mercoledì 5 novembre 2025

ANDREA LASZLO DE SIMONE - UNA LUNGHISSIMA OMBRA - RECENSIONE A CURA DI IRIS CONTROLUCE PER #GLORYBOX


Foto di Ivana Noto

Sedetevi dove preferite: ai piedi di un albero immerso in un bosco, su una panchina di un parco comunale, sul vostro amato e sgangherato divano. Scegliete voi, in base alle possibilità del momento e mettevi in ascolto dell'ultimo meraviglioso disco di Andrea Lazlo De Simone. 
Eh sì, perché ci sono album che richiedono non solo la nostra attenzione, ma anche una certa predisposizione di anima e corpo… e andrebbero possibilmente ascoltati ad occhi chiusi, con i sensi accesi. 
Il titolo è “Una lunghissima ombra” ed è stato pubblicato nell’autunno 2025 per 42 Records. Con ben diciassette brani inediti scritti e arrangiati in totale autonomia, Andrea si (ri)conferma uno chansonnier dalle eccellenti capacità comunicative, con una marcata identità pop cantautorale dal fascino vintage. 
Più che di canzoni, siamo di fronte ad un insieme di elementi che convivono in perfetta armonia, vere e proprie opere d’arte trasformate anche in un film, proiettato a Roma in occasione della presentazione dell’album. A detta dall’autore, il suo è “un disco da vedere, un film da ascoltare” (cercatelo su YouTube). 
Le parole, sapientemente scelte, sentite, condivisibili, si rivelano espressioni semantiche che descrivono sentimenti profondi messi ben a fuoco. Dal punto di vista sonoro, a rendere questo lavoro un pregiato diamante da conservare gelosamente e del quale riscoprire la purezza ascolto dopo ascolto, sono senza dubbio i crescendo e gli svuoti abilmente incastonati, così come i momenti strumentali, quelli lo-fi, i raffinati inserti di elettronica, i campionamenti, le melodie delicate, i sussurri, i fischiettii, i respiri, le straordinarie aperture armoniche in grado di prenderci per mano e condurci al limite della commozione. 



Imbattersi in album così ben realizzati significa introdursi in punta di piedi in una stanza segreta nella quale riversare (e condividere) ricordi, malinconie, paure ma anche forza e consapevolezza. Si resta sospesi in contemplazione, godendo di suoni, poesia ed immagini fino a rimanere irrimediabilmente avvolti e travolti. E’ in realtà un viaggio, dove personale e universale si mescolano in una danza armoniosa, tra ammissioni di fragilità, amori perduti, alibi abbracciati in un tempo ormai passato. Con rimandi a Modugno, Battiato, Moltheni, Battisti e Sufjan Stevens, Andrea Laszlo De Simone è da sempre compositore e produttore di tutti i suoi brani, che suona e registra da solo, principalmente in casa o nel Ecce Homo Studio. 
Acclamati dalla critica, i precedenti lavori ricevono plausi sia in territorio nazionale che internazionale, riscuotendo un grande successo soprattutto in Francia, dove le Radio trasmettono regolarmente la sua musica. Il cantautore torinese ha realizzato la colonna sonora del film francese “Le Règne Animal” e nel 2024 è stato il primo italiano nella storia ad aver vinto il prestigioso Premio César. 
Sapete qual è l’unica nota dolente del disco? È scegliere quali siano i pezzi più significativi (questo già rende l’idea dell’eccezionale bellezza dell’album). 
È impossibile resistere alla delicatezza del brano “Quando”: l’autore fotografa un proprio periodo di difficoltà e di sopraffazione. Il connubio tra sonorità e melodia ci trascinano in un turbinio di emozioni espresse con una rara sensibilità. 
“E quando ridi e piangi e tiri i calci e spingi, cercando di guarirmi. Quando tu mi stringi Sei in grado di ferirmi. Ed io non so spiegarlo, e tu non puoi capirmi. È colpa del silenzio, timido come me, se non ti dico quel che penso” 
A sorpresa, la notte di capodanno 2025, pubblica “Un momento migliore” una canzone con la quale racconta sia di incertezze che di determinazione: desidera mantenersi fedele a se stesso, cercando una direzione originale e fortemente propria. L’arrangiamento ricorda i Verve e la voce, fluttuando tra luminosità e penombra, sfocia sorprendentemente nelle tanto amate (almeno per quanto mi riguarda) trombette beatlesiane, che sfumano in chiusura. Si tratta di una ballata catartica, senza tempo, liberatoria. Un “inno” all’imperfezione, che viene compresa e accettata. 
“Ho avuto un padre, e dico un padre vero, che mi ha mostrato cosa vuol dire essere uomo, ma ho scelto di voler restare bambino, di non seguir l’esempio di nessuno. Forse ho mentito sempre o forse son troppo sincero ed ho una fragile mente o sono solo immaturo o più probabilmente non voglio pensare al futuro perché sono quasi sicuro, che sbaglierò per sempre. Ma nessuno ha mai avuto un momento migliore”. 
In "Aspetterò", ad accoglierci c’è un motivetto scanzonato (all'occorrenza fischiettato), che ci trascina nel crescendo di un brano dai sentori meramente popolari e retrò, ci catapulta negli anni 60, con palesi richiami alla memoria di uno dei padri della musica leggera italiana, ossia "il mitico", Domenico Modugno. 
La splendida canzone “Colpevole”, rimanda alle affascinanti atmosfere di Sufjan Stevens, con una poesia crepuscolare che si sostituisce al testo approfondendo concetti quali la presunta (o perduta?) innocenza e l’inconsistenza delle nostre giustificazioni. 
“Come rami recisi dal vento buttati uno sull’altro, senza uno scopo, buoni solo a prendere fuoco. Come brucia la nostra coda di paglia”.
"Per te" inizia con un dolcissimo canto infantile, che non fa altro che anticipare l'incipit che arriveremo ad ascoltare una manciata di minuti dopo. Qui il concetto, tanto essenziale quanto profondamente vero, è in sostanza l’amore: che siano per il bimbo in questione o per un’altra persona, le liriche descrivono con estrema semplicità, la tenerezza che sta alla base dell’attaccamento sentimentale, che sottintende un certo grado di abnegazione verso l’altro, invitandoci a far riemergere in noi il sentimento più puro che esista: il donarsi incondizionatamente. 
"Per te che farei? Farei tutto io, non sai cosa farei e farò per te, lo farò per te non lo sai, ma io lo so". 



Per il brano “Pienamente”, ci lasciamo cullare dall’incantevole intreccio di archi in sottofondo che via via lascia il posto a timidi arpeggiatori. La linea di voce è decisamente di stampo battistiano e il testo ci suggerisce di vivere completamente le emozioni, di bruciare di passione, malgrado possano sopraggiungere anche sofferenze. 
Ecco, dei tanti messaggi contenuti nell’album, per la sottoscritta è proprio quest’ultimo il più centrale, quello che in qualche modo meglio esprime il tormento dell’artista. Sulla passione, Pier Paolo Pasolini diceva che questa non ottiene mai il perdono. Persino lui non era propenso all’indulgenza, “vivendo lui stesso di passione”. Questo non significa che seguire i propri interessi sia sbagliato, ma è piuttosto un’amara constatazione delle conseguenze e dei rischi cui si va incontro, specie in un mondo più incline all’ordine, alla razionalità e (ancora peggio) all’omologazione. 
Siamo sinceramente compiaciuti del fatto che Andrea Lazlo De Simone si sia dedicato all’arte e che così facendo si sia avvicinato al suo essere più autentico e spontaneo.
E mentre godiamo dello straordinario disco appena pubblicato, c’è chi sta già aspettando i suoi lavori futuri… per esempio io ovviamente.

lunedì 3 novembre 2025

DA LUNEDI 10 NOVEMBRE PARTE LA NUOVA STAGIONE DI RISERVA INDIE - PICCOLA INTRODUZIONE A CURA DI MAURIZIO CASTAGNA


Dopo una lunga e per certi versi interminabile pausa estiva torna finalmente Riserva Indie su Contatto Radio Popolare Network. In un mondo che ha abolito la lentezza, dove i contenuti nascono troppo spesso per colmare piccoli spazi su piattaforme a cui, sovente, troppi si adeguano, noi rivendichiamo il diritto, e un po' anche il dovere, di costruire da circa 18 anni una trasmissione in cui i tempi lunghi permettono di apprezzare e valorizzare il lavoro, spesso frutto di grandi sacrifici economici e non solo, di chi decide di condividere la propria arte col pubblico all'ascolto. A molti potrà sembrare un format obsoleto ma è un po' la nostra peculiarità: "ascoltare con lentezza". In questi anni molte persone sono passate nei nostri studi. Nei tempi d'oro in cui la nostra provincia poteva vantare un'abbondante proposta di live abbiamo intercettato personaggi come Edda, Capovilla, Collini, Perturbazione, 99 Posse, Iosonouncane, Paolo Benvegnù, Lo Stato Sociale, La rappresentante di lista, Kina, giusto per fare qualche nome, ma soprattutto abbiamo sviluppato una rete di amicizie con persone con cui ritrovarsi ogni anno è qualcosa che va oltre a una diretta in una radio di una provincia toscana. Parlo, ad esempio, di Ljubo Ungherelli, Marco Valenti, Andrea Gozzi, gli amici del Gob di Viareggio, Marco Rovelli, persone con cui ormai ciclicamente ci ritroviamo e con cui stagione dopo stagione abbiamo intessuto rapporti umani che vanno al di là della semplice intervista. Poi ci sono quelli che tengono fede al motto "la radio è partecipazione" e diventano non semplici spettatori che vengono ad assistere a una diretta ma parte attiva della trasmissione ed è un piacere sapere torneranno ogni lunedì per scambiarci ascolti, impressioni e a volte discutere sui massimi sistemi. Ecco pensare di non ritrovare queste persone e di non continuare più a tenere aperta una delle poche finestre sulla musica "che gira intorno" è uno dei motivi per cui ogni anno, pur in mezzo a grandi difficoltà famigliari e lavorative, e vi assicuro che non sono poche, decidiamo che comunque valga la pena andare avanti. Mi rendo perfettamente conto delle imperfezioni e degli errori che il "rischio" della diretta comporta ma in fondo riserva indie è un programa imperfetto come un vinile che "gracchia" sotto la puntina per cui, come diceva il grande John Peel, "imperfetto come la vita". 

Riserva Indie riparte Lunedì 10 Novembre in diretta su Contatto Radio Popolare Network (89,80 Fm) e in streaming su www.contattoradio.it . Sul sito della radio trovate anche tutti i podcast delle stagioni precendenti.


 

domenica 2 novembre 2025

NORD ELECTRIC - LONELINESS FOR SALE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Per dei musicisti di lunga esperienza che abbiano ancora qualcosa da dire e suonino, prima di tutto, per il piacere di dare vita all’espressione artistica, un nuovo inizio può essere cibo con cui nutrire la propria ispirazione. Così è stato per i Nord Electric, band internazionale attualmente composta dal cantante inglese Mark Gardener, membro dei Ride riconosciuto come uno dei maggiori esponenti del genere shoegaze e gli italiani Giulio Sangirardi (Votiva Lux) e Gianluca Manini. Il loro EP di esordio “Loneliness for sale” riflette l’entusiasmo con cui è stato concepito e fissa l’asticella della qualità ad alti livelli. Il disco si apre con il pezzo che dà il titolo all’intero lavoro, un brano dotato di tutti gli elementi giusti per diventare una vera hit, con un suono accattivante, dinamico e avvolgente che sfocia in un ritornello di immediata cantabilità. La successiva “Traces”, dai toni più scuri, dotata di una struttura più squadrata e contraddistinta da un riff marcatamente rock, conserva comunque il gusto per la melodia in primo piano, così come il terzo pezzo dell’EP ”When Are You Gonna Wake up”, che disegna un paesaggio più morbido senza però perdere mordente. Il brano conclusivo “Dagen H” è quel finale che non ti aspetteresti. Infatti si tratta di uno strumentale ipnotico che si discosta dai pezzi precedenti per la sua matrice esplicitamente krautrock. Il comun denominatore del lavoro è comunque la perfetta fusione tra strumenti e cantato, in cui i musicisti creano l’ambientazione sonora migliore per far risaltare la voce di Mark Gardener. Il cantante inglese ha composto le linee melodiche e i testi dei tre brani che vedono il suo coinvolgimento alla voce la sera, in un clima adatto alla riflessione e all’introspezione e, dal punto di vista delle tematiche, il risultato è un’analisi dei rapporti umani e delle dinamiche che si creano nell’interazione con chi attraversa il cammino della nostra vita.
Giulio Sangirardi (chitarra) e Gianluca Manini (produzione) si sono resi disponibili a parlare non solo del progetto Nord Electric, ma anche della loro concezione di musica e delle loro radici in quanto musicisti.


- Loneliness for sale, il brano che dà il titolo all’EP nel ritornello dice “devi ballare come se nessuno ti guardasse, cantare come se nessuno ti ascoltasse”. Si tratta della necessità di riconquistare la propria libertà?
GIULIO – In realtà dovresti chiederlo a Mark perché i testi li ha scritti lui. Comunque ne abbiamo parlato un po’ insieme. La base di quel testo è la solitudine che porta a conoscere altre persone online. So che è ispirato a una persona, però di più sul testo non saprei dire. 
- Dal punto di vista sonoro “Loneliness for sale” è un pezzo incalzante che sfocia in questo ritornello molto orecchiabile. Secondo me è una vera hit. E’ stato frutto di tempo e costanza o vi è venuto spontaneo, di getto?
GIANLUCA – E’ vera la mezza via. C’è stato un lavoro che ha portato a quel determinato risultato, ma è anche frutto del sentimento. La fase creativa ha avuto vari step, Giulio aveva una serie di idee che mi ha sottoposto e su cui poi abbiamo lavorato in studio. E’ stato un costante aggiungere qualche elemento però in modo abbastanza lineare, cioè non è stato troppo meditato. Il collante vero lo ha fatto Mark con il testo. Le linee melodiche che ha creato hanno reso coerente il tutto. Quando Mark ha sentito “Loneliness for sale” per la prima volta mixata ha detto anche lui la stessa cosa: “we have a hit”. Ed effettivamente anch’io che quando faccio le cose non le riascolto mai, questo è uno di quei brani che invece riascolto sempre volentieri. Se vogliamo semplificare dicendo che una hit è qualcosa che colpisce e che rimane effettivamente è così, possiamo dargli questa definizione. 
GIULIO – Poi speriamo che diventi una hit sul serio. 
- Nei pezzi si sente l’influenza di gruppi come i Jesus and Mary Chain. E’ una reference che avete in comune?
GIULIO – No in realtà no. Quello che stiamo un po’ scoprendo con le recensioni è che ognuno ci sente qualcosa di suo, qualcosa di qualche gruppo. I Jesus and Mary Chain non sono qualcosa cui abbiamo pensato, perlomeno scientemente quando scrivevamo il pezzo. Né io con le chitarre, né Gianluca con il resto, né Mark. Però non sei il primo che ce lo dice e infatti ne ho parlato con Mark e anche lui ha detto che non era così. Però è un gruppo che mi piace molto per cui può darsi che dipenda dal fatto che le cose che ascolti si sedimentano dentro di te e vengono fuori. Però se suona un po’ alla Jesus and Mary Chain non è stata una cosa voluta. Se vuoi invece sapere a quale gruppo ho pensato mentre scrivevo il riff sono i New Order. Però non ci offendiamo assolutamente (ride). Diciamo che ci sono un bel po’ di cose lì dentro. 
- Passiamo al secondo brano “Traces”, la strofa dice “Everything not saved will be lost like me”. Può essere un brano che aiuta a ritrovare un po’ la traccia di sé stessi quando ci si sente persi?
GIULIO – Pur non sbilanciandomi sui testi di Mark devo dire che per me funziona così, però credo che anche per Mark sia così perché tutti questi brani lui li ha scritti di sera, in studio, quando aveva finito di lavorare e penso sia un processo un po’ catartico. Per me sì la musica funziona molto così per cui, per quanto riguarda me, ti direi sì. 
GIANLUCA – Non era una volontà iniziale nel senso che il progetto prende poi delle pieghe che non puoi prevedere, però secondo me è abbastanza intimista nella misura in cui c’è molto del vissuto di Mark in questi brani. C’è infatti questa sensazione costante di rappresentare un vissuto che poi rispecchia tante delle nostre questioni quotidiane. Quindi è riferito magari nello specifico a situazioni sue ma si può tranquillamente generalizzare, secondo me. 
- L’ultimo brano, lo strumentale “Dagen H” è ipnotico e si allontana molto dal resto dell’EP. Qui l’atmosfera, non so se condividete, è krautrock. E parlarne come strumentale come del tutto privo di voce è improprio perché si sentono qua e là, soprattutto nel finale, delle voci stentoree come se fossero quelle di una radio lontana. Qual è la funzione di queste voci?
GIULIO – Bella domanda. Sì assolutamente kraut, l’ispirazione è stata quella e la batteria motorik ne è abbastanza rivelatrice. Le voci sono state tratte da radio a onde corte dell’est europeo che ho preso io perché ho una radio molto vecchia con cui ogni tanto mi diletto a cercare delle stazioni strane. Devo dire che personalmente le ho messe, poi sentiamo Gianluca cosa ne pensa, per cercare di umanizzare un po’ un brano strumentale, volevo inserire comunque un elemento di voce, ma sono fondamentalmente una decorazione. 
GIANLUCA – In realtà non sappiamo neanche cosa dicono, quindi potrebbero veramente dire le peggiori cose, però è qualcosa che in fase di realizzazione del brano ci è piaciuta indipendentemente dal significato nella misura in cui comunque è un’eco di voci lontane, qualcosa che percepisci all’interno quasi come se fosse un percorso. E’ un brano abbastanza ipnotico ed è ridondante rispetto a sé stesso, si ripete all’infinito ed è un po’ come se queste voci facessero parte del viaggio. Sarà poi più preciso Giulio, comunque “Dagen H” è un giorno particolare in cui si invertì il senso di marcia delle strade in Svezia e quindi questo titolo riporta al viaggio, alle strade e ad un mondo, che è un riferimento che abbiamo in comune io e Giulio ossia i Kraftwerk, che hanno spesso parlato della tematica del viaggio. Anche loro avevano questi ritmi abbastanza ipnotici che ti portavano atrove. 
GIULIO – C’è un video inedito che dobbiamo ancora pubblicare che contiene tutte immagini di viaggio. Per cui l’ispirazione è un po’ quella. “Dagen H” è il giorno del 1966 in cui la Svezia ha invertito il senso di marcia delle strade. Ci piaceva il suono e ho trovato delle immagini curiose perché non era facile convincere le persone a cambiare verso di marcia dal giorno alla notte. Quando cercavo di approfondire questa cosa ho trovato tutte immagini in bianco e nero di automobili in viaggio per cui il video è effettivamente tutto così. Credo che l’ambientazione si sposi bene con la ritmica motorik.
- Com’è nata l’amicizia tra te Giulio, e Mark? Come vi siete conosciuti? Avete se non sbaglio collaborato nel gruppo Votiva Lux. Mark ha fatto un featuring sicuramente in un pezzo dei Votiva Lux.
GIULIO – Sì, le ultime cose dei Votiva Lux, che sono del 2022, sono due singoli con Mark. Questa è stata la prima collaborazione. Poi sono un superfan dei Ride e infatti ho conosciuto Mark a Milano nel 1992 quando gli ho chiesto un autografo. Questo è vero, ma è una piccola storia. La collaborazione con i Votiva Lux è nata perché volevo che mixasse un disco cui stavamo lavorando e quando lui ha sentito i pezzi ha detto “se volete posso anche cantarci sopra”. Quindi dato che adoro come canta Mark e sono davvero un grandissimo fan dei Ride ovviamente ho detto di sì. Dopodiché quando io e Gianluca abbiamo iniziato a lavorare al disco ci è venuto spontaneo pensare a lui come voce perché ci piace molto e, secondo me, si sposa bene con il tipo di sonorità che abbiamo. La vera conoscenza è stata a Manchester nel 2021-2022 quando ci ha invitato a un concerto dei Ride per cui siamo andati e lo abbiamo conosciuto lì. Siamo diventati amici e ci vediamo, non spesso, però un paio di volte all’anno quando ad esempio viene in Italia. 
- Un’altra domanda che temo avrà una risposta negativa: riuscirete mai a portare queste canzoni dal vivo?
GIANLUCA – E’ un problema di logistica perché noi siamo emiliano romagnoli, Mark è inglese e poi abbiamo una band che potrebbe essere a formazione variabile, mancherebbero batteria e basso per ricreare un po’ l’atmosfera del disco. E’ chiaro che sarebbe molto bello, ci piacerebbe anche perché siamo entrambi sicuri che i brani dal vivo renderebbero davvero bene. Poi ti devo dire che io  conoscevo pochissimo i Ride e li ho scoperti con Mark, ma soprattutto grazie a Giulio e dal vivo sono una band incredibile. Sono di quelle band che suonavano quando la musica si suonava veramente, non come avviene adesso. L’impatto dal vivo e quindi il poter suonare con Mark sarebbe molto bello, l’effetto sarebbe valido. 
- Rispetto allo stile cui più vi accostano che è lo shoegaze che, guardando la traduzione, equivale in italiano a guardarsi i piedi, penso per non sbagliare il pedale dell’effetto che serve in quel momento per la chitarra, mi viene spontaneo chiedervi se è un tipo di musica che si basa molto sugli effetti.
GIULIO – Sì ci sono degli effetti sulle chitarre come riverberi, delay però devo dire che sono quelli classici di parecchio rock alternativo. Non siamo un gruppo pinkfloydiano con quattrocento effetti dietro, ma sicuramente l’eco che è il mio effetto preferito c’è abbastanza, ma sono canzoni che reggono anche con una chitarra acustica. Infatti se si ascolta bene, specie in “Traces” e “When are you gonna wake up” la chitarra acustica sotto c’è tanto, un po’ per dare la ritmica, ma anche perché sono canzoni che potremmo fare anche unplugged. Da questo punto di vista non sono strettamente legate all’uso degli effetti, poi con il genere un po’ ci finisci dentro perché Mark ha inventato il genere con il suo gruppo, i Ride e come loro i My Bloody Valentine e gli Slowdive sono band che hanno fondato lo shoegaze, per cui è facile anche metterci in quella casella. Il che va benissimo, è musica che io ascolto.
GIANLUCA – Diciamo che non è l’effetto che fa il suono, ma è un po’ il contrario, cioè è il suono che sfrutta l’effetto nella misura in cui poi a livello di produzione e di mix tutti gli effetti che ho inserito in realtà sono tanti tra delay, riverberi eccetera, ma non partivano dal suono ed erano in realtà funzionali al suono finale del brano. L’effetto aiuta a rendere la sonorità globale. 
- A proposito di suoni e di brani, qual è stato l’acquisto di un disco di un artista o una band che non conoscevate più istintivo della vostra vita?
GIULIO – Per me la risposta è banale, il primo album dei Ride. Ho visto la copertina in vetrina dal Disco D’Oro di Bologna con questa bellissima foto del mare che sembra quasi presa da un libro giapponese e sono entrato e l’ho comprato perché ho pensato “questo per forza è bello”. E poi era il 1990 quando i dischi si compravano senza averli sentiti prima e a volte andava male, ma in questo caso è andata molto bene perché è uno dei miei dischi preferiti.  
GIANLUCA – Il primo disco che effettivamente mi viene in mente che in qualche modo mi ha dato un input diverso rispetto alla musica è “Mr Lucky” di John Lee Hooker, nel senso che ero totalmente lontano dal mondo del blues quando l’ho acquistato, ma è un disco che mi ha portato verso quel mondo e fa molto parte del mio bagaglio musicale, l’ambito blues proprio classico, le radici. E’ il primo che mi viene in mente, poi proprio in vinile. 
- Vorrei condividere con voi ancora questa riflessione. Gli attuali cinquantenni erano ventenni negli anni 90 quando ci fu il grunge, l’ultima grande ondata di rock e, di solito, molti restano ancorati a quello che ascoltavano a vent’anni. In genere, in media, i giovani sono più squattrinati, mentre i cinquantenni magari hanno una situazione economica più stabile e maggiori disponibilità economiche. Data questa premessa, considerato che la musica è comunque un business, perché oggi il rock fa così fatica a farsi ascoltare? In teoria le persone che potrebbero andare più facilmente ai concerti sono i cinquantenni che ascoltano rock.
GIULIO – Una bella domanda. Devo dire che ai concerti cui vado io la gente ha più o meno la mia età, nel senso che quello che ascolto io è seguito all’80 per cento da gente che va dai 35-40 anni in su. Poi mio figlio ai concerti ci va ma lui ascolta metal per cui è un altro mondo. Il discorso economico credo che c’entri fino ad un certo punto, credo che sia più un discorso sociale. Alla nostra età molta gente fondamentalmente sta a casa, esci per il grande evento o per quello della tua piccola nicchia per cui credo che sia un discorso più legato all’età che ai soldi. Poi sicuramente un ragazzino fa più fatica ad andare a vedere, ad esempio, i Radiohead dato il costo. Magari il cinquantenne con lo stipendio compra più dischi, ha ancora il feticismo dell’Hi-fi e manda avanti un mercato diverso perché compra ancora il supporto. Poi certo va all’evento, però credo che sia anche un po’ fisiologico che vadano fuori per i concerti i più giovani. Io sto molto volentieri in casa la sera (ride). Vado a concerti selezionati, pochi e in posti belli e comodi. Vado a teatro, te lo dico francamente. Non mi interessa adesso andare in un club, stare in piedi, era una cosa che ho già fatto da adolescente. Mi piace molto suonare e i concerti li farei anche adesso anche se devo dire che sento un po’ la vecchiaia. 
GIANLUCA – Questo è certamente un aspetto che influisce da un certo punto di vista. Ribalto un po’ la questione nel senso che ha avuto molto impatto sulla nostra generazione un certo tipo di musica che non ha poi avuto ricambio. Io sarei anche disponibile a valutare una new wave rock e andare a vederla dal vivo, ma non vedo un rinnovamento, nel senso che chi prova a cercare di fare questo ricambio generazionale, adesso cito i primi che mi vengono in mente perché così sappiamo tutti immediatamente di cosa stiamo parlando, i Maneskin, che qualcuno sostiene che facciano rock, finisce per fare tutte cose che abbiamo già visto e sentito meglio. Quelli della nostra età faticano ad approcciarsi a qualcosa di nuovo perché l’hanno già sentito e i giovani fanno fatica ad approcciarsi a qualcosa che è visto come nicchia. Non è il caso dei Maneskin che sono molto mainstream, un progetto totalmente commerciale, però i giovani fai fatica a portarli a sentire queste sonorità. Poi c’è un altro aspetto, la nostra generazione suonava molto per cui era più interessata alla musica suonata. Oggi ci sono pochi giovani che suonano rispetto alla percentuale di quelli della nostra età quindi è il modo di fare musica, che per noi è fondamentale in un modo e non lo è più per le nuove generazioni e viceversa. Poi magari un giorno io e Giulio andremo a vedere Sfera Ebbasta però non credo (ridono).

 

Le strutture musicali ricche e accattivanti ma mai troppo ridondanti, il gusto per la melodia e la capacità di scrittura che nasce dall’esperienza sono quei tratti distintivi che fanno dei Nord Electric una band con potenziale internazionale e che ha in mano le carte giuste per vincere il piatto.

Recensione e intervista a cura di Luca Stra





 

FESTIVETEN 021125 - AGGIORNATA SU SPOTIFY LA PLAYLIST CON UNA SELEZIONE DAL MEGLIO DELLE NUOVE USCITE DEL PANORAMA INDIE ITALIANO


Aggiornata su #spotify, nel player in questo post,  la nuova #festiveten di #riservaindie con le novità della settimana, e non solo, selezionate dalla nostra redazione. Un flusso di musica costantemente rinnovato, senza barriere di alcun genere, sotto forma di playlist con gli artisti che sono passati fisicamente nella nostra trasmissione e quelli che vorremmo ospitare, ovviamente tutti rigorosamente del panorama indie italiano. In questa #festiveten ci sono #notmoving #banadisa #julieshaircut #plasticdrop #ovo #malota #lilirefrain #marcosanchioni #lelebattista #theelephantman #laicaluna #ritmotribale #leatherette #lupevelez. Seguiteci sui nostri social facebook, twitter, instagram, e piacete (e magari condividete) la nostra #festiveten su spotify. Nessuna tessera e nessun denaro è richiesto per partecipare ed ascoltare #festiveten. Buon ascolto.
 

domenica 26 ottobre 2025

PLASTICDROP - LIFE, DEATH AND MIRACLES - RECENSIONE, INTERVISTA E REPORT DEL LIVE AL BLAH BLAH DI TORINO IL 16-10-2025 A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


La tenacia e il desiderio di realizzare i propri sogni sono la benzina che alimenta il motore dei Plasticdrop. La band sarda, nata come terzetto, si è stabilizzata dal vivo, nel recente mini tour italiano, in una formazione a quattro elementi ed è composta da Paolo Pani (voce e chitarre), Martina Manca (basso e cori), Andrea Bandino (chitarra) e Alessandro Brundu (batteria e cori). A gennaio 2025 è uscito il loro primo vero album, intitolato “Life, Death and Miracles” per l’etichetta Argonauta Records-Octopus Rising, che ha un roster internazionale e, quindi, apre loro importanti possibilità di farsi conoscere anche all’estero. “Life, Death and Miracles” è interamente dedicato ad un amico speciale per la band che ha deciso di togliersi la vita lasciando una ferita nei loro cuori che non può rimarginarsi. Un concept album, quindi, che riflette sull’esistenza, sulla morte e sulla rinascita con l’autenticità che solo un’esperienza così dolorosa vissuta in prima persona può dare. Il disco, molto compatto e coerente nel suono, ha il pregio di saper unire il post grunge e l’heavy rock con uno spiccato gusto per la melodia. L’apertura è affidata a “Life (I Want You To Hear me)”, prima canzone del trittico dedicato alla vita, alla morte e ai miracoli che segnano la nostra esistenza quotidiana. Il riff in primo piano si fonde con elementi inattesi come il coretto iniziale che richiama alla mente il britpop e la citazione di Daytripper dei Beatles. “Death (Not for you)”, secondo pezzo del trittico, affonda invece le proprie radici, in particolare nel refrain, nei Foo Fighters più diretti di album come “Wasting Light” rielaborando però il suono della celebre band americana in un’interpretazione personale. Uno dei punti di forza dei Plasticdrop sono i cambi di tempo e, da questo punto di vista, la traccia più emblematica è “2016”, un pezzo che spiazza l’ascoltatore con l’estrema dinamicità e che è uno dei pilastri dell’intero lavoro. Altri brani degni di nota sono “Simply beautiful” con il suo incedere da pezzo hard rock melodico anni 80 e la conclusiva “Miracles (Alive)”, terza e ultima parte del trittico vita-morte e miracoli. Con le sue chitarre compatte che costruiscono un vero wall of sound è una canzone dedicata alla rinascita ed ha una sezione centrale in cui, da una breccia nel muro del suono, affiora un momento intimo voce e chitarra.
L’intervista, realizzata al Blah Blah la sera della loro data torinese, si è sviluppata in una piacevole chiacchierata e, come avviene spesso in questi casi, ha rivelato molti aspetti dei Plasticdrop non solo come musicisti, ma come persone.


- Partiamo dal titolo dell’album “Life, death and miracles” che si può tradurre con “Vita, morte e miracoli”, un’espressione che in genere si usa quando si vuole raccontare tutto di una persona. E’ un album in cui volete mettervi a nudo, raccontare molto di voi?
MARTINA – E’ legato al concept dell’album che volevamo fosse composto da tre elementi. “Life”, “Death” e “Miracles” sono tre brani e tre personaggi che vanno poi a comporre anche la copertina dell’album. 
ALESSANDRO – Le tematiche affrontate nel disco sono la vita, la morte, in particolare ci sono alcuni testi che parlano di suicidio, quindi tematiche abbastanza delicate. Molti testi sono infatti dedicati a un nostro amico che purtroppo si è tolto la vita. Poi ci sono i miracoli, “Miracles”, perché nell’album affiorano anche tematiche sul superamento di certi problemi e quindi la rinascita, il miracolo dopo i periodi bui. Il disco quindi è strutturato su questi tre concetti, la vita, la morte intesa come i problemi che fanno parte della vita e poi la risoluzione di questi problemi. 
- Nel 2024 avete firmato con “Argonauta Records – Octopus Rising” che è un’etichetta che ha nel proprio roster, tra le altre, anche band americane e del Nord Europa. Questo vi dà una visibilità internazionale? Ho visto che compaiono vostre recensioni anche su blog e siti stranieri. 
MARTINA – Sì, dopo aver firmato con l’etichetta c’è stata tutta la campagna di promozione dell’album che ha spinto il disco su diverse piattaforme, diversi blog e effettivamente gli ascolti sono molto aumentati e abbiamo ricevuto tanti contatti dall’estero, ci hanno anche chiesto di andare a suonare negli Stati Uniti o in Germania. Il problema è che l’etichetta non ha un booking e quindi per fissare le date dobbiamo fare da noi. Date come questa di Torino le ho fissate io, ma per le date all’estero ci vuole un lavoro ben strutturato oppure si deve ricorrere a una Booking agency. Stiamo cercando qualcosa di valido ma per ora non abbiamo ancora trovato la Booking agency perfetta cui affidarci per le date in Europa. 
- Nell’album ci sono i tre brani di cui parlavamo, cioè “Life”, “Death” e “Miracles” che sono gli unici tre ad avere delle parentesi, rispettivamente “I want you to hear me” per “Life”, “Not for you” per “Death” e “Alive” per “Miracles”. Non penso che sia una scelta casuale.
ALESSANDRO – Sono i tre brani chiave del disco che più si accostano alla visione che ciascuno ha. “Life” parla delle aspettative di vita che una persona può avere.
MARTINA – Prima il brano si chiamava “I want you to hear me”, che ora è tra parentesi. Il titolo quindi è stato ripensato dopo che la canzone aveva già un titolo ed è stata scelta per impersonare la vita. Quindi le tre canzoni, in realtà, avevano già un titolo nell’album e poi abbiamo deciso quale fosse “Life”, quale “Death” e quale “Miracles”. 
ALESSANDRO – “Death” parla di una rottura, una problematica che fa parte della vita e “Alive” parla di rinascita.
MARTINA – “Death” in realtà può essere letta in diversi modi e ha delle sfumature in cui una persona può rivedersi quando attraversa momenti di difficoltà pesanti come la depressione, quando non si riesce a vedere una via d’uscita. E’ una canzone che può essere letta sotto diversi aspetti, ma comunque ci sono delle frasi che fanno riferimento a quelle problematiche. 
- L’attacco di “Life” con gli “whoo whoo” in realtà più che l’hard rock o il post grunge ricorda il britpop inglese. Volevate ottenere un effetto spiazzante?
ALESSANDRO – E’ stata una mia idea. In realtà quei cori nel brano non c’erano ed è una cosa nata durante le registrazioni. Una cantilena che mi è venuta in mente in macchina, mentre ascoltavo i premix del brano che ci aveva dato Alberto, da cui abbiamo registrato e che poi è diventato nostro chitarrista. Quando siamo andati a registrare le voci ho proposto questa mia idea dicendo “ragazzi secondo me ci sta bene”, l’abbiamo provata e ci piaceva. Però fino all’ultimo avevamo due versioni, una con i cori e una senza e alla fine abbiamo scelto quella con i cori. 
- Il riff di chitarra di “Life” che sfocia nel ritornello mi ricorda la prima parte di quello di “Daytripper” dei Beatles. E’ un’assonanza voluta?
PAOLO – E’ un riferimento decisamente voluto, una citazione, tant’è che nel finale viene ripreso pressoché interamente, una sorta di cameo, oltre che una citazione, un omaggio a un gruppo che, pur essendo nel 2025, continua a dare tanto a chiunque faccia musica.
- La fusione tra potenza e melodia caratterizza tutto il disco. Quanto è importante per voi la “cantabilità” dei brani?
PAOLO – E’ molto importante. Siamo cresciuti negli anni 90 e quel mix di potenza e armonia ci contraddistingue, fa parte di noi e non potrebbe essere altrimenti. 
MARTINA – Anche se tutti abbiamo avuto dei progetti diversi nel passato, Ale ha suonato con un gruppo hardcore, io ho suonato con un gruppo alternative rock, Alberto ha suonato con un gruppo metal, però la melodia è qualcosa che unisce tutti e quattro. Abbiamo trovato un compromesso. 
- Avete dedicato un pezzo al 2016 che è anche un brano interessante perché ha molti cambi di tempo. Qual è il motivo?
ALESSANDRO -  Il 2016 è stato un anno particolare per tanti aspetti legati sia a fattori personali, sia a livello musicale come band. Comunque sono anche cose nostre personali che vogliamo tenere per noi. Nel 2016 comunque ci siamo formati. Il testo è scritto da Paolo come tutti i testi del disco, a parte “Alive” che è stato scritto da Martina, Paolo ed io.
- I vostri brani nascono da jam session oppure arrivate in studio già con delle idee che poi sviluppate tutti insieme?
PAOLO – I brani nascono principalmente da idee che ho io, solo perché poi è più semplice per chi deve cantare i brani avere un’idea precisa sullo spirito del pezzo. Quindi arrivo con un’idea e poi con i ragazzi la si sviluppa in sala prove. Capita anche a volte che abbia un brano pronto e poi cerchi gli arrangiamenti con i ragazzi. 
ALESSANDRO – Qualche volta è capitato che anche io abbia portato qualche riff di chitarra. Sono il batterista però mi diletto a suonare la chitarra a casa e quindi qualcosa di buono l’ho sfornato anch’io anche se succede di rado. E’ anche capitato che un pezzo nascesse da una linea di basso o da un giro di batteria, però diciamo che nella maggior parte dei casi è Paolo che porta i riff in sala e poi si sviluppano tutti insieme. Strutture e cambi vengono decisi insieme. 
- Cosa volete trasmettere con la sezione centrale di “Miracles (Alive)” in cui restano in primo piano solo la chitarra e la voce effettate?
PAOLO – E’ un momento legato all’introspezione, quando ti rendi conto che per quanto le difficoltà della vita possano essere toste c’è sempre qualcosa che ti può portare a sentirti vivo, a vedere che c’è anche qualcosa di bello. 
MARTINA – Questo album è pesantemente segnato dall’evento di cui ti parlavamo prima, cioè la morte del nostro amico Carlo per suicidio. Era molto importante per tutti noi e questo fatto ci ha segnato nel personale e continua a influenzarci anche nella musica, perché nella musica esprimi quello che hai dentro, cose di cui spesso non riesci neanche a parlare. L’album risente tanto di quell’evento. Malgrado siano passati anni quasi tutti i pezzi contengono riferimenti a ciò che è avvenuto.
- Scrivete in inglese, avete mai pensato di scrivere in italiano per arrivare a un pubblico più vasto? Perché per quanto l’inglese sia una lingua veicolare non tutti gli italiani la capiscono.
ALBERTO – Premetto che essendo io arrivato a disco finito, cioè l’hanno registrato da me ma mi hanno chiesto dopo di unirmi per suonare la seconda chitarra, non ho messo bocca sui brani, sugli arrangiamenti, sui testi. Penso che sia bello essere un po’ campanilisti, ma se andiamo a vedere i numeri del pubblico anglofono ha un senso cantare in inglese e poter andare in tutto il mondo piuttosto che solo in Italia. Poi per noi allontanarci dalla Sardegna è sempre un impegno, una conquista e diciamo che stiamo andando “in continente”. Però quando si prende un aereo per Londra o Los Angeles, rispetto a prenderlo per Torino o per Milano dura di più il viaggio ma hai una visibilità molto più ampia, si aprono più porte. E’ proprio una questione di numeri. Secondo me si possono fare dei brani in italiano nel futuro però l’inglese è preferibile. 
PAOLO – Oltre al discorso che ha fatto Alberto, che è condivisibilissimo, è anche legato al fatto che cantare in italiano è più complicato che cantare in inglese, a livello proprio musicale. Non è facile fare un genere come il nostro e renderlo allo stesso modo cantato in italiano.
- In Sardegna, la vostra terra d’origine, è stato inventato il genere “spaghetti western” ad opera di Sergio Leone anche grazie ai paesaggi che sono simili a quelli del West americano. Quanto c’è della Sardegna nella musica che fate?
ALESSANDRO – In realtà nulla.
PAOLO – Non è in realtà una cosa che controlli, ma che, volente o nolente, hai dentro. Il fatto di vivere su un’isola, essere diciamo “recluso” dal resto del mondo e trovarti in un ambiente anche arduo da affrontare porta a delle sonorità che rispecchiano questa situazione. Questo vale per noi ma penso per tutte le band che arrivano dalla Sardegna.
MARTINA – Diciamo che c’è più fame di esplorare, di uscire, di far conoscere la propria musica anche a un pubblico diverso dal solito, perché alla fine in Sardegna ci conosciamo tutti, interagiamo nei vari progetti, però la necessità di far conoscere quello che facciamo anche a qualcuno che non ci ha mai visto è forte.
- Una band qui di Torino che si chiama “Band Pensanti” ha un motto molto acuto, ossia “il rock non è morto, lo hanno nascosto, sta riposando”. 
PAOLO – Sono decisamente d’accordo perché la storia è ciclica, ci sono cose che torneranno sempre perché quando qualcosa è bello va riscoperto. Poi ovviamente c’è un’evoluzione nei generi, non è mai un ripetersi ma è evolvere quello che c’è stato in un modo nuovo, pur con le stesse basi. Quindi “rock n’ roll never dies”, il rock non muore. 
- Ultima domanda su “Phoenicopter”, il vostro primissimo EP. Volevo parlare con voi di “Silence your mind”, che ha quell’attacco alla Biffy Clyro molto bello.
PAOLO – Anche quelli sono brani scritti da me, nati a casa, magari con una chitarra acustica. Tra l’altro io i Biffy Clyro li ho scoperti nel momento in cui mi hanno detto che certi nostri brani li ricordassero. Sono contento che sia una cosa che a qualcuno piace. 
- Dato che voi fate post grunge mi è venuto in mente, pensando ai Pearl Jam, che ad ogni concerto, nei tour dei primi anni 2000 in cui li seguivo, facevano uscire una locandina diversa, personalizzata, disegnata appositamente per quella data. Ho notato che per la vostra data di Como avete messo su Instagram una locandina che non mi pare sia riportata altrove. Fareste mai come i Pearl Jam dal punto di vista grafico?
MARTINA – Avendo la possibilità sì ma purtroppo nessuno di noi è un grafico. 
PAOLO – Mio fratello Mirko è un grafico fighissimo e lavora a Berlino con tante belle realtà, soprattutto stoner, metal. Ci siamo affidati sempre a lui per le copertine. Così come anche tutte le grafiche del nostro merchandising. La tua idea è molto bella ma, come diceva Martina, non essendo nessuno di noi grafico è una spesa. Ci autofinanziamo tramite i live, quello che andiamo a guadagnare viene utilizzato per pagare le spese.
MARTINA – Anche perché ti puoi immaginare che noi per arrivare dalla Sardegna abbiamo preso otto biglietti aerei all’andata e otto al ritorno perché avevamo gli strumenti da trasportare. Alessandro ha portato solo i piatti della batteria ma è comunque un ingombro notevole. Quando diventeremo ricchi e famosi lo faremo (ride).


Ho avuto occasione di vedere anche la band in azione. Infatti la sera del 16 ottobre 2025 i Plasticdrop si sono esibiti al Blah Blah di via Po a Torino, storico locale dell’indie alternative rock. Il concerto, di durata relativamente breve a causa di ritardi indipendenti dalla volontà del gruppo, è stato comunque una fedele cartina di tornasole del sound della band sarda. L’attitudine sul palco è espressione della loro esperienza, il massimo risalto viene dato alla musica senza particolari istrionismi per sottolineare l’importanza di concentrarsi sulle canzoni. Anche gli intermezzi parlati si sono limitati al minimo indispensabile per spiegare il significato di alcuni pezzi. L’acustica abbastanza buona ha dato risalto a tutti gli strumenti soffocando però a tratti la voce di Paolo Pani. Eccellente il lavoro di Alessandro Bundu, instancabile alla batteria, che ha trasformato ogni goccia di sudore in energia per l’intera durata del live. Si è trattato insomma di un sano e coinvolgente rock show alla vecchia maniera, di quelli di cui porti a casa piacevoli ricordi. La conclusiva “Miracles (Alive)” è il pezzo in scaletta che ha spiccato maggiormente con una resa dal vivo che supera anche la versione in studio. Complessivamente la resa live dei brani di “Life, Death and Miracles” è stata più che buona.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra











 

giovedì 23 ottobre 2025

#FESTIVETEN 24102025 - AGGIORNATA SU SPOTIFY LA PLAYLIST A CURA DI RISERVA INDIE CON UNA SELEZIONE DEL MEGLIO TRA LE NUOVE USCITE DEL PANORAMA MUSICALE ITALIANO


Aggiornata su #spotify, nel player in questo post,  la nuova #festiveten di #riservaindie con le novità della settimana, e non solo, selezionate dalla nostra redazione. Un flusso di musica costantemente rinnovato, senza barriere di alcun genere, sotto forma di playlist con gli artisti che sono passati fisicamente nella nostra trasmissione e quelli che vorremmo ospitare, ovviamente tutti rigorosamente del panorama indie italiano. In questa #festiveten ci sono #notmoving #laladra #umbertomariagiardini #giorgiociccarelli #ovo #malota #c+cmaxigross #marcosanchioni #lelebattista #nevecieca #laicaluna #ritmotribale #leatherette #krano. Seguiteci sui nostri social facebook, twitter, instagram, e piacete (e magari condividete) la nostra #festiveten su spotify. Nessuna tessera e nessun denaro è richiesto per partecipare ed ascoltare #festiveten. Buon ascolto.