martedì 17 giugno 2025

L'INVIDIA - NON CI GIRIAMO DALL'ALTRA PARTE MA AFFRONTIAMO LA VITA E LE TRAGEDIE DEL MONDO SENZA IPOCRISIE CON LA NOSTRA MUSICA - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI



In un’epoca in cui a fronte del totale disimpegno sociale di molti e del rimpiegarsi su se stessi dimenticandosi della realtà reale per prediligere le presunte meraviglie della realità virtuale, si sta finalmente affacciando una nuova generazione, la cosiddetta Gen Z, che invece rivendica la necessità e l’urgenza di un impegno sociale autentico. E si sa che ogni generazione ha bisogno di propri eroi musicali che ne siano portavoce, in cui potersi riconoscere. Una banda come L’Invidia ha raccolto questa istanza arrivata dal basso ed ha il coraggio di prendere posizione candidandosi potenzialmente a farsi portavoce dei giovani ma anche di quella minoranza di adulti meno accecati da smartphone e visori. Il quartetto salernitano, formato da Vittorio Mascolo, cantante e chitarrista, Giovanni Caiazza, batterista, Gino de Filippo al basso e Lorenzo Fiume alle chitarre ha recentemente pubblicato i primi due singoli del nuovo album atteso per il mese di luglio, ovvero “Crollano i palazzi” e “Mostri nell’armadio”. “Crollano i palazzi” si apre con un arpeggio di chitarra decisamente grunge e la voce di Vittorio Mascolo si staglia netta su un amalgama sonoro possente cantando versi come “vorrei dominare le guerre, tutte senza ragione, vorrei rimboccare le maniche e fermare i bombardamenti ai palestinesi e non restare a guardare quelle povere anime”. Il no alla guerra è netto, senza possibilità di equivoci e portato avanti con profonda convinzione. Il singolo più recente “Mostri nell’armadio” nasce, invece, da una delle tante esperienze dolorose vissute sul lavoro dallo stesso Vittorio per via del proprio lavoro, ossia la morte di un paziente in ospedale durante una notte in cui il cantante de L’Invidia era di turno come infermiere. Un attacco che richiama in parte l’inizio di “Confortably numb” dei Pink Floyd in versione più pesante introduce i versi “ho visto l’arcobaleno dopo una notte in ospedale”. Anche se la vita ci pone a contatto con tragedie simili bisogna in qualche modo trovare la forza di andare avanti. E L’Invidia è una band che fa della tenacia e della forza morale la propria bandiera. 
Abbiamo parlato con Vittorio Mascolo per farci raccontare di più sul progetto L’Invidia.



- Ciao Vittorio la vostra è musica impegnata, tratta delle guerre ma anche della vita quotidiana delle persone, ad esempio in “Mostri nell’armadio” tu descrivi una realtà tragica che hai vissuto sul lavoro. Quanto contano i testi nelle vostre canzoni?
- I testi sono molto importanti anche perché l’italiano è una lingua molto poetica che riesce ad arrivare tanto alle persone quindi, secondo me, va di pari passo alla musica. 
- A proposito del tipo di musica pensate che il rock possa tornare ad essere ascoltato da più persone?
- Tutte le mode ritornano, sia nei vestiti, sia nella musica o nella cucina le mode ritornano sempre quindi, secondo me, tornerà importante anche il rock.
- Il tipo di testi che proponete ben si sposa con un suono pesante come il vostro. Pensi che certe cose non si possano dire con una ballatina pop?
- Ovviamente tematiche importanti devono avere un suono importante ed è quello che noi cerchiamo di fare. Il suono è sempre molto aggressivo, molto distorto anche quando la canzone magari è meno ritmata ma resta sempre un suono corposo e profondo. Abbiamo molta cura del sound perché passiamo giornate intere a cercare di capire l’effetto giusto, la miscela giusta, quindi sicuramente ci teniamo tanto.
- In “Crollano i palazzi” esprimete un netto “NO alla guerra”. Ma secondo voi c’è un pubblico meno anestetizzato da social e realtà virtuale che può recepire?
- Sicuramente ci giriamo spesso dall’altra parte quando vediamo alcune scene in televisione perché non le viviamo in prima persona anche se sono realtà distanti pochi chilometri da noi. Sicuramente sì la gente pensa a sé e le cose scivolano addosso, anche nelle tragedie alla fine si continua a vivere normalmente. E’ questo che secondo me deve cambiare nelle nostre menti, anche nel nostro piccolo dobbiamo dare una mano a queste persone.
- “Mostri nell’armadio” mi ha incuriosito già per il titolo. Questi mostri rappresentano le nostre paure che noi chiudiamo nell’armadio per non vederle? 
- “Mostri nell’armadio” si può identificare in tante cose, può fare riferimento alle malattie, alle paure che abbiamo dentro. Ci sono tanti mostri nell’armadio. In questo caso come primo riferimento ci sono le malattie che a volte sono silenti ed esplodono all’improvviso o danno subito un colpo bello forte e chiaro alle persone. Essendo un infermiere faccio riferimento prima di tutto alle malattie che vedo ogni giorno e che purtroppo mi danno ispirazione. 
- Dal punto di vista musicale si sentono molto gli ascolti del rock anni 90, del grunge del punk. Quali sono i vostri artisti di riferimento, i gruppi o i solisti che vi hanno ispirato di più?
- Un gruppo che ci ispira tanto sono i Foo Fighters, ma anche i Queens of stone age, i Pearl Jam, diciamo tutta quella scia la anni 90 inizio 2000. E’ una cosa che accomuna noi quattro anche se poi ciascuno ha anche ascolti diversi. Ad esempio il batterista Giovanni viene dalla musica classica, ha fatto il conservatorio per cui ha una base un po’ diversa. Lorenzo ed io siamo più sul rock anni 70, quindi Jimi Hendrix, Led Zeppelin. Gino al basso parte più dagli anni 90. 
- Nel verso di “Crollano i palazzi” che dice “vorrei guardare al di là delle azioni sbagliate dove c’è sempre una motivazione che ci spinge a non morire dentro anche se crollano i palazzi”. Come ci spieghi questo verso?
- Questo ritornello di “Crollano i palazzi” è un ritornello di speranza, cercare di guardare sempre al di là delle azioni sbagliate nel nostro piccolo può servire a combattere la guerra, perché la guerra non è solo la guerra delle bombe, delle armi, la guerra accade anche nel nostro piccolo, tra le persone, anche una discussione accesa può essere guerra. Quindi è un’esortazione a guardare al di là delle azioni sbagliate, a cercare di confrontarsi senza andare oltre. 
- Invece tornando ai vostri brani pubblicati anni fa ho notato un’evoluzione nel vostro modo di suonare. Allora eravate molto più blueseggianti, avevate un altro tipo di suono di chitarra. Ci racconti questa evoluzione?
- Quei pezzi nascono da me chitarra acustica e voce sul divano poi in seguito sono stati riarrangiati con la band. Sono nati in modo diverso, perciò sono così. Poi a parte che in ogni band c’è un’evoluzione. L’abbiamo fatto anche perché io sono passato dalla chitarra acustica a quella elettrica quindi già c’è un sound più corposo. Come genere ci siamo un po’ induriti diciamo. Poi quei pezzi sono stati scritti più di 10 anni fa quindi ero un’altra persona, avevo un altro modo di scrivere. E’ bene che ci sia stata questa evoluzione.
- I due ultimi singoli usciti porteranno ad un vostro prossimo album?
- Sì è imminente. Uscirà il 4 luglio. Un album di nove brani che si intitola “Le Nazioni, Situazioni e Sanità”. 
- Sembra quasi un programma di governo
- (Ride) sì e dà anche il titolo a una nostra canzone. Puoi immaginare dal titolo le tematiche.
- Prima dell’album uscirà ancora qualche pezzo?
- No no uscirà l’album direttamente su tutte le piattaforme. 
- Lo porterete in giro in concerto?
- Sì saremo il 2 agosto a Calitri a un Festival che si chiama “Il Primo Maggio in ritardo”, poi faremo una festa nel nostro piccolo paesino e poi bisognerà programmare i locali da settembre in poi. 
- Per curiosità qual è il vostro paesino?
- Io e il batterista siano di Siano, mentre il chitarrista e il bassista e il chitarrista Gino e Lorenzo sono di Sarno. Siamo separati da una montagna praticamente. Da una parte c’è Siano e dall’altra Sarno. Quindici minuti dalla costiera amalfitana.



Ringraziamo Vittorio per l’amichevole chiacchierata e restiamo in attesa di ascoltare per intero l’album “Le Nazioni, Situazioni e Sanità” augurando alla band di riuscire a portare le proprie canzoni a più gente possibile per alimentare un movimento di consapevolezza dei problemi del mondo e della vita. 


Recensione e intervista a cura di Luca Stra




 


 

CòLGATE - MERITA FARE "UNA VACANZA INTERA DENTRO L'ORRIDO" - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Esordio col botto per i veneti Còlgate, band in attività dal 2018, giunti ora al primo album per l’etichetta La Tempesta Dischi, realtà tra le più solide in Italia, fondata dai pordenonesi Tre Allegri Ragazzi Morti. I quattro membri della band Marta Granzotto, chitarra e voce, Andrea Zottino, chitarra e voce, Giulio Dalle Vedove, basso e Matteo Costantin, batteria, dopo aver affrontato un lungo e saggio rodaggio hanno rifinito l’album nell’arco di tre anni per arrivare a dare ad ognuno dei nove pezzi che lo compongono il suono desiderato e testi ricchi di suggestioni che ricordano i migliori Afterhours. 
Il titolo del lavoro, “Orrido”, richiama alla mente atmosfere oscure e claustrofobiche, essendo l’orrido una gola profonda e stretta tra due pareti di roccia scavata dall’azione erosiva dei corsi d’acqua. I testi procedono per immagini come sequenze quasi filmiche, mentre il suono complessivo dell’album è un indie rock venato di pop, in bilico tra i Verdena, i Marlene Kuntz dei primi lavori e il grunge anni 90. I Còlgate sanno alternare ballate dolci e tragiche come il primo singolo “Asteria”, in cui Marta Granzotto, il cui timbro richiama quello di Eva Poles dei Prozac + e anche un po’ Sara Mazo degli Scisma, canta “io guardo il mondo dal retro della mia mente, ma lo vedo spento” su una musica che per contrasto dà un senso di allegra positività. E proprio “Asteria” è forse la punta di diamante del lavoro. In tutto l’album i Còlgate passano da atmosfere acustiche come nel brano “Se la luce continuasse a filtrare attraverso questa finestra” ad un muro di chitarre possente quanto coinvolgente. In un’epoca di musica usa e getta in cui, a causa dell’eccesso di offerta soprattutto sulle piattaforme streaming, siamo diventati incapaci di innamorarci di una band saltando schizofrenicamente da un gruppo ai mille successivi, un album come “Orrido” merita di essere riascoltato e assaporato per riuscire a coglierne le molte sfumature.
Siamo riusciti ad intervistare la band per approfondire “Orrido” e la loro storia.



- Partiamo dalla parola “buio”, che è molto ricorrente in tutto l’album. Che legame avete con l’oscurità, con il buio dell’orrido?
- ANDREA L’orrido per come lo intendo io è una voragine, uno spazio vuoto che non è riempibile, non è sormontabile il nessun modo per cui anche il buio dell’orrido è un buio statico, una sorta di interruzione delle comunicazioni, interruzione dei contatti. Immaginandoci la corrente alternata ci sono momenti in cui l’energia salta, fa il saltino e passa dall’altra parte. E’ un buio di non esistenza in un certo senso come è anche rappresentato nella serie “Twin Peaks 3”. Ci siamo immaginati questo, io in particolare, in alcuni momenti di passaggio della vita. Ci sono momenti senza continuità che semplicemente dobbiamo accettare così come sono senza avere una loro trama che ci possa dire come si è passati da “A” a “B” in maniera lineare. 
MARTA Mi trovo abbastanza in linea con quanto detto da Andre. E’ questo buio che deve arrivare e che non si conosce. Volevamo rappresentare anche quello che si immagina che debba arrivare. Volevamo rappresentare le esperienze future come delle stanze in cui entriamo senza accendere la luce. Questo rapporto luce-buio come il rapporto tra il nascosto e il conosciuto. 
- Un altro legame che ho trovato tra le vostre canzoni è la dimensione del tempo. In pezzi diversi cantate " sono uscita di martedì sera” e anche “contando i lunedì senti che il tempo passa”. 
- MARTA Essendo il tempo centrale non solo nei testi, ma anche nella storia di tutto il disco perché è stato un lavoro che si è evoluto nel corso di almeno tre anni. Essendo delle persone con molte cose da fare, con una vita molto piena soffriamo molto questa cosa di non avere abbastanza tempo per la musica e quindi lo scopo era descrivere esattamente quando succedono le cose per dare familiarità. Lunedì, martedì, questi elementi servono un po’ per contestualizzare la realtà di quello che sentiamo. Penso che questa cosa sia un po’ una dimensione in cui la gente possa immedesimarsi. Avere un po’ un senso familiare delle cose che raccontiamo, anche. 
- Nel brano “Crisma” dite “le pareti di una stanza disegnano per noi il profilo di una gabbia”. Cos’è il particolare che vi fa sentire ingabbiati?
- ANDREA Crisma è una canzone che parla delle rivoluzioni non portate a termine o lasciate a metà. Ci sono alcuni passaggi obbligati nella vita e passaggi che si dice siano obbligati. Io, che ho scritto il testo di “Crisma” stavo pensando al matrimonio come uno di quei passaggi che si pensano obbligati, ma non lo sono e passaggi come il dover scegliere il futuro impiego lavorativo dopo aver concluso il percorso di istruzione classico, ma è una cosa in più che uno può scegliere. Quindi si perde la reale possibilità di scegliere per cui le pareti di una stanza possono essere tali ma per molti diventano il profilo di una gabbia. Questo dover rispondere di alcuni obblighi che in realtà si dice che lo siano senza esserlo realmente.
- Dal punto di vista musicale “Orrido”, la title track è in bilico tra pop e grunge, grunge soprattutto nella ripetizione quasi senza fine della strofa “dentro all’orrido”. Voi come la definireste?
- MARTA Sicuramente ci sono delle influenze grunge perché ascoltiamo tutti un po’ questo tipo di musica, a parte Giulio che ha dei gusti un po’ più raffinati. Io e Andre abbiamo sicuramente, soprattutto Andre, abbiamo questa cosa degli Smashing Pumpkins, soprattutto la ripetizione di questi non dico slogan ma comunque versi ripetuti. La dimensione pop è sicuramente presente in quasi tutte le canzoni perché ci rendiamo conto che sono molto “catchy”, orecchiabili, a volte sembrano quasi un jingle, delle melodie molto “happy”, quasi sciocche ma con dei testi profondi, soprattutto “Asteria”, che sembra una canzone leggerina, ma in realtà ha nel testo tutte parole forti. Quindi non mi offendo a sentirmi dire che è pop perché mi rendo conto che un po’ rientra anche in quello stile. Magari possiamo chiamarlo dreampop.
- Tra l’altro visto che c’è anche Marta ne approfitto per dirti che la tua voce mi ricorda quella di Eva Poles e di Sara Mazo degli Scisma.
- Cavolo grazie per il paragone. Per quanto riguarda gli Scisma mi piacerebbe anche tanto esplorare quel tipo di musica lì, mi piace pensare che i testi siano colti uguali.
- ANDREA Diciamo che gli elementi pop sono messi lì nell’album quasi come una farsa, nel loro valore stucchevole, anche un po’ retorico. Ci sono tante cose che vengono dette della vita di tutti i giorni dentro “Orrido” che sono messe proprio lì di fronte all’orrido. Vogliamo far contrastare questi due aspetti, un po’ come nella copertina dell’album con la grandezza di quella costruzione in cemento che è una diga con di fronte a qualcosa di più spensierato come quei due ragazzini che corrono.
GIULIO Poi secondo me questa cosa ci sta perché essendo “Orrido” la title track dell’album anche per la sua ritmica grunge è quasi una discesa dentro l’orrido, però, come abbiamo lavorato noi, ci sono questi contrasti, quindi un immaginario un po’ più giocoso in contrasto con quello che può essere la profondità e l’oscurità di un orrido. Perché non immaginarsi questa discesa dentro l’orrido con timore, anche un po’ con paura dell’ignoto, però perché allo stesso tempo non scendere dentro l’orrido anche con un po’ di pop. Non essere sempre tutti a pensare “ah mio Dio cosa ci sarà”, ma pensare la discesa come una scampagnata tra amici che è stata un po’ quella che è la copertina dell’album. L’ho scattata io ed era una giornata del 2017 in cui eravamo io, Andrea e una nostra amica e siamo andati a farci un giro alla diga del Vaiont che è un luogo che ha una storia molto triste, molto seria. C’è tutto questo tipo di contrasti tra l’orrido, la diga, la felicità, il tempo. Tutto un filo conduttore che si stringe e non si slega mai.



- Nel vostro album ricorrono diversi miti. C’è Asteria, che per sfuggire alle avances di Zeus, che si era trasformato in un'aquila per raggiungerla, Asteria si trasformò in una quaglia e si gettò nel mar Egeo dove si trasformò in un'isola che prese il nome di Ortigia, ovvero "isola delle quaglie” e c’è anche Venere che ricorre in due brani. Da dove deriva questo legame con la mitologia?
- MARTA  Io ho fatto il classico e quando ho scritto “Asteria” mi stavo diplomando. In realtà non è tanto il fatto di usare i miti, quanto più di raccontare me stessa e come ero in quel momento attraverso queste simbologie e la classicità. Era più quindi perché stavo studiando in quel momento e quindi avevo la testa piena di queste cose, della letteratura greca. Mi piace molto cercare cose su internet, è un mio grande hobby, guardare tanto Wikipedia, i video di YouTube e mi piaceva molto il nome, semplicemente. La scelta di citare Venere invece deriva dal fatto che è il primo pianeta che si vede quando tramonta il sole e l’ultimo a sparire la mattina. Era una metafora di quando fai talmente tardi la notte che poi diventa presto.
ANDREA Su “St ria” ricompare Venere perché la figura di Venere che cerca di sfuggire a Zeus è quanto mai attuale, simboleggia il fatto che la donna è costretta a fare quattromila manovre per portarsi a casa la salvezza, l’incolumità. E quindi Venere più come simbolo della femminilità, della bellezza che  è una bellezza stanca, che sta crollando, affaticata, affannata perché c’è questa figura che non la lascia stare. Così è nata un po’ “St ria” che vorrebbe essere la sorella di “Asteria”. Abbiamo quindi Asteria che è intoccata e invece “St ria” che è affaticata, quindi una sorta di evoluzione. Però questa storia è arrivata dopo, quella di “Asteria” è come l’ha detta Marta. 
- In “Crisma” si sentono echi dei Marlene Kuntz, così come in “Donnie”. Sono tra i vostri ascolti, un gruppo che apprezzate?
- MARTA Sì io tra l’altro i Marlene Kuntz li ho visti live al Festival Suoni di Marca con gli Afterhours e hanno dei suoni pazzeschi. Li ascolto molto perché mi piace quel genere di musica italiana.
ANDREA Sì io i Marlene Kuntz li ho visti a Padova l’anno scorso, non li avevo mai ascoltati con attenzione ma ho pensato "caspita ma questo suono qui è molto simile a “Crisma”. Che invece è nata da un giro un po’ distorto di Dave Matthews che usa tanto questi arpeggini di due corde, è stato un po’ stonato ed è uscita “Crisma”. Però sì ci assomiglia.
GIULIO I Marlene Kuntz non sono tanto nei miei ascolti, anzi quasi per niente però li ho visti nel 2017 in apertura a Thruston Moore all’AMA Music Festival e sono forti. Però la mia ispirazione in “Crisma” sono stati un po’ i New Order, i Joy Division, quel basso pulsante che torna da “Crisma” fino alla fine dell’album. 
- La vostra scrittura sembra quasi essere per immagini, fotogrammi che sembrano apparentemente slegati tra loro e, avete citato gli Afterhours, bene in questo ricordano i primi Afterhours. 
- MARTA Quando abbiamo scritto i brani c’è stato questo momento in cui li abbiamo adattati all’italiano perché erano in inglese, però anche in inglese in realtà erano fatti per immagini. Ci piace molto usare le metafore, specialmente a me e Andrea, anche comunicando tra di noi. Ricordo che all’inizio addirittura ci parlavamo tipo come se fossimo quasi dei profeti, dei filosofi, perché piacendo ad entrambi leggere e piacendoci molto il cinema il fatto di usare tante metafore, tante similitudini lo usiamo anche nel quotidiano. Per cui per noi scrivere i testi in questa modalità non è tanto una ricercatezza quanto come noi comunichiamo.
- Un’ultima curiosità, preparando questa intervista ho saputo che siete in parti diverse del mondo. Dove esattamente?
- GIULIO Io sono in Portogallo. 
- ANDREA Io e Marta siamo entrambi in Veneto, però non siamo vicini. Io mi trovo a Padova e Marta, penso, a San Donà di Piave.
MARTA Sì sono a San Donà di Piave. Comunque ho vissuto a Venezia per due anni quindi eravamo in posti molto difficili per raggiungerci. 
ANDREA Il bello di quest’album è che alcune canzoni sono state scritte mentre eravamo molto vicini, proprio nella stessa zona e poi altre canzoni sono state scritte a distanza di tempo e anche di luogo e questo nell’album si sente. E’ bello poter dire che siamo diventati grandi scrivendo l’album. 
Avete in programma di fare un tour con quest’album?
- GIULIO Al momento fino a settembre sono 19 date, ne abbiamo già fatte un bel po’. Poi ne verranno altre con l’autunno e l’inverno. Ci stiamo dando da fare io con gli aerei, Marta e Andrea con la macchina. Per fortuna c’è stata molta attenzione nei nostri confronti e c’è stata tanta richiesta e io ringrazio tutte le persone che ci hanno contattato per suonare e anche per le interviste. E’ molto bello sapere di essere arrivati con la nostra musica al cuore e alla mente di molte persone ed è una bella soddisfazione. 
Ciò che fa di “Orrido” un album vincente è la riuscita commistione di generi musicali che gli conferisce uno stile tutto suo. E questa riconoscibilità è il primo passo per arrivare ad avere una solida fanbase nonchè ad un’ottima reputazione nell’ambito del mondo indie.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra




 

sabato 14 giugno 2025

#FESTIVETEN13062025 - AGGIORNATA SU SPOTIFY LA PLAYLIST CON UNA SELEZIONE DAL MEGLIO DELLE NUOVE USCITE DAL PANORAMA INDIE ITALIANO


Aggiornata su #spotify, nel player in questo post,  la nuova #festiveten di #riservaindie con le novità della settimana, e non solo, selezionate dalla nostra redazione. Un flusso di musica costantemente rinnovato, senza barriere di alcun genere, sotto forma di playlist con gli artisti che sono passati fisicamente nella nostra trasmissione e quelli che vorremmo ospitare, ovviamente tutti rigorosamente del panorama indie italiano. In questa #festiveten ci sono gli ingressi di #anhima #visconti #labriscolabugiarda #monkeycat #lacittabrucia #marcogiongardi #imthevillain #hernandez&sampedro #merilujacket #darkmatter. Seguiteci sui nostri social facebook, twitter, instagram, e piacete (e magari condividete) la nostra #festiveten su spotify. Nessuna tessera e nessun denaro è richiesto per partecipare ed ascoltare #festiveten. Buon ascolto 
 

domenica 8 giugno 2025

ALESSANDRO FORTE - IL RITORNO DI UN CANTAUTORATO AUTENTICO E SENZA TEMPO - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI

 


Nella vita di tutti ci sono ricordi indissolubilmente legati a canzoni e, ogni volta che le riascoltiamo,  riaffiorano dalla nostra memoria gioie e dolori. E’ questa la chiave di lettura dell’ultimo singolo del cantautore piemontese Alessandro Forte, “Clash”, edito con l’etichetta indipendente Ohimeme. Il pezzo, scritto, insieme a Francesco Bacci, già chitarrista degli Ex Otago, infatti simboleggia la difficoltà del protagonista a riascoltare i Clash, come faceva con la propria ex. Una riflessione amara, ma anche lucida su una relazione finita, con tutto il vuoto che questa fine lascia dentro, con la consapevolezza che è giunta irrimediabilmente al capolinea anche se si è spesa l’anima per salvare il rapporto. Ci si porta dentro tutto quello che si è vissuto insieme con un po’ di rimpianto, ma anche con una nuova consapevolezza di sè stessi. Quando, col passare del tempo, quella ferita si chiuderà, resterà una canzone intitolata “Clash” e farà piacere ricordare i momenti belli, più che non litigi e incomprensioni. Dal punto di vista musicale il pezzo è puro pop di buona fattura, da condividere, da cantare in coro ai concerti. Il filo rosso della produzione fino ad oggi di Alessandro Forte è quello dell’infelicità, espressa nei testi, che contrasta con l’aspetto musicale molto più positivo. Il singolo “Clash” farà parte, con altri pezzi scritti negli ultimi anni, dell’album di esordio del cantautore. Alessandro Forte si è reso disponibile ad una chiacchierata per capire meglio “Clash” e anche i singoli usciti in precedenza. 

- Ciao Alessandro, nel tuo ultimo singolo “Clash” canti “chissà per non farsi del male se poi esiste il trucco”. Ci stai riuscendo a trovarlo?

- Non ancora sarò sincero. Penso che sia una ricerca che prosegue per tutta la vita fino a quando non si capisce abbastanza di se stessi o si incontra la persona giusta per non farsi del male. Parte da noi stessi imparare a vivere una relazione senza pungere l’altro, trovare i propri spazi e capirsi che non è semplice. 

- Dal punto di vista musicale ho letto che il pezzo è stato scritto con Francesco Bacci. Come è nata questa vostra collaborazione?

- Francesco per essendo giovanissimo ha una storia lunghissima nella scena it pop italiana, è stato il chitarrista degli Ex Otago. Diciamo che avevamo amici in comune e io a un certo punto prendo coraggio, mi faccio dare il numero di telefono, lo chiamo e gli dico “Franci guarda io attualmente vorrei fare un album, ho questi brani e vorrei concludere questo percorso tematico. Il tuo suono mi è sempre piaciuto, incontriamoci”. Gli ho mandato il provino di un brano che si chiama “Disordine”, che uscirà poi a ottobre se non sbaglio. Da lì e nato tutto e dopo un po’ di brani abbiamo trovato questo suono. “X stare meglio” e Clash” sono stati prodotti da lui. Abbiamo trovato queste chitarre molto alla Mac DeMarco, un passato comune di ascolti punk per entrambi, abbiamo provato a metterli un po’ in italiano ed è uscito questo”.

- In “X stare meglio” canti “sono un infelice, questa è la mia condizione”. Il filo rosso della tua produzione musicale sembra essere quello dell’infelicità. I testi sono tristi in contrasto con la musica che invece dà delle vibrazioni positive.

- Sì l’idea era quella, riuscire a comunicare con molto trasporto, mascherando con la musica. Sono brani che vorrei che le persone cantino dal vivo, però i testi sono anche il riflesso di un periodo, sono stati scritti negli ultimi due anni che sono stati molto amari e riflessivi per me in cui stavo cercando ancora la forma sia musicale che mia come persona e sono il riflesso di quella malinconia. Devo ammettere che adesso che sono in un nuovo capitolo della mia vita e quindi usciranno cose sicuramente diverse. Per questo album che uscirà in autunno di quest’anno il filo rosso era proprio la crescita e trovare il mio posto nel mondo. E quando cerchi il tuo posto nel mondo passi anche momenti in cui ti senti un po’ perso. Da qui quella malinconia di adesso, però non sarà sempre così. Mi rendo conto che essendo quella la tematica i pezzi possano sembrare un po’ stucchevoli, ridondanti, però era mirato.

- Certo, poi si sa che la musica che un artista produce, se non è costruita a tavolino, riflette anche una certa fase della vita di una persona.

- E’ vero era un momento in cui cercavo, capendo poi anche con un’autoanalisi che il problema delle relazioni non era solo l’altra persona, ma anzi se porti delle tue pesantezze, delle infelicità non puoi sperare che l’altra persona ti salvi. 

- Sei un cantautore piemontese, ma appari molto legato al mare, per esempio nel tuo video di “X stare meglio” suoni proprio davanti al mare. Da cosa nasce questo tuo particolare legame con l’elemento acqua?

- Ho fatto l’Università a Genova poiché mio padre abitava lì ed ho quindi vissuto per un periodo a Genova. E soprattutto d’inverno la prima cosa che ti veniva in mente era fare una passeggiata sul lungomare e laddove la Riviera ligure d’estate si anima e vederla autunnale, invernale ti porta alle volte più malinconia rispetto a vivere sulle colline piemontesi. Sì è sicuramente riflessa nella mia musica quella sensazione del mare d’inverno. Il mare ti dà questo sguardo verso l’infinito e diciamo che è molto malinconico e riflessivo. Poi i cantautori genovesi hanno sempre avuto questo imprinting, da Gino Paoli a Tenco fino a De Andrè molto riflessivo diciamo.

- Parliamo un attimo del brano “Febbre”. Leggendo il testo ma guardando anche l’immagine in copertina mi sembra che, in questo caso, più che parlare del distacco da una donna, da un amore il tema sia il distacco dalla propria famiglia d’origine. 

- Come moltissimi della mia generazione, ma penso ancora attualmente i nonni hanno un ruolo fondamentale, vuoi perché i genitori sono sempre al lavoro si passa molto tempo con i nonni e si viene cresciuti un po’ da loro. Per cui la perdita inevitabile con l’avanzare dell’età di figure cardine come i nonni ti porta un po’ a crescere e senti questa perdita. Il verso “chiamo ancora te quando ho la febbre” si riferisce a mio nonno. Comunque diciamo che il bello di una canzone è che può essere interpretata in modi diversi.

- Sempre in febbre c’è una semi citazione di De Andrè perché scrivi “noi che siamo fiori tra la merda e siam diamanti. Quali sono i cantautori dai quali hai tratto maggiore ispirazione? Non solo i cantautori classici ovviamente, ma anche quelli contemporanei, le nuove leve.

- Diciamo che un certo pop degli anni 60, quindi diciamo Gino Paoli, Luigi Tenco, ma anche altri cantanti come Mia Martini, diciamo che c’era questa velata malinconia. E nel pop che ho ascoltato crescendo diciamo che non ho ritrovato quel tipo di malinconia. Poi certamente quando ho approcciato la musica diciamo un po’ più alternativa con l’esplosione nel 2016 della scena indie italiana diciamo che con I Cani Niccolò Contessa o il primo Calcutta ho trovato tanto, poi andando anche indietro nei primi anni 2000 ho scoperto anche artisti che mi ero perso perché semplicemente ero piccolo e non li conoscevo, quindi ad esempio gli Afterhours, Vasco Brondi. Lì ho trovato delle sensazioni più di malinconia che cercavo. 

- Pensi che l’affermazione di cantautori come Lucio Corsi possano portare a una maggiore attenzione verso questo genere di artisti da parte del pubblico e, perché no, magari anche da parte delle case discografiche che possa aiutare a far crescere questa nuova generazione di cantautori?

- Ci spero. Non so se poi veramente avverrà, ma sicuramente ci spero anche perché poi le case discografiche vanno dove ci sono i soldi e credo che l’ondata della musica trap o di tanta altra musica più leggera sia un po’ agli sgoccioli. Anche nel mondo dell’hip hop si cerca qualche artista che porti contenuti migliori e guardi magari anche a sonorità più vecchia scuola. Stanno andando benissimo cantanti come Sayf e Ele A che stanno portando dei contenuti e delle sonorità molto interessanti che mancavano nella scena hip hop quantomeno mainstream degli ultimi anni e hanno suonato anche su palchi importanti come il Festival MI AMI. Penso che con loro e il podio di Lucio Corsi e Brunori si possa far emergere bene il cantautorato perché, secondo me, ha tantissimo da dire e, soprattutto, non ha una data di scadenza. Perché ci sono delle storie vere, non usa e getta e ci siamo stufati di un certo pop di plastica scritto da venti autori quando poi c’è un brano scritto magari da due persone come Lucio Corsi e Tommaso Ottomano che arriva a tutti, anche in Europa e quella sincerità per me non ha prezzo. Se le etichette discografiche vedono che questa cosa funziona magari tornano a reinvestire sul cantautorato ed è una cosa di cui abbiamo bisogno perché è quel genere che ha quella bella condivisione dal vivo e diciamo che c’è bisogno di questa musica più reale, sincera. Certamente, diciamo che c’è bisogno di testi più profondi che diventino delle hit perché se tu, per esempio, vai a prendere una hit rock degli anni 90 come “Supersonic” degli Oasis ti rendi conto che il testo non significa assolutamente nulla, una parola dietro l’altra, mentre invece per contrasto il cantautorato ha testi che rimangono, non hanno data di scadenza dicevo, hanno un peso e un fascino immortale, secondo me è un investimento sul lungo periodo più giusto.

- Come cantautore sei stato definito indie, emo, poprock. Ma secondo te ha ancora senso dare delle etichette alla musica o esistono diciamo, due grandi categorie che sono la “musica bella” e la “musica brutta”?

- Io direi musica sincera e musica di plastica. Per me in effetti le etichette hanno perso un po’di senso, siamo molto fluidi come influenze, oggi una canzone cantautorale può avere dei bassi che arrivano dall’hip hop e quindi ha sicuramente meno senso. Queste distinzioni per carità possono servire per dire cosa ascolti, per metterti in una playlist ma di per sé ha poco senso come distinzione. 

- Ci puoi anticipare qualcosa sul tuo prossimo album?

- Sì, si chiamerà “Un posto cui appartengo” che è una frase estrapolata da “Clash” che è un po’ il centro e il tema è il percorso di crescita che avviene tra i 20 e i 30 anni in cui, per me almeno è stato così, devi capire chi sei, in cui finita la scuola e iniziando a lavorare ti formi come persona, perdi degli amici, ne acquisti di nuovi e vuoi trovare un luogo che chiami “casa” e non è propriamente semplice. Per cui tutte le canzoni parlano della crescita e di tutto quello che succede crescendo. Comunque sarà anche più chiaro una volta uscito l’album.


Come ci ha detto Alessandro Forte nella sua stessa intervista vedere che sta crescendo ed acquisendo spazio una nuova leva di cantautori decisi a dare alla propria musica un senso profondo, a trattare temi sinceri e accorgersi che ci sia un pubblico che se ne innamora e li segue dà finalmente qualche speranza in un futuro migliore per la musica stessa. Intanto aspettiamo il nuovo album di Alessandro Forte per scoprire gli altri pezzi che lo comporranno e vedere in che direzione stia andando la sua arte.


mercoledì 4 giugno 2025

TOMMASO IMPERIALI - INNI GENERAZIONALI PER NOI NATI PER CORRERE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTII


Cantautore comasco nato nel 1999, Tommaso Imperiali è uno di quegli artisti per i quali l’aspetto artistico musicale è inscindibile dalla capacità di raccontare storie in cui i giovani come lui, ma non solo, si possano identificare.  Il fatto di essere un grande fan di Bruce Springsteen e delle sue storie di gente comune che non molla mai si sente palpabilmente nel suo ultimo singolo “Inni generazionali”, che è una storia, raccontata in maniera molto diretta e senza particolari metafore, di incrollabile amicizia e sana “voglia di spaccare il mondo”, quella voglia che dà il coraggio di affrontare gli altri sempre con un sorriso, che piaccia o meno. Il sentimento prevalente che emerge dall’ascolto del brano è la contagiosa positività della giovinezza, quel coraggio, che certi ragazzi come Tommaso riescono a mettere in musica, di prendere di petto la vita con un pizzico di spavalda incoscienza, rialzandosi in piedi dopo ogni fallimento senza mai perdere la fiducia nel futuro. Dal punto di vista della scrittura musicale il pezzo è una ballata classica venata di rock con una melodia molto orecchiabile e coinvolgente che sfocia in uno di quei ritornelli che viene voglia di cantare in coro. 
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Tommaso per esplorare più a fondo il suo mondo e ciò che lo ispira.



- Allora Tommaso partiamo da un tuo ritratto musicale. Sei stato membro dei Five Quartets e ora sei solista, ma mi sembra, a vedere anche l’ultimo post sulla pagina Facebook della band, che siete rimasti in buoni rapporti. Perché vi siete sciolti e cosa ti ha lasciato quell’esperienza?
- E’ stato uno scioglimento in realtà molto parziale perché il Five Quartets rimangono la mia live band. Da due anni e mezzo circa il progetto a livello discografico è mio, a nome “Tommaso Imperiali”, ma per tutti i live che posso fare con la band di fatto chi mi accompagna sono i Five Quartets.
- Sappiamo che sei un grande fan di Springsteen, loro quindi sono un po’ come la tua E Street band
- Esatto è proprio quella cosa lì. Poi a livello discografico lavoro con il produttore Lorenzo Cazzaniga, mentre invece i live li facciamo sempre noi. Con alcuni di loro suono insieme da quando avevamo 14-15 anni, quindi da circa 10 anni. 
- Ora ti faccio una domanda strana. Immaginati di naufragare su un’isola deserta e che tu abbia a disposizione legno e utensili per costruire un solo oggetto tra un riparo dal vento e dalla pioggia e una chitarra. Che faresti?
- Rispondo un riparo dalla pioggia e dal vento perché essendo su un’isola deserta della chitarra me ne farei ben poco principalmente perché quale sarebbe il senso di suonare? Per me stesso? Quindi no punterei a salvarmi e poi a tornare a suonare il prima possibile.
- Hai un timbro vocale, sentendo in particolare “Inni generazionali”, vicino a quello di Edoardo Bennato. E’ un paragone in cui ti riconosci, che ti piace?
- Ovviamente sì mi piace moltissimo e in realtà me lo dicono veramente in tanti, ma è qualcosa che mi è venuto per caso, spontaneamente. Ovviamente lo metto tra i grandi però non avrei detto che mi ispiro a Bennato. Però davvero me lo stanno dicendo in tanti quindi evidentemente è qualcosa che c’è nella mia musica.
- Parliamo del testo di “Inni generazionali” mi ha colpito la frase “imparando a sorridere per confortare, chi ci vuole bene o per fare incazzare chi non lo fa”. Qual è la potenza sovversiva di un sorriso?
- L’idea è quella che anche un sorriso che può sembrare una manifestazione spontanea di uno stato d’animo, in verità è qualcosa che è fatto per uno scopo. Non è il sorridere per il gusto di farlo, ma diventa qualcosa di meccanico se vogliamo che viene fatto o per confortare un amico o per far incazzare, cioè far vedere che sorrido lo stesso. Quindi il senso è che quelle cose che sembrano spontanee poi scavando sono un po’ di facciata. 
- Nella canzone c’è questa storia di tre amici che è legata alla crescita insieme, al fatto di condividere delle esperienze. Ce ne parli meglio?
- Sicuramente sì, il tema è quello di tre amici al tramonto con la birra, le chitarre e la voglia di spaccare il mondo e cambiarlo, quindi questo quadretto da romanzo americano “on the road”, come dice la canzone, “la sintesi sfacciata di nostalgia e bellezza”, poi però uno si ferma a pensare e si rende conto che non ci siamo mai mossi da questi viali e viene un po’ l’ansia, l’angoscia che sia tutto di facciata, una brutta imitazione del vero sogno americano, di chi ha vissuto veramente quei momenti in modo autentico. Come in tutti i pezzi nuovi l’intenzione è di spingere molto sulla parte del testo, l’approccio cantautorale alla scrittura cercando però di dare allo stesso tempo anche molto risalto alla parte suonata. Fare quindi canzoni che siano cantabili da più persone possibile insieme, canzoni che si prestano bene al coro, non diciamo da stadio che è un po’ troppo, ma da arena.
- Ecco qui arriviamo a Springsteen perché diciamo che tu hai definito questo brano come “heartland rock” con una forte tematica sociale. Dammi una definizione di “heartland rock”.
-  Difficilissima, è quel movimento che parte da Springsteen e va in avanti e che è in grado di tenere insieme una scrittura cantautorale con un sound da rockband, quindi suoni potenti, approccio molto live all’arrangiamento. Un genere che ha avuto in Springsteen il suo punto di riferimento ma che è poi continuato negli anni con i vari The Killers, i Train e che adesso sta tornando molto in voga in America e in Inghilterra soprattutto con Sam Fender, Zach Bryan, tutto quel mondo lì. In Italia forse c’è un po’ meno un movimento heartland rock e il tentativo è proprio quello di portarlo anche da noi. 
- E poi questo genere di canzoni racconta una storia, anche nelle tue canzoni c’è lo sviluppo di una storia. 
- Sicuramente sì, il tentativo è sempre quello di raccontare delle storie che siano abbastanza concrete, personali, non nel senso che siano personali mie ma che parlino di persone, che si aprano a qualcosa di universale in cui più persone possibile possano rivedersi. L’ambizione inarrivabile è quella di fare appunto dei piccoli inni generazionali, canzoni che parlano sì di tre amici al tramonto ma che in verità vogliono parlare di qualcosa di più ampio. 
- Qual è stato il tuo inno generazionale per eccellenza, quello che ti ha fatto scattare la passione per la musica, il desiderio di diventare musicista?
- Bisogna per forza tornare a Springsteen poi scegliere una diventa difficile, se proprio dovessi direi “Born to run”, che sarà banale però è anche il primo pezzo che abbiamo suonato come band, cioè la band nasce, prima ancora che io ne facessi parte, con chitarrista, batterista e sassofonista che a 13 anni per scommessa dicono vediamo se il sassofonista è in grado di suonare il solo di “Born to run”. E’ il pezzo inno generazionale perché è quello da cui tutto è partito. 



- Facciamo un passo indietro per parlare un po’ del pezzo “Ragazzini viziati”. Mi ha colpito in particolare un verso che dice: “cominciano ad essere troppe le sere che si torna presto, le notti che non dormi e i giorni che passi a letto”. Questa sequenza di solito è un chiaro sintomo di depressione. 
- Decisamente sì, il pezzo non è particolarmente autobiografico. Anche nella prima strofa quando canto “cominciano a essere tanti i ragazzi con la faccia stanca” è una cosa che notavo nelle persone attorno a me e anche in alcuni miei amici molto vicini. Questa fatica a trovare stimoli nel quotidiano che è qualcosa che secondo me abbiamo vissuto un po’ tutti soprattutto nel periodo Covid, post Covid. Il pezzo è nato in quel periodo lì quando c’era la voglia di voglia di uscire ma c’era la fatica di farlo e tutto diventava macchinoso. Quindi si parla della mancanza di stimoli per alzarsi dal letto, motivi per uscire. Però è un pezzo in cui c’è anche una parte di speranza quando canto “c’è che serve un concerto e urlare tutto questo, in mezzo alle canzoni così fa meno impressione”, cioè se gridiamo tutti insieme questa nostra condizione forse ne usciamo. 
- Parliamo ancora del singolo “Le lune di Giove”, in cui ci sono lui e lei che vagano alla stazione di notte e dei versi che recitano “Adesso tocca a me solo per un secondo diventare quello che sei per me ogni giorno”. I piccoli gesti che sembrano insignificanti sono in grado di restituire un senso alla vita?
- Sì diciamo che tu hai detto “lui e lei” ma il testo è volontariamente ambiguo dal punto di vista di chi sono queste persone perché, per esempio, il mio chitarrista appena gliel’ho fatto sentire mi ha detto “ah che bella questa storia di padre e figlio”. Non ci avevo mai pensato che suonasse così, c’è chi ci ha visto padre e figlio, due ragazzi, chi ci ha visto una coppia. Partendo da questo stimolo ho deciso di tenere il testo più aperto possibile per far sì che potesse diventare qualcosa in cui più persone possibile potessero riconoscersi. 
- Il comun denominatore della tua attività come musicista è la condivisione.
- Sicuramente sì perché il terrore più grande che ho come cantautore è di cantare dei fatti miei che è l’errore peggiore che può fare un cantante e che capita piuttosto spesso. Il tentativo è sì di partire da qualcosa di autobiografico, ma di renderlo universale. 
- Nell’album dell’anno scorso “Meccanismi di difesa” c’è una canzone che si intitola “Tom Waits”, ce la puoi spiegare?
- Anche qui torna il discorso che facevo per “Ragazzini viziati”, perché è il pezzo più triste dell’album in cui diciamo che la speranza non è che abbondi però se vogliamo vedere il lato più luminoso è la testimonianza di come i dischi, gli amici e i concerti possono arrivare veramente a salvarti la vita. Canto “tornare con Diego dal concerto di Bugo cantando Tom Waits”. Diego è il mio trombettista, a quel concerto siamo andati veramente e tornavamo in macchina cantando Tom Waits”. 
- Abbiamo parlato molto dei grandi come Springsteen, ma nel mondo del rock contemporaneo c’è qualcosa che ti stimola dal punto di vista internazionale e anche italiano?
- Sì dal punto di vista internazionale come ti dicevo prima Sam Fender è fantastico e mi ci sto appassionando veramente tanto, poi Zach Bryan e Glen Hansard che ha qualche anno in più però è veramente la mia musica. In Italia ci sono, a parte gli storici intoccabili, un po' di cantautori nuovi che vale la pena ascoltare come Brunori che tra i nuovi è veramente forte. 
- Come sta il rock oggi, non ci sono più gli investimenti di un tempo sul genere e tu come la vedi?
- Sì però penso che in Inghilterra e in America ci sia un ritorno anche su grandi numeri del rock nel senso lato, nel senso che Sam Fender è primo in Inghilterra e in America gente come Zach Bryan stesso sono in testa alle classifiche. In Italia no però siamo sempre in ritardo di un quattro-cinque anni su queste tendenze.
- Nella classifica dei più venduti in Italia si trova ben poca roba attinente al rock
- Sì anche se stiamo assistendo al ritorno dei cantautori, pensiamo a Lucio Corsi, fanno benissimo.
- La tua cover di “The Wrestler” di Springsteen che hai fatto con Daketo ha vinto il contest “Cover me”. Quello che ho notato è come hai interpretato il pezzo, cioè che la vera cover non è una riproduzione pedissequa dell’originale, ci vuole un tocco personale come hai fatto tu. Che ne pensi?
- Sì esatto. E’ un pezzo cui sono affezionatissimo sia per il film che è uno dei miei preferiti ed è un pezzo che sentivamo molto nostro con il mio chitarrista Daketo che è il chitarrista dei Five Quartets. Quando abbiamo delle serate in acustico siamo noi due e mi segue sempre. Abbiamo fatto questo riarrangiamento e poi alla finale, a Bergamo, l’abbiamo suonata con tutti i Five Quartets. Vincere è stato ovviamente molto bello, ma è anche un bel concorso perché è molto sano, non importa tanto alla fine chi vince ma entrare a far parte di questa famiglia che si chiama “Noi e Springsteen” di Bergamo con cui abbiamo fatto tante cose in questi anni e mi ha aperto tante porte. 
- Al Fringe Festival, il festival della scena teatrale indipendente che si è tenuto a Torino, cui hai partecipato per la parte musicale dello spettacolo “Ecologia Capitalista”, ho visto che hai portato anche una canzone come “Society” di Eddie Vedder che ha una vocalità molto diversa dalla tua, diciamo che noi hai paura di confrontarti con voci così diverse dalla tua. 
- Vocalmente sì non ho paura, ma nel caso di Springsteen c’è da parte mia un atteggiamento un po’ più reverenziale e questo contest è stato veramente un unicum, perché come band facciamo raramente cover di Springsteen anche perché se si fa si fa bene, non lo puoi affrontare a cuor leggero. I nostri spettacoli adesso come adesso si basano quasi solo su brani originali però un paio di cover le mettiamo dentro perché comunque funzionano.
- A proposito di cover, oggi purtroppo gli spazi per la musica originale si sono ristretti, funzionano le coverband che si limitano a riproporre le canzoni di artisti famosi. Nulla da dire sulla capacità tecnica dei musicisti che ne fanno parte perché sono bravissimi, ma è proprio un problema di non avere spazi per la musica originale.
- Sì in questo momento il problema della musica italiana è proprio la mancanza di spazi piccoli per far suonare le nuove band che propongono musica originale e stanno iniziando. A Como siamo stati fortunati perché negli anni in cui eravamo al Liceo abbiamo potuto suonare tanto e si è creata una bella realtà, un bel giro, per cui riusciamo a fare dei numeri abbastanza grandi con il nostro pubblico che sera dopo sera torna. Per chi comincia adesso o per noi quando ci spostiamo dalla nostra zona diventa un problema quello di trovare spazi. La cosa bella sarebbe riuscire a costruire quello che abbiamo fatto a Como anche in altre città. Inizi a suonare nei localini, ti fai le ossa, la gente ti ascolta poi magari torna. A Como possiamo fare anche concerti nel teatro con 300 persone quindi fighissimo, ma se ci spostiamo dobbiamo ricominciare dai localini, dal basso. Secondo me l’approccio deve essere quello lì. 
- In te coesistono un cantautore e un cantante di rockband. In quale di queste due categorie ti identifichi di più?
- Diciamo che a casa mi sento più cantautore, mentre sul palco più cantante di rockband. Infatti diciamo che a casa tendo a scrivere in modo cantautorale poi vado a provare con la band e mi rimproverano e mi rimprovero da solo che mancano un po’ i pezzi rock n’ roll e allora vado a casa e scrivo dei pezzi rock n’ roll in ottica live.
- Nella tua band vige la democrazia? Nel senso che ognuno porta le proprie idee e poi si sviluppano insieme.
- No, assolutamente no. Diciamo che vige una dittatura illuminata (ride). Secondo me, a parte gli scherzi lavoriamo meglio. Fino al 2022 quando ci proponevamo come Five Quartet in senso stretto si doveva sempre mediare su ogni scelta con otto teste e quello che ci rimetteva di più era il sound, l’identità che veniva fuori molto meno precisa rispetto ad adesso. Ora il lavoro in studio, di arrangiamento è fatto in autonomia rispetto alla band e così sappiamo esattamente come suonare, cosa vogliamo e andiamo avanti così.
- Chi è il tuo produttore in quanto Tommaso Imperiali?
- E’ Lorenzo Cazzaniga che ha prodotto tutti i miei pezzi come Tommaso Imperiali. Lavoriamo insieme da fine 2022 diciamo da quando mi sono “messo in proprio”. Lui è una persona con un’esperienza enorme nel mondo della musica, lavora con molti grandi della musica italiana come Negramaro, Baglioni, poi ha fatto delle cose con Ultimo. Adesso vuole sviluppare dei progetti meno pop, meno mainstream per fare la musica che piace a lui, che coincide con quella che piace a me. Per cui ci siamo trovati e adesso lui è cofondatore dell’etichetta di cui faccio parte, che è AltaVibe. L’obiettivo è fare la musica che ci piace, però con un altro livello di professionalità. 


Professionalità senza dimenticare la passione per quello che fai. Questo è il credo musicale di Tommaso Imperiali come è emerso dalla chiacchierata che abbiamo fatto. Un musicista che ha deciso di puntare in alto, con la consapevolezza di avere i numeri per farcela ad entrare nella Serie A del rock cantautorale. D’altra parte, si sa, siamo nati per correre.


 

sabato 31 maggio 2025

NINA DUSCHEK - STORIA DI UNA ROCKER IMPENITENTE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Diventare musicisti veri richiede impegno, dedizione e molta caparbietà. E sono queste le doti che sta dimostrando di avere Nina Duschek, cantautrice altoatesina di Merano che ha appena pubblicato il suo nuovo singolo “Unapologetic”. Questo pezzo, insieme al precedente “My rules”, uscito a febbraio, rappresentano una netta svolta nel tipo di suono rispetto all’album d’esordio “Bandana revolution” del 2024. Si passa, infatti, da uno stile minimalista e cantautorale con al centro chitarra e voce a un sound più corposo che mescola l’elettronica con il rock. La voce si fa ribelle, contaminata con il rap, confermando la capacità dell’artista di giocare su registri molto diversi senza perdere la propria identità. “Unapologetic” e “My rules” portano l’ascoltatore nel cuore di una ragazza che ha deciso di prendere in mano la propria vita abbandonando la nicchia in cui si nascondeva nel timore di essere invadente per affermare, invece, il proprio diritto, la propria libertà di essere sé stessa. Nina si lascia andare, non trattiene più la propria gioia di vivere e si mostra al mondo spavalda e senza filtri. In entrambi i brani spiccano in primo piano un basso potente e distorto e le percussioni che danno un’impronta stilistica nuova rendendo l’insieme ballabile e accessibile ad un pubblico più vasto, senza per questo snaturare l’anima artistica di Nina. Importante nella definizione musicale del progetto è stato l’apporto del produttore tedesco Fabian Pichler.
Abbiamo avuto l’occasione di parlarle per approfondire la sua personalità e il suo approccio come musicista.


- Ciao Nina, ascoltando la tua musica e guardando i tuoi video mi è venuto in mente che somigli un po' alla regina degli scacchi che può muoversi e mangiare in tutte le direzioni. Ti riconosci in questa metafora?
- Grazie, lo prendo come un complimento. Sì mi fa piacere che i miei video e la mia musica diano queste sensazioni perché è anche quello che voglio trasmettere. E’ un sentimento di libertà che voglio che anche gli altri percepiscano.
- In “Bandana Revolution” hai messo a fuoco le tue doti cantautorali, mentre i due nuovi singoli che sono usciti “My rules” e “Unapologetic” hanno un suono molto più d’assalto, elettronico. Come ha preso forma questa tua seconda rivoluzione?
- Penso che in realtà anche “My rules” e “Unapologetic” valgano nel mondo del cantautorato. Io mi ritengo comunque una cantautrice perché tutto quello che scrivo viene da dentro di me e non potrei fare in un altro modo. Adesso con questo nuovo EP “My rules” volevo intraprendere un’altra strada, staccarmi da questa immagine che mi sono creata fino ad adesso di quella ragazza con la chitarra acustica, un po’ rock. Rimanere sempre nel mondo rock però sviare, entrare in un mondo un po’ più commerciale, una produzione più commerciale pur sempre mantenendo la mia identità. Infatti adesso con questo produttore con cui ho fatto l’EP abbiamo creato questo sound che ha una certa unicità, non è scontato, ci sono tutti quei filtri low fi, quel suono un po’ vintage però con tutti quegli elementi moderni. Insomma l’obiettivo era creare qualcosa di nuovo.
- “Unapologetic” è il manifesto di una persona che ha smesso di chiedere scusa, di avere paura di manifestarsi com’è, di cercare ad ogni costo l’accettazione sociale. Senti di aver trovato un po’ di più te stessa?
- Sì diciamo che l’idea mi è venuta un anno e mezzo fa quando ho scritto questa canzone, adesso è passato ancora altro tempo. Certamente più vado avanti su questa strada su cui mi trovo più noto che voglio farmi vedere per come sono perché richiudermi per me è come andare in autostrada con il freno a mano. Se tu senti che hai tutto questo amore da dare e in molti abbiamo u po’ questo problema, che vogliamo essere tanto, vogliamo essere tutto quello che siamo, però a volte abbiamo paura di farlo vedere perché la gente ci giudicherà. E’ questa la sensazione che ho e, secondo me, è una questione di tempo per ognuno di noi perché è difficile andare in autostrada con il freno a mano e a un certo punto ci rendiamo conto che non vogliamo più farlo, vogliamo dire basta e non vogliamo più trattenerci. 
- La tua caratteristica bandana richiama un po’ lo stile piratesco. Secondo te, per come è diventata la nostra vita è il momento di assaltare la nave e prendere il comando delle nostre vite?
- La bandana, sì mi piace questa metafora che hai appena detto, però mi è venuta in mente questa cosa della bandana quando ho cominciato a fare musica di strada perché volevo trovare qualcosa per cui la gente mi riconoscesse. Perché già il mio cognome è un po’ complicato, però magari poi le persone dicono “ah la ragazza con la bandana”. Per cui ogni volta che salgo sul palco ho la bandana addosso. Ed è per quello che il primo album si chiama “Bandana Revolution”, perché volevo trovare un filo rosso.
- Ci racconti un po’ di questa tua esperienza come busker? Come è nata, che cosa ti ha lasciato, quali sono le difficoltà di suonare in strada, di condividere magari la piazza con altri spettacoli?
- Diciamo che è nata un po’ da una sensazione di noia, alle superiori quando avevo 16 anni e stavo pian piano imparando la chitarra acustica da sola. A un certo punto mi sono detta “scendiamo sulla passeggiata che ho davanti a casa con i turisti tedeschi che passano e vediamo cosa succede se vado a cantare”. E quel primo giorno ho guadagnato 7 euro, è una cosa che non dimentico ed ero felicissima e a partire da quell’esperienza mi sono appassionata a questa cosa. Già il fatto di potermi guadagnare qualcosa in più a 16 anni era già tanto, poi questa cosa si è evoluta e ho iniziato a suonare nella città stessa, non solo fuori sulle passeggiate ed ho notato che la gente dopo un po' ti conosce e per me suonare in strada sarà sempre qualcosa che porterò con me e non è paragonabile a suonare sul palco. Anche quello è bellissimo ma quando suoni in strada proprio vivi la musica diversamente, non sei lì per soddisfare un pubblico ma suoni perché dà piacere a te e quelli che ti ascoltano ti vogliono ascoltare davvero. Può capitare che tu ti senta la responsabilità di intrattenere un pubblico con il tuo essere artista, però è sempre un modo di sentirsi liberi.
- Ho letto che nel 2023 sei arrivata prima in un contest chiamato Livetunes Italia, hai partecipato e parteciperai a molti altri contest del genere. Incontrare e confrontarti con altri artisti in questi contesti è una cosa stimolante, che può influire sulla tua produzione artistica?
- Di sicuro si può sempre imparare però non voglio mai mettermi troppo a paragone con gli altri, perché ognuno fa la propria strada, magari ha avuto o avrà le sue crisi e la cosa più bella secondo me è divertisti insieme. Ho conosciuto tanta bellissima gente che poi rivedo spesso ai contest e vivere questa esperienza insieme è di sicuro bellissimo. 
- Quali sono le tue fonti di ispirazione, i tuoi modelli musicali?
- E’ difficile perché ne ho tante e sono molto diverse tra loro. Adesso ultimamente per esempio ho ascoltato tanto Brunori Sas, quindi molte ballad, quel mondo tranquillo, un po’ acustico, però poi mi gasa anche tantissimo la musica da discoteca, quella potente. Ci sono questi due mondi che convivono in me. A volte emerge uno a volte l’altro a volte anche insieme e devo capire io come gestirli.
- Fare musica ti aiuta ad amplificare la tua personalità, fa da megafono interiore possiamo dire?
- Certo è un modo di esprimere quello che ho dentro, quello che voglio far uscire e quello che mi viene più naturale.
Le riflessioni di Nina Duschek ne danno l’immagine di un’artista in continuo divenire, aperta a ogni tipo di evoluzione pur mantenendo la sua integrità artistica così come la capacità di coinvolgere il pubblico. Aspettiamo con curiosità di vedere dove ci porterà il suo spirito libero.


Testo e intervista a cura di Luca Stra