere, si può amare come questi due amanti che poi, in realtà, fanno cose banali e sono veramente due brutte persone. Nel senso che davvero non fanno niente per rendersi conto di quello che sta succedendo. Io non ho un amore particolare per Henry Miller e Anaïs Nin però sono molto umani, sento che sono come me quando mi sento impotente di fronte a tutto quello che sta succedendo e mi dico "però voglio andare a fare una passeggiata in montagna”. Se dovessi stare lì sempre a guardare quello che sta succedendo dovrei solo impegnarmi per cambiare le cose.
- “Manifesto”, il pezzo che apre l’album contiene una citazione da “Tropico del Cancro”. E’ come dire rifiuto tutto quello che convenzionalmente è bello a favore di ciò che mi piace? 
PAOLO MORESCHI – Henry Miller, pur essendo una brutta persona, è viscerale e con la sua vita dimostra una repulsione nei confronti di quello che c’è intorno. La sua vita coincide con la sua scrittura, cioè decide di premere l’acceleratore sugli eccessi per poter scrivere cose interessanti. Quell’incipit secondo me è un sunto meraviglioso della sua essenza, una ribellione non dico consapevole ma viscerale. 
- Il pezzo “Luce” nel titolo ha quella curiosa parentesi con scritto “Singolo”, effettivamente nell’album è forse il pezzo più canonico. 
PAOLO – Ci sono due pezzi più canonici, uno è “Luce” e l’altro è “Portami altrove”, interpretato da Anaïs Nin-Giulia Bi.

La scelta apparentemente un po’ demodè di fare un disco su una storia d’amore tra due scrittori ambientata circa 90 anni fa può diventare, invece, il pezzo mancante del puzzle che ci permette di vedere in tutta la sua clamorosa evidenza quanto quegli anni pre bellici rischino di tornare oggi. Un monito affinché la storia non si ripeta per l’ennesima volta in modo implacabile e lacerante.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra


mercoledì 26 novembre 2025

#FESTIVETEN 261125 - AGGIORNATA SU SPOTIFY LA PLAYLIST DI RISERVA INDIE CON IL MEGLIO DAL PANORAMA INDIE ITALIANO


Aggiornata su #spotify, nel player in questo post,  la nuova #festiveten di #riservaindie con le novità della settimana, e non solo, selezionate dalla nostra redazione. Un flusso di musica costantemente rinnovato, senza barriere di alcun genere, sotto forma di playlist con gli artisti che sono passati fisicamente nella nostra trasmissione e quelli che vorremmo ospitare, ovviamente tutti rigorosamente del panorama indie italiano. In questa #festiveten ci sono le nuove entrate di #bullbrigade #underdog #glimmervoid #nocrac #silentcarnival #manifesti. Seguiteci sui nostri social facebook, twitter, instagram, e piacete (e magari condividete) la nostra #festiveten su spotify. Nessuna tessera e nessun denaro è richiesto per partecipare ed ascoltare #festiveten. Buon ascolto.
 

domenica 23 novembre 2025

GLIMMER VOID - ECHOES OF LIFE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Il senso di circolarità che caratterizza la natura, la nascita e la morte da cui rinasce altra vita è al centro della poetica dei Glimmer Void, band milanese all’esordio con l’album “Echoes Of Life”. Gli echi della vita sono come un ponte che collega la nostra dimensione con l’altrove, perché tutto è connesso e la fine abbraccia l’inizio e viceversa, senza soluzione di continuità. Matteo Marchetti (voce e basso), Veronica Zanchi (voce e tastiere), Francesco Vallerini (chitarre), Paolo Termine (chitarre) e Luca Spezzati (batteria) avevano ben in mente questo concetto quando hanno composto i pezzi, anche se poi il disco ha preso anche altre direzioni seguendo i percorsi che alla band venivano più naturali. Gli otto brani che compongono l’album sono un viaggio dai sapori alternative, stoner e prog metal, ma non solo, che inizia dal canto ammaliante di sirena dipinto dalla chitarra nell’intro strumentale “Siren’s Call”, fino alla title track che chiude il lavoro, inquieta come lo sprofondare in un incubo spaventoso, in cui un esercito oscuro prende vita e centinaia di occhi guardano fissi dalle fredde profondità dell’oscurità. Le voci di Matteo e Veronica sanno prendere per mano il pezzo portandolo in alto fino ad intravvedere una stella nel nuvoloso cielo notturno e riportare la quiete, sottolineata dall’inattesa chitarra acustica che chiude la traccia. Lungo il percorso che si snoda tra “Siren’s Call” e “Echoes Of Life” troviamo diversi brani degni di nota, primo dei quali è “The Lighthouse”, seconda traccia dell’album. Persa in un mare in tempesta un’anima si risveglia priva della cognizione del tempo su uno scoglio che ospita un faro, luce ondivaga tra le onde rabbiose, speranza per navi abbandonate alla deriva. La successiva “Wolf Eats Wolf” ha il suo perno nell’ottima prestazione vocale di Veronica, capace di passare da un cantato grintoso ad atmosfere più eteree. A metà esatta dell’album ecco il brano di punta dell’intero lavoro, “Chirality”, che fa riferimento alla chiralità, ossia la proprietà di un oggetto di non essere sovrapponibile alla sua immagine speculare. Le voci di Matteo e Veronica, complementari ma allo stesso tempo assolutamente diverse, sottolineano il concetto chiave dell’inganno creato da noi stessi davanti ad uno specchio. La traccia contiene anche un parlato di Walter White, protagonista della famosa serie TV “Breaking Bad”, mentre spiega la chiralità ai suoi studenti. “Echoes Of Life” è, nel complesso, un album che sottolinea il lato oscuro, quasi infernale della vita, ma lascia aperta la porta alla speranza di uscire a riveder le stelle.
La band al completo si è confrontata sui contenuti e le suggestioni sonore del disco.


- Il vostro album è, dal punto di vista sonoro, un pezzo di marmo in cui avete scolpito le vostre canzoni. 
Se foste degli scultori che forma gli avreste dato?
MATTEO – E’ la prima volta che ci fanno questa domanda, diciamo che io non sono molto esperto di scultura, però secondo me ogni canzone ha una sua forma. C’è un suono che accomuna tutto l’album, questo sì, però mi sentirei di dire che ogni canzone ha una sua costruzione, una sua immagine. Paolo è un artista per cui forse può darci una mano. 
PAOLO – A me viene in mente il mare, quindi scolpire il mare. Ognuno ha una sua poetica, a me viene in mente il mare. 
- Il discorso del mare si riconnette all’intro, “Siren’s Call” che ha questo andamento ipnotico proprio come il richiamo delle sirene. Ci ho sentito anche un vago eco dei Pink Floyd, se dovessi citare un brano in particolare direi qualcosa di “Breathe”. Li avevate in mente quando lo avete composto?
MATTEO - Diciamo che i Pink Floyd anche se non li abbiamo in mente da qualche parte escono sempre, tutti quanti li conosciamo, il abbiamo ascoltati, quindi è ovvio che quella vena un po’ prog, anche se non si può definire propriamente così, diciamo questa vena psichedelica viene da lì. Quella intro in particolare è nata da un’idea di chitarra che aveva scritto il nostro chitarrista Francesco e, comunque sì, qualcosa un po’ alla Pink Floyd c’è.
FRANCESCO – Se mi metto a scrivere un’intro che deve essere in un determinato stile come “Siren’s Call” diciamo che i Pink Floyd sono l’ispirazione che viene più fuori. Quindi confermo l’impressione che hai avuto. 
- Il primo pezzo vero e proprio dell’album “The Lighthouse” sembra il risveglio da uno stato di coma. La musica, secondo voi, può essere una cura che ci permette di riconnetterci alla realtà?
VERONICA – Assolutamente sì, ma penso che sia così per tutti, cioè la musica è un modo di esprimerci importante per tutti noi, qualcosa che ci accompagna nella nostra vita e anche nei momenti più difficili ha un potere curativo enorme. Ci sta che sia un po’ un risveglio perché noi abbiamo cambiato nome, abbiamo scelto una nuova identità ed è come se ci fossimo svegliati da una crisalide e fossimo usciti dal bozzolo. Sento anch’io questo senso di risveglio, di rinnovamento.
- “Wolf Eats Wolf” alterna momenti di furia a trame più eteree intessute dalla tua voce, Veronica. E’ quando il pezzo rallenta che c’è la presa di coscienza di aver seguito la strada sbagliata?
VERONICA – Sì, è un brano che è partito proprio così, mi sono ispirata a quello e avevo in mente questa linea di basso che è un po’ il filo della ragione che torna. Però anche nell’esplosione di rabbia c’è della verità e, secondo me, è un modo sano di incanalarla. Poi Francesco ha fatto un riff che è davvero pazzesco ed è riuscito ad esprimere tutte quelle emozioni. E’stato comunque un lavoro di squadra come per tutte le canzoni, ognuno ha messo del suo e questo è un punto di forza per tutte le canzoni che facciamo. 
MATTEO – Giusto un piccolo aneddoto. “Wolf Eats Wolf” prima la chiamavamo “Messa” (ndr. gruppo doom metal della provincia di Padova) semplicemente perché la linea di voce che citavi prima ci ricordava i “Messa”, che sono una band fantastica del Veneto. All’inizio quindi volevamo ispirarci a loro, poi la canzone ha preso tutt’altra direzione, ci abbiamo messo più del nostro, però diciamo che la ricordiamo con quel nomignolo. 
- Vi confrontate molto con i gruppi che fanno più o meno il vostro stesso genere? Oltre che far musica voi frequentate molti concerti?
MATTEO Sì assolutamente. Ognuno di noi ha i propri riferimenti, poi io mi considero prima di tutto ascoltatore, prima ancora che musicista. La musica innanzitutto mi piace ascoltarla, andare ai concerti ed è lo stesso anche per gli altri. Appena arriva la notizia di un concerto che ci piace la condividiamo poi a volte ci andiamo assieme, a volte ognuno per sé perché abbiamo anche idee differenti, però sì siamo prima di tutto ascoltatori. 
- Andando a cercare il significato di “Chirality”, il titolo del vostro brano, ho scoperto che è la proprietà di un oggetto di non essere sovrapponibile alla sua immagine speculare. Volevate sottolineare questo concetto degli opposti speculari? Nel testo ricorrono questi opposti “Bright/blind”, “dark/light”.
MATTEO Diciamo che quel testo è ispirato principalmente a un videogioco che si chiama “Death Stranding”, cioè diciamo “morte spiaggiata”, che è stato creato dallo stesso autore della saga “Metal Gear Solid” che è un pilastro dei videogame. Quel gioco parla fondamentalmente di questo concetto di chiralità, cioè di vita e morte, di cose che sono viste in un’ottica simile, ma sono diametralmente opposte e non sovrapponibili. Il termine viene dal greco chiros (χείρ) che è la mano ed è proprio un’idea calzante perché le mani sono due figure specchiate ma che non sono uguali e questo è un concetto che si ritrova molto in chimica, ci ha giocato Lewis Carroll ad esempio in “Alice attraverso lo specchio”. Lui si immaginava un mondo al di là dello specchio che era simile, ma completamente opposto per quel che succedeva. Il concetto viene poi anche citato in un episodio della serie “Breaking Bad”. Infatti a metà del brano si sente la voce di Walter White. Nel momento in cui abbiamo scritto quel pezzo abbiamo scoperto una serie di connessioni tale per cui ci è esplosa letteralmente la mente ed abbiamo detto “dobbiamo mettere assolutamente quell’audio”, perché in uno dei primi episodi lui sta parlando alla classe del concetto di chiralità in chimica (ndr. nella serie Walter White è un insegnante di chimica), quindi di due molecole che hanno la forma quasi uguale, ma all’opposto, una che serve a curare delle malattie e l’altra che può causare addirittura la morte del feto in una donna incinta. Questa scena l’abbiamo riportata proprio nel pezzo. Quindi è un pezzo che parla di un viaggio in cui comunque vengono affrontate varie realtà opposte. E si ricollega un po’ a tutto il discorso del disco, “Echoes Of Life”, cioè gli echi della vita dopo la morte. 
- Tra l’altro “Chirality” contiene anche una delle mie strofe preferite, cioè “non importa quanto ci voglia a costruire questo ponte e raggiungere il nostro sogno di essere di nuovo liberi”. E’un verso di speranza in una vita quotidiana in cui siamo schiavi di tante cose, dei cellulari, dei social ad esempio?
VERONICA – Sì non è solo la libertà ma il punto focale è lavorare insieme. Perché appunto trovo che con i social ci sia tanto individualismo, tanto su di sé ma poco su quello che è la comunità, che secondo me è importante. Sono stata a vedere i Ministri a Milano e loro ad un certo punto hanno fatto sedere tutti quanti per terra come una specie di partecipazione e si sono concentrati sul fatto che è poi la comunità che cambia le cose, lavorare insieme, ascoltarsi. Quello è il ponte per arrivare alla libertà. 
- In “Nothing Gold Can Stay”, tra l’altro curioso quell’inizio con il fischio, che è un pezzo di quasi nove minuti, c’è anche qui questa fusione tra anime opposte. Sono le anime che rappresentano gli elementi che voi portate nella band per dare vita ai pezzi?
VERONICA – Sì è una canzone che ha sicuramente tanti momenti diversi. Diciamo che c’è dentro un po’ di ognuno. C’è l’intro di Paolo che ha avuto questa idea di usare una tempistica dispari che ci ha lasciato senza parole. Poi ci ha lavorato anche Francesco che ha aggiunto del suo, c’è stato un lavoro incredibile sulla batteria di Luca, un gran lavoro sul testo sia mio che di Matteo, c’è stato un pezzo di piano e poi è stata costruita pezzo per pezzo e sicuramente emerge che ognuno ha portato qualcosa di sé, delle proprie influenze musicali, del proprio modo di vedere la musica. Ne è uscita una canzone lunghissima che però è stata personalmente una di quelle che mi ha dato più soddisfazioni quando l’ho sentita finita nel mastering. 
MATTEO – Mi ha fatto sorridere quando mio padre mi ha detto addirittura “mi piace molto la suite “Nothing Gold Can Stay”. Non so se si possa definire una suite però mi ha fatto sorridere che l’abbia chiamata così, quindi diciamo che è una suite. Comunque sì è il pezzo più elaborato.
- Invece “Stained With Red” suona quasi come il grido di un ferito a morte che sta cercando di scappare. 
MATTEO – Quello è un concept che è nato in una maniera particolare, da un nomignolo che era “Ivory”, avorio, che avevo dato a un riff perché mi ricordava quella pesantezza dell’elefante e quindi volevo qualcosa che rappresentasse l’elefante. Da lì abbiamo poi deciso di sviluppare un testo che parlasse degli animali e del bracconaggio. Mi piace molto che sia passata questa cosa che musicalmente possa rappresentare questo grido di dolore, di disperazione da parte di un animale, ma può essere magari anche un popolo che viene soggiogato, represso. Questo è un po’ il concept su cui abbiamo lavorato. C’è questa cosa dei colori, che prima era avorio, adesso c’è del rosso, rappresenta proprio questo aspetto animalesco, vivo e ci piace immaginarcelo così.
- Il pezzo finale dell’album, che è poi la title track “Echoes Of Life” sembra dare all’album un senso di circolarità. La luce fioca potrebbe essere quella del faro di “The Lighthouse”. Possiamo definire il vostro come un concept album sull’inquietudine, sul trapasso?
LUCA – E’parte integrante della tematica principale dell’album che è il cambiamento anche attraverso la morte, il ciclo della vita, la morte di un essere vivente che porta poi alla vita di molti altri organismi. E’stato un concetto che anche parlando nei mesi precedenti alla scrittura, Matteo il nostro bassista aveva già portato ed era già un’idea già avuta in passato. E soprattutto nell’ultimo brano si è espressa appieno. La circolarità dell’album è stata un concetto che ci ha influenzato, anche Paolo ha portato spesso il tema della circolarità e la parte finale più calma che può riconnettersi poi alla parte iniziale di “Siren’s Call” è qualcosa su cui abbiamo lavorato e che, in effetti, ci è sempre piaciuto. All’inizio c’era questa idea della circolarità del disco, nel senso che si potesse iniziare ad ascoltare da qualsiasi punto per andare avanti senza problemi. Diciamo che non siamo poi riusciti a portarla a termine, anche se per caso è riuscita una cosa simile senza che fosse realizzata in modo forzato, intenzionale. Però c’è questa cosa per cui volendo si potrebbe iniziare ad ascoltare partendo da metà ritornando nello stesso punto e avere comunque un senso di continuità. Quindi ci piace perché non era un concept album, ma poi alla fine in fondo lo è. C’è un filo conduttore che collega tutte le canzoni sia a livello musicale che di liriche e quindi diciamo che ci piace così. E’ riuscito come un concept non concept molto ciclico. 


Possiamo dire, riallacciandoci alle parole di Luca, che la creatività spesso prende strade impreviste, ma alla fine trova sempre il modo giusto per dare voce a chi ne è artefice. Quindi anche un album pensato come concept, ma della cui direzione artistica gli autori sembravano aver perso il filo, alla fine è divenuto concept comunque. Con un esordio di questa caratura i Glimmer Void possono legittimamente aspirare a divenire una band di spicco nel panorama indie nostrano.

giovedì 20 novembre 2025

"I'M ALREADY DEAD" - UN RICORDO DI HANK VON HELVETE E DEI SUOI DEMONI - TESTO A CURA DI LJUBO UNGHERELLI


“Morto, sono già morto”, cantava nella canzone “Dead”, che intitola il suo secondo disco a nome Hank Von Hell. Oltre un quarto di secolo addietro, si era unito a una gang di orridi debosciati dedita a strimpellare un suono fracassone ribattezzato “death punk” e a presentarsi in scena giocando su un’estetica che univa ineffabilmente nazisploitation e omosessualità sopra le righe stile Village People, in più utilizzando una ragione sociale che gli avrebbe precluso in via preventiva qualunque alta rotazione radiotelevisiva. Ecco, se vi eccitano i gruppi che salgono sul palco in maglietta, felpa o peggio ancora maglione, scarpe da ginnastica ai piedi, impalati sulla pedaliera e/o l’asta del microfono, Turbonegro non fanno proprio per voi. Un baraccone che definire kitsch è eufemistico, un ripugnante trionfo di cattivo gusto orchestrato da dei degenerati capitanati per l’appunto da un esuberante gran cerimoniere, trucco sugli occhi un po’ alla Alice Cooper, capelli neri arruffati, a torso nudo intemerato del fisico tutt’altro che scultoreo, sovente provvisto di ulteriori orpelli di scena tra cappelli, bandane, bastoni, spade e chi più ne ha più ne metta. Alterna svariati nomi d’arte, uno più improbabile dell’altro, fino ad assumere quello con cui assurgerà al rango di leggenda del rock’n’roll: Hank Von Helvete, il carismatico frontman la cui presenza scenica catalizza l’attenzione degli spettatori delle incendiarie esibizioni della band. Nel frattempo, il nome Turbonegro inizia a farsi strada nell’underground, ma sono parimenti gli atavici problemi di salute mentale e di tossicodipendenza di Hank a frenarne la rapida quanto effimera ascesa, tanto che, tempo di pubblicare il capolavoro “Apocalypse dudes”, sordida pietra miliare del genere, il circo toglie le tende e lascia la città. Triste dettaglio sciovinista, pare che la decisione di smettere venga presa a margine del ricovero in psichiatria cui Hank va incontro in quel di Milano. Giusto qualche anno per rimettersi in sesto, mentre le azioni Turbonegro accrescono il loro valore postumo, ed è tempo di reunion! Nuovo disco e tour.


Chi scrive, da fine Novanta adepto del culto dei reietti norvegesi del death punk, non si lascia sfuggire l’occasione: 2 giugno 2003, Arena Parco Nord di Bologna, seconda giornata dell’edizione inaugurale del Flippaut Festival, che annovera titani del calibro di Audioslave, Queens Of The Stone Age e The White Stripes (pari pari la medesima qualità che si poteva trovare agli impresentabili raduni open air recenti nell’Italia precovid…). L’estate 2003 è ricordata come una delle più roventi dai tempi della guerra del fuoco. Già a inizio giugno si volteggia intorno ai cinquantasei gradi all’ombra; ombra peraltro inesistente nel catino bolognese, quindi. A metà di un pomeriggio madido, i sei rifiuti della società prendono possesso del loro armamentario: impossibile non entusiasmarsi al cospetto della mise del chitarrista Euroboy, il naso aquilino di un Pete Townshend effeminato e truccato, una pesante divisa militare e in testa un colbacco con buona pace della canicola (trattasi di un uomo che pochi anni più tardi avrebbe sfidato e sconfitto il linfoma Hodgkin; che gli fa un’insolazione?), e quella istituzionale del bassista Happy Tom nei sempiterni panni del gaio marinaio, salpato dalle coste dei natii Stati Uniti per diffondere il verbo del death punk in Norvegia e nel resto del mondo. E ovviamente a troneggiare sul palco un ritrovato Hank Von Helvete: giacca aperta sul petto villoso e poco tonico e, al netto di una prova canora non scintillante, il suo solo essere lì rende speciale la giornata, abbrustolita viepiù dal set al fulmicotone degli eminenti balordi scandinavi ricoperti di denim come da tradizione. Dopo diciotto anni, arde ancora un vivido ricordo di quel concerto, trascorso saltando, sudando e urlando a pieni polmoni gli irresistibili ritornelli di “Don’t say motherfucker motherfucker”, “Back to Dungaree High” (che vedeva schierato l’amico e compagno di stravizi in tournée Nick Oliveri dei Queens Of The Stone Age), “Get it on”, l’inno alla pizza “The age of Pamparius” e l’apoteosi finale di “I got erection”, inno all… ok, avete capito. 


La perversa favola si interrompe alla fine degli anni Zero. Hank getta nuovamente la spugna, mentre i suoi compari proseguono con sfrenata dignità a portare a spasso la sigla Turbonegro con la complicità del cantante inglese Tony Sylvester (non risultano parentele con il negromante del rock italiano Steve).
L’ultimo decennio della sua vita, Hans-Erik Dyvik Husby lo spende tra poco convincenti progetti industrial rock, adesioni a Scientology, eremitaggio, ruoli da attore protagonista al cinema, uscite e rientri nel tunnel delle dipendenze, apparizioni televisive in qualità di giudice di talent musicali, divagazioni da crooner, autobiografie in lingua madre e un’ostinata e ostentata volontà di prendere le distanze dal suo passato intriso di perdizione e ambiguità sessuale. In tal senso, giova ricordare che, anticipando le attuali istanze lgbt, non binarie, gender fluid ecc, portate avanti per lo più da eterosessuali monogami che abusano di asterischi e altri simboli insulsi e straparlano di quanto sia ripugnante l’eterosessualità, Husby con afflato prettamente omosessuale si accoppia con una modella norvegese, con la quale concepisce pure un’erede. Tutto appare ormai compromesso, e probabilmente è davvero così, tant’è che, a sorpresa, nel 2018 il vate torna a occupare il suo lubrico pulpito sotto la sigla Hank Von Hell, regalando ai fedeli che mai lo avevano dimenticato due ultime fatiche discografiche, capaci di riattizzare la fiamma oscura che sempre ha pervaso l’opera e l’esistenza di un sublime giullare del rock’n’roll. Una patina di tracotante grossolanità che celava le debolezze dell’uomo spogliato dalle vesti sgargianti dell’Artista e del performer. Al momento, l’improvvisa scomparsa di Hank lo scorso 19 novembre 2021 a soli quarantanove anni è coperta da un comprensibile riserbo. Si può forse immaginare, se è lecito, che i demoni che implacabili gli davano la caccia siano infine riusciti ad acchiapparlo e gli abbiano presentato il conto di un’esistenza condotta costantemente sull’orlo dell’abisso. “…come una bestia feroce, non ho bisogno di distruggermi, aspetto solo il mio momento, aspetto solo il mio turno…”









 

lunedì 17 novembre 2025

NOCRAC - SEXY DROGA - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Davanti al Museo Egizio di Torino c’è una chiesa il cui ingresso ricorda le porte di un tempio antico, quasi a sottolineare che qui, come in diversi altri luoghi della città, si fronteggiano e si mescolano forze invisibili e millenarie. Nei locali di quella chiesa è nato il nucleo di “Sexy Droga”, album dei NOCRAC, quartetto con influenze alt rock soniche, blues e progressive, composto da Andrea Marazzi (basso e voce), Carlo Barbagallo (chitarra e voce), Riccardo Salvini (tastiere e voce) e Frank Alloa (batteria). Il loro album, pur essendo distribuito in digitale, si suddivide in quattro lati, proprio come un doppio vinile. Sono già usciti i Lati A, B e C e si attende il Lato D per completare l’opera. La struttura in quattro parti è funzionale al concept che lega tutto “Sexy Droga”, ovvero il viaggio nel cuore della notte di un ragazzo insonne che deve affrontare le proprie dipendenze e ossessioni prima di poter ritrovare sé stesso. “Insonnia”, la traccia che apre “Lato A” inizia con una chitarra che rintocca quasi come le campane di una chiesa per poi aprirsi in una melodia ampia e carica di inquietudine, sottolineata dall’armonizzazione delle tre voci di Andrea, Carlo e Riccardo. “L’unico modo”, pezzo conclusivo del “Lato A”, introdotto da suoni arcade da sala giochi, è la cartina di tornasole dell’ecclettismo che caratterizza lo stile della band con un andamento jazz blues che sfocia in un ritornello da big band. Il Lato B si apre con “Zebàni”, termine che indica i diavoli alle porte dell’inferno musulmano e racconta una storia ad alta tensione erotica con una lei al centro di desideri spavaldi. Sempre da Lato B il brano “Sogno” riesce a trascrivere fedelmente in musica le fasi di un sogno, tra schizofrenia e calma. Dal punto di vista musicale il brano ricorda le atmosfere del Manuel Agnelli solista, soprattutto nell’uso della voce. Altri pezzi degni di nota, contenuti nel “Lato C”, sono il rock blues malato dall’incedere sognante “Amare tutto” e “Le sei (Gioventù Ketamina)”, in bilico tra ballata e i Sonic Youth. 
Il bassista e compositore Andrea Marazzi si è prestato a dialogare sul concept e sulle molte suggestioni sonore di “Sexy Droga”.



- Il vostro album dimostra un attaccamento affettivo profondo al formato fisico della musica, infatti, come un doppio LP o un doppio CD ha un Lato A, un Lato B, un Lato C e ora ci aspettiamo il Lato D per completare il tutto. A parte il discorso vintage avete scelto questo formato perché avevate una storia articolata, con un suo sviluppo da raccontare?
- Sinceramente noi non pensavamo di fare il vinile perché non abbiamo i mezzi per farlo e perché non abbiamo prospettive di vendere questo disco, stiamo facendo molta fatica a dargli un minimo di risalto e sono negativo sotto questo aspetto. Però in realtà per come è stato pensato nella sua struttura è certamente legato a un certo tipo di immaginario e ad un certo modo di raccontare una storia che è proprio insito nel medium vinile, cosa che poi ci aveva portato anche nella sua realtà digitale, di disco fatto di codice binario nel computer, a pensarlo come un vinile. Diciamo che il paragone potrebbe essere un romanzo solo in formato pdf in cui non si sente l’odore della carta, però pensato comunque in quella modalità. Noi, presi singolarmente siamo tutti musicisti che facciamo varie cose e, sotto molti aspetti, la nostra produzione è ipercontemporanea. Questo disco in particolare è un’opera che oltre che strizzare l’occhio, seppur in modo critico, alla retromania è un’opera che si traveste da disco degli anni 70, sia per come è pensato come formato, sia proprio nel contenuto musicale e testuale. In realtà giochiamo con questo aspetto. Cioè non lo è tout court, ma è travestito in quel modo e ne è anche allo stesso tempo un po’ una parodia. 
- State pubblicando un album che trasuda sensazioni, emozioni. Se dovessi trovare una definizione direi che è un album felicemente allucinato. Quanto c’è di te, di voi come band nel protagonista del disco?
- In realtà c’è il cento per cento. Io sono quello che ha creato il concept, autore della maggior parte dei testi, insomma l’album l’ho un po’ messo insieme io. E, seppur pieno di metafore, è in realtà totalmente il diario di una fase della mia vita. Nello specifico si racconta anche una storia d’amore esistente, cioè il tu di cui si parla è una persona che esiste. I pochi intimi sanno benissimo di cosa si tratta, di che storia sto raccontando. Poi ovviamente nel costruire un disco si utilizzano le metafore e diventa di tutti, un mondo poetico che racconta della vita di tanti. Ma inizialmente è nato quasi come un diario. 
- Considerandolo come un unico album “Sexy Droga” ha uno stile molto eclettico, le sonorità variano molto a seconda dei pezzi. Sembra quasi come un sonnambulo che nella notte cammina toccando tutto a tentoni nel buio. La varietà di stili presenti nell’album è dovuta al fatto che c’è più di un compositore tra voi? 
- Direi che è dovuta al fatto che noi tutti come compositori siamo eclettici ed è una nostra caratteristica non avere una direzione univoca dal punto di vista musicale e quindi questo è un motivo. L’altro motivo è la differenza con cui sono nate o sono state registrate le canzoni. Il nucleo fondamentale dell’album è nato in uno spazio ben preciso che è una chiesa di fronte al Museo Egizio di Torino. Per un periodo di tempo avevamo una stanza in questa chiesa ed era però un posto in cui non potevamo fare troppo rumore perché c’erano problemi di volume. Suonavamo a volume bassissimo e, grazie anche a queste circostanze, sono nate queste ambientazioni sonore che poi caratterizzano in parte il disco. Molti pezzi sono nati così, con un certo tipo di sapore. Altri pezzi hanno avuto una gestazione diversa. Ad esempio il pezzo “Aritmia” è partito da una registrazione fatta con il telefono che poi ho rifatto a casa registrando la voce dal microfono del computer, seduto sulla scrivania, quindi in modo iper lo-fi. In “Malincocktail” ci sono state poi delle sovraincisioni, ma tutto nasce da una demo fatta in camera. Per altre siamo stati in studio da Boosta, come ad esempio nel caso di “Sogno”. Lo abbiamo registrato voce e pianoforte e poi Carlo ed io ci abbiamo messo un po’ di elettronica dal computer direttamente. Quindi ogni pezzo ha una sua storia di produzione che lo porta ad essere così. 
- Toccate molti generi, tra quelli più affini a voi c’è l’alternative rock, il progressive, il blues che si trova in vari pezzi. Perché amate fondere insieme questi generi così dissonanti tra loro?
- In realtà non è mai una cosa programmatica, non lo è mai stata, nel senso che non ci siamo mai detti “adesso facciamo un pezzo più in questo modo, o in quest’altro”. Tutto è nato in modo molto naturale. Ovviamente c’è la stratificazione dei nostri ascolti e parte di quello è venuto spontaneamente. Citi dei generi che hanno avuto a che fare con la nostra storia non solo come ascoltatori ma anche come musicisti. Carlo, che secondo me è uno dei più grandi chitarristi in Italia, ha una storia anche nel blues e in un certo tipo di rock e siccome tutti ci divertiamo a suonare, ci annoia fare l’accordo e la tonica, facendo a modo nostro vengono degli arrangiamenti particolari che possono richiamare il prog e altri dei generi che hai citato. Però ci tengo a dire che è stato tutto molto naturale, semplicemente noi ci troviamo insieme suonando e ci è venuto di trovare quelle sonorità. Anche e soprattutto con gli strumenti che avevamo in mano in quel momento. Penso che saremmo potuti essere una band totalmente diversa con le stesse persone se avessimo fatto delle jam con i sintetizzatori. Magari ora si starebbe parlando di un disco come quelli dei Kraftwerk o di Aphex Twin.
- Per quanto riguarda il progressive italiano siete degli estimatori degli Area?
- Sicuramente, ora non voglio parlare troppo per gli altri, ma sicuramente sì. Gli Area mi piacciono molto, ma in realtà non sono un grande estimatore di Demetrio Stratos, diciamolo come provocazione un po’ ironica. Mi spiego, Demetrio Stratos è stata una grandissima figura musicale, ma ora, nel 2025, sentendo i dischi degli Area trovo degli elementi ipermoderni e altre cose che sono invecchiate male. E penso che una delle cose che sono invecchiate male è la voce di Stratos. Basso e batteria invece sono ancora proiettati nel futuro oggi. 
- Il diritto di critica è sacro, non ci sono intoccabili, per cui il tuo è un punto di vista che non condivido, ma che è legittimo.
- Oltretutto per dirti il legame che poi abbiamo con gli Area, quando dovevamo scegliere il nome della band abbiamo scelto “NOCRAC” che ha vari significati, quello legato al crack come droga, ma anche legato al disco “Crac” degli Area. Per cui in realtà è anche insito nel nome il riferimento agli Area. 
- “Insonnia” è il pezzo che apre il Lato A e quindi tutta l’opera. Cantate “attendere il sole contando le ore”. E’ una condanna o è l’imbocco del tunnel per evadere?
- Questa in realtà è la domanda che pure il protagonista si pone e riguarda un po’ tutto il disco. Il punto è proprio fare in modo che non sia una condanna. L’album sembra arrendersi alla condanna esistenziale, ma allo stesso tempo è il tentativo di emanciparsi. Quindi direi che è ambivalente, spetta all’ascoltatore trovare la forza per leggerla nel modo migliore. 
- Parliamo adesso di “Sogno”, una canzone musicalmente molto movimentata, prima calma poi di colpo frenetica quasi a riflettere le fasi di un sogno, poi nuovamente serena nel finale. C’è questo carillon che sembra impazzire e poi sul finale trova la calma. Volevate ricostruire in musica l’andamento stralunato di un sogno?
- Sì esattamente, infatti il titolo di lavoro del pezzo era “Sogno/incubo/sogno”. E’ il pezzo che chiude il primo dei due “vinili” e quindi rappresentava proprio la fine della prima parte, in cui il protagonista torna a dormire ed è un riposo dopo due lati di delirio, avventure. Però il sogno non è del tutto tranquillo perché sa di non avere ancora risolto le sue dinamiche esistenziali e quindi anche in questo caso è ambivalente ed è anche un incubo, non la soluzione.
- Ho trovato interessante l’armonizzazione delle vostre voci che danno all’album, in particolare in alcuni brani, un’atmosfera quasi lisergica. Un esempio è “Amare tutto” del Lato C, che tra l’altro cita anche il rumore bianco, quel tipo di suono che si usa per trovare il sonno. 
- L’idea delle tre voci è nata in quanto tutti cantiamo e nel concept il protagonista in realtà è diviso in tre ed è in tre fasi diverse della sua vita. Quindi c’è la mia voce che rispecchia quando è più giovane ed è più spavaldo e meno controllato, la voce finale di Carlo che è quella più vecchia ed è quella della resa e poi c’è la voce di Riccardo che è quella centrale che cerca di trovare delle soluzioni. Quando ci siamo tutti e tre è un po’ una sintesi e infatti, per esempio, “Amare tutto” è un pezzo un po’ più distaccato e parla in terza persona. Quindi quando dicevi che è lisergica, sì vuole dare un po’ quell’impressione. Poi c’è il fatto che il disco ha dei riferimenti musicali degli anni 70, di un certo tipo di fare rock, non è un disco pop dell’oggi ed è pieno dal punto di vista lirico, ma soprattutto musicale. Ci sono alcuni glitch che disturbano questo riferirsi a un genere, cioè l’uso dell’elettronica e l’utilizzo delle voci. Per esempio in “Amare tutto” è molto leggero, ma c’è anche un pizzico di autotune. Fa parte anche quello dello smascheramento della finizione che mettiamo in atto. 
- “Malincocktail” è un dialogo al tavolino di un bar su come bere la vita. Come riesci tu e come riuscite voi come band a “bervi la vita”, cioè ad affrontarla?
- Dal punto di vista specifico direi che è il fatto di non arrendersi e non tenersi distaccati dalle negatività, dalle difficoltà della vita scegliendo di viverla con piena consapevolezza, anche se questo può portare a disagi emotivi. Però bisogna non rinunciare a vivere la vita in pieno, non pensando alle cose nel loro essere positive o negative, quanto piuttosto a coglierle. 
- Invece l’apertura del Lato B “Zebàni” è un pezzo rock blues molto sensuale su una donna. E’ un inno al sesso?
- Sono contento di aver scritto “Zebàni” in quel modo come testo perché ha degli incastri particolari, una modalità di scrittura che non avevo mai utilizzato prima e che invece è uscita molto bene. Ti racconto una serie di curiosità legate a questo pezzo. Il termine “Zebàni” è utilizzato in Turchia per indicare quelli che, nella mitologia islamica, sono i diavoli alle porte dell’inferno mussulmano. Quindi è presente questa figura del diavolo. Il pezzo è una di quelle esternazioni finto spavalde, il tentativo di approccio nei confronti di una donna. Poi vengono citati dei luoghi iconici di Torino, ad esempio il “Bunker” e si parla di andare a ballare la techno al “Bunker” (ndr locale storico del clubbing torinese) così come ci sono anche dei piccoli riferimenti a cose, persone e situazioni reali di questa città. E quindi è un tentativo di approccio molto spavaldo dal punto di vista sessuale e molto erotico. Poi però c’è il finale che è la resa in cui si dimostra che questo protagonista è solo fintamente spavaldo, ma in realtà sta soffrendo perché non riesce ad unire i punti che possono rendere effettiva quella relazione. 
- Una domanda in base a quello che mi hai raccontato. Abbiamo parlato di una chiesa, di diavoli. Qual è il tuo rapporto con l’aldilà?
- Domanda molto difficile. Direi che forse non me ne curo troppo. Seppure abbiamo delle spinte, come si nota nel disco, verso le energie, le forze, trovo che però questo sia un disco molto materialista e che quindi non si cura troppo dell’aldilà. 
- A proposito di “Le sei (Gioventù Ketamina)” che avete scelto anche come singolo, mi ricorda come testi i Marlene Kuntz e come suoni, come incedere un po’ la new wave anni ’80 fiorentina, ad esempio i primissimi Litfiba ancora pre “Desaparecido”. 
- Anche quello è un pezzo che ha una storia molto particolare perché usciva da una demo totalmente diversa. Volevo fare i Wilco ubriachi. Cioè dei Wilco che armonizzano male le chitarre. Poi però il risultato mi hanno detto che sembrava una rappresentazione  dei Sonic Youth sotto Ketamina e quello mi ha in realtà aiutato nel testo. Poi quello che tu dici è uscito un po’ per caso per la modalità con cui ci siamo ritrovati a registrarlo in studio. Non era una cosa ricercata. In realtà nelle chitarre sentivo molto all’inizio i Velvet Underground, ma capisco che alle volte le sensazioni che danno i suoni possano essere molto diverse a seconda dell’orecchio che le ascolta. 


Alla luce dell’intervista con Andrea Marazzi si coglie meglio il senso del titolo dell’album, “Sexy droga”. Le dipendenze, di qualunque tipo siano, possono essere attraenti, ma bisogna lottare e affrontare tutte le prove che ci pone di fronte la vita per liberarcene.