lunedì 22 settembre 2025

CRISTINA DI FALCO - CHIAMAMI ESTATE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER DIAMANTI NASCOSTI


“Chiamami estate”, ultimo singolo della cantautrice di origine siciliana Cristina Di Falco, è un inno alla gioia, un pezzo sorretto da un arrangiamento semplice ma efficace che mette in risalto la melodia ariosa che profuma di sole, di mare e di tutti quegli elementi che fanno dell’estate un momento di spensieratezza che spezza la routine delle nostre vite. “Stare bene è quel che vale” canta Cristina sintetizzando l’essenza del brano. Colonna sonora perfetta per un viaggio verso Sud, “Chiamami estate” esprime il desiderio di recuperare quella parte di sé legata alle radici, all’infanzia. Dal punto di vista musicale il brano è pop in stile anni 90 e si ispira alla prima Elisa, che la musicista ci ha detto essere il suo principale punto di riferimento. Prima di “Chiamami estate” Cristina Di Falco ha pubblicato altri due singoli, “Dal mondo in una stanza” e “Edera”. In “Dal mondo a una stanza”, uscito a settembre 2024, la voce ricalca in modo più marcato le linee vocali di Elisa, ma anche di Giorgia dimostrando una buona estensione e una notevole capacità di modulare il canto. E’ una classica canzone d’amore che celebra la bellezza dello stare insieme. “Come imparare a non idealizzare tutto?” è la domanda. Perché si sa che amarsi significa essere quasi essere accecati dalla bellezza dello stare insieme, lasciarsi andare e perdersi l’uno nell’altro. Musicalmente il pezzo si ispira sempre al pop anni 90 e sa farsi notare per la sua aggraziata semplicità. “Edera”, primo singolo ad essere pubblicato a gennaio del 2024 ha una ritmica più mossa ed invita a scoprire sé stessi lasciandosi cullare dall’abbraccio dell’edera, che simboleggia l’amore e la natura come luoghi in cui ritrovarsi. Ed è proprio questo ritrovarsi il comun denominatore della musica di Cristina Di Falco, ritornare a quella dimensione in cui la nostra anima si sente protetta e libera.
La cantautrice ci ha rilasciato un’intervista per darci modo non solo di parlare dei suoi pezzi, ma di lei come persona.



- Partiamo dal tuo ultimo singolo “Chiamami estate”. Che rapporto hai con l’estate, cos’è che la rende così preziosa per te?
- Allora, per me l’estate è un po’ una stagione di rinascita. Parlavo proprio oggi con una mia amica e ognuno ha un momento dell’anno in cui sente di partire da zero e per me lo è l’estate. In parte probabilmente perché io sono nata in estate quindi c’è un legame da questo punto di vista e penso a quando fondamentalmente sono venuta al mondo. E’ una stagione in cui mi sento carica, energica e inizio sempre a fare qualcosa. In questo caso l’estate rappresenta un momento di transizione perché mi sto indirizzando verso nuove avventure, nuovi percorsi di vita per cui è stata un po’ una transizione, ma anche un momento di riflessione, vedere dove sono arrivata finora, insomma è questo. 
- Il tuo singolo si può definire un pop folk, si sentono influenze della musica americana, di vari artisti come per esempio Sheryl Crow. Ne ascolti molta di musica folk americana e folk in generale?
- Ma allora folk dipende, quello magari un po’ più commerciale, più pop, poi io sono dell’idea che è un po’ tutto collegato quindi magari il mio rifarmi a un artista poi magari quell’artista si collega ad altri artisti folk. Con i produttori del brano che sono anche dei musicisti abbiamo cercato di dare un po’ una vibe anni 90. Io ad esempio amo molto Elisa e Elisa a sua volta si sarà ispirata, come io mi sono ispirata a certi suoi brani della prima Elisa quindi stiamo parlando degli anni 2000, lei si sarà ispirata a sua volta ad altri artisti avvicinandosi di più al ramo folk. Poi in certe cose molto alla lontana anche Pino Daniele, più atmosfere a livello evocativo quindi immagini che mi ero fatta io in testa, quindi comunque artisti che mi hanno un po’ guidato, ispirato. Anche emergenti. 
- Nel pezzo canti anche alcuni versi in siciliano, quanto è importante per te il legame con la tua terra d’origine?
- Molto ed è qualcosa che sto scoprendo pian piano, perché io non vivo più in Sicilia e questo stare lontana mi ha in realtà aiutata perché è poi stando lontana che capisci tante cose di te, senti insomma magari la mancanza di casa e quindi mi sono avvicinata stando lontano e anche magari ad artisti che cantano in siciliano, banalmente Marco Castello è un artista emergenti siracusano, io sono proprio di Siracusa e quando un anno fa ho iniziato proprio a buttare giù quelle che erano le prime idee di “Chiamami estate”, anzi il brano era inizialmente tutto in siciliano perché era molto ispirato al suo genere al suo vibe.
- Guardando il video che accompagna il brano il protagonista, oltre a te, è il mare. Perché la scelta di girarlo in parte su una barca a vela?
- Perché in realtà io prima di allora non ero mai salita su una barca a vela quindi era un mio sogno anche perché vengo da una città di mare, ma non mi è mai capitato di salire su una barca a vela. Ho avuto occasione di vedere due volte la Barcolana a Trieste che è un evento bellissimo dove proprio gareggiano le barche a vela, quindi era una figura in cui anche io mi rispecchio ed è anche un po’ metafora di me stessa. Quindi volevo e quando ho cominciato a pensare al video con il videomaker che tra l’altro è il mio ragazzo abbiamo detto sarebbe bellissimo girarlo magari una parte in barca a vela proprio per questo motivo. 
- Non avevo mai sentito parlare della Barcolana, ci spieghi di più?
- E’ un evento velistico tra i più importanti del mondo che viene fatto ogni anno a ottobre. Riempiono praticamente il golfo di Trieste di barche a vela e ci sono più di mille imbarcazioni ed è molto suggestivo soprattutto se viene visto magari dall’alto e si vedono tutte queste piccole barche, questi puntini bianchi sul mare. Io sono molto paesaggista quindi questi scenari mi piacciono molto, al di là del fatto che sono legata al simbolo della barca a vela.
- Tu fai la busker, ti ho vista anche in vari filmati su YouTube, da quanto è che lo fai? E’ la tua professione principale o è ancora a livello amatoriale?
- Io lo faccio da due anni, un paio d’anni e mezzo, non è il mio unico lavoro, per un anno e mezzo ho fatto la cameriera e in parallelo ho portato avanti questo progetto, anche suonare nei locali, insomma il progetto artistico nella sua integrità. Però è qualcosa che sicuramente mi ha formato tanto perché quando io iniziai lo feci perché volevo mettermi in gioco, volevo fare la mia palestra, ecco. Perché comunque nei locali non sempre a fissare delle date, soprattutto all’inizio quando ancora sei inesperto. Quindi la strada è stata una vera e propria palestra. 
- Qual è la molla che ti ha spinta a decidere di far uscire musica tua? 
- Ma probabilmente sempre quel desiderio che ha qualsiasi musicista o cantante di emergere, che è forse anche una cosa un po’ egocentrica, ma secondo me è anche un po’ nell’artista, cioè quando si ha un animo da artista la voglia di far sentire qualcosa di proprio. Molte volte anche molti hanno detto guarda tu sei molto brava a cantare le cover però magari sei ancora più brava a cantare i tuoi inediti perché giustamente sono tuoi, quindi l’emozione che trasmetti la trasmetti ancora più forte e quindi è sicuramente importante per chiunque cercare di trovare il coraggio di fare roba propria perché poi è quello, superare quella paura del giudizio, quell’imbarazzo iniziale, poi uno si butta. 
- Quand’è che hai scoperto la musica nella tua vita, cioè hai detto “bella, questa vorrei che fosse la mia vita”? 
- Io diciamo canto da sempre, questa passione me l’ha trasmessa mia mamma che anche lei ha sempre cantato per passione ma non ha fatto mai concerti, però mi ha trasmesso questa sua passione quindi da piccolissima. Poi io ho iniziato un po’ ad esibirmi durante il Liceo in piccoli contest, però proprio come decisione, che ho chiarito che quella sarebbe stata la mia strada è stato quando ho iniziato a suonare come busker. Due anni fa mi sono laureata, ho finito il mio percorso di studi quindi ho detto “a questo punto devo chiarirmi le idee” e lì ho capito che quella era la strada.
- Parliamo un attimo dei tuoi due singoli precedenti che hai pubblicato. “Dal mondo a una stanza”, leggendo il testo, sentendo il pezzo è la storia di una storia d’amore. E’ così?
- Sì esatto. E’ un amore più idealizzato, un  po’ quello che quando sei adolescente, quando ti fai delle aspettative, delle idee molto romanzate di un amore che poi magari finisce, come è nella vita, non sempre le storie volgono a buon fine. Quindi è magari anche un po’ il superamento di questo amore idealizzato che rimane lì magari, un bel ricordo da guardare di tanto in tanto. Rimane in quella stanza, molto in stile film anni 90, infatti appunto lì cito anche i film degli anni 90, quelli romantici ambientati a New York. Questa canzone mi dava quell’atmosfera lì e questa è quindi quella che era l’idea del brano. 
- Invece nel tuo primissimo singolo “Edera” il cadere e rialzarsi grazie a qualcuno che ti tiri su è importante?
- Sì sicuramente. Quel brano rappresenta anche un po’ il mio legame con la natura che è qualcosa che voglio cercare di riprendere anche nei prossimi brani. La natura è qualcosa che ho riscoperto perché credo che l’essere umano abbia un po’ abbandonato il fatto che è un essere naturale ed è abituato a vivere nelle città e questo non lo fa stare bene, però quando riesce a riscoprirsi nella natura riesce a stare bene con sé stesso e con gli altri. E quindi questo brano parla un po’ anche di questo, cioè parla di amicizia, il riscoprire magari dei legami che aiutano a farti stare bene, però allo stesso tempo riscoprire questo rapporto con la natura. L’edera stessa molti la associano a qualcosa di velenoso però di base l’edera ha la funzione di avvolgere gli alberi e quindi in inverno li protegge anche dal freddo. Quindi è quello che in realtà fanno anche un po’ gli amici, quindi un significato molto profondo. 


Da questa chiacchierata Cristina Di Falco emerge come un’artista che, attraverso la propria musica non vuole solo condividere emozioni ma anche la propria visione della vita. Ascoltare i suoi brani è un’esperienza piacevole perché trasmettono un’atmosfera di serenità, gioia, come le vacanze in estate.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra




 

lunedì 15 settembre 2025

"SOMEWHERE THERE'S HAPPINESS INSTEAD OF PAIN" // GRANT HART (HÜSKER DÜ) NELLE PAROLE DI LJUBO UNGHERELLI





Entriamo nel locale che c’è ancora poca gente. Trascorre qualche minuto e vediamo arrivare un tizio tutto infagottato, in là con gli anni, un improbabile berretto verde di lana calato in testa e in generale l’aria del classico senzatetto a cui mancano parecchie rotelle. Un “badass from South Saint Paul”, com’era uso autodefinirsi, provato da una vita difficile, troncata il 13 settembre 2017 all’età di cinquantasei anni. Fino all’ultimo, ha continuato a esibirsi in giro per mondo, spostandosi in treno attraverso i cinque continenti, sprovvisto di computer e finanche telefono cellulare (almeno così narra l’epica, peraltro da lui stesso foraggiata), concedendosi volentieri all’affetto di un pubblico non certo oceanico ma profondamente riconoscente per essere stato toccato dalla Musica di Grant Hart.


Affrontando l’hardcore e il power pop col piglio di un novello Bob Dylan, liricamente a metà tra lo storytelling e il nonsense, amministrando i pedali della batteria a piedi scalzi e gridando nel microfono, che si trattasse di fare i cori o di essere la voce principale, Hart ha attraversato quarant’anni di storia della musica con la discontinuità e la sregolatezza di ogni Genio che si rispetti, però cercando sempre di reinventarsi e di guardare avanti, benché fosse depositario di un canzoniere che avrebbe potuto farlo campare di rendita (artistica) senza doversi dannare più di tanto per inserire nelle scalette dei concerti composizioni inedite. E, parlando più spietatamente, benché fosse consapevole di avere i giorni contati.


Quel signore apparentemente un po’ svitato di cui si diceva all’inizio, potrebbe comparire in un remake del film di Virzì “My name is Tanino”, quando il protagonista incontra il suo idolo Chinaski, ormai derelitto. Senz’altro meno estremo in tal senso, e comunque lontano anni luce dallo stereotipo della fulgida icona del rock underground che Grant Hart impersona con pieno merito, l’uomo in questione canta, suona la chitarra, concede udienza ai fan prima e dopo il concerto, si accomoda al banchetto merchandise per vendere i suoi stessi cd. Un’umanità finanche esasperata, un’etica del “do it yourself” forse anche obbligata dalle circostanze. Ma poco o nulla, in realtà, può scalfire il fulgore dell’icona. Dell’autore di “2541”, “Never talking to you again”, “Sorry somehow”, “The last days of Pompeii”, “Green eyes”, “Don’t want to know that you are lonely”, “Old empire”, “She floated away” e decine di altre.


“Ho smesso di suonare ‘Diane’ per lo stesso motivo per cui l’ho scritta”, dichiara il signore malmesso di cui sopra, ormai ritrasformatosi nell’icona Grant Hart che torna sul palco, richiamato per il bis. La storia di una donna rapita, violentata e uccisa, narrata in prima persona dal suo aguzzino, ha evidentemente convinto Hart che qualcuno possa interpretare in chiave “eroica” il racconto, disincentivandolo così ad alimentare una rilettura distorta di una tormentata riflessione sul lato più oscuro della natura umana. “Al suo posto, suonerò un altro pezzo tratto dallo stesso disco.”
Il concerto si chiude dunque sulle note di “It’s not funny anymore”. Non è più divertente. Non è più divertente sapere che abbiamo perso Grant Hart.


Tutti i panegirici piovuti a cascata in questi giorni, quantunque scontati e prevedibili, recitano solo la sacrosanta verità. Per convincervene ulteriormente, fatevi un giro sulla giostra di un uomo che ha usato tutti i suoi sensi per tramandare una “legacy” artistica che sopravvivrà a qualunque malattia terrena.
“…somewhere there’s happiness instead of pain…” Grantzberg Vernon Hart (1961–2017)


Testo e foto di Ljubo Ungherelli

domenica 14 settembre 2025

NEVECIECA - SOTTO LA CENERE COVA LA FIAMMA DEL GRUNGE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Con all’attivo tre buoni singoli i Nevecieca, band di Varese di matrice grunge e hard rock sta costruendo con attenzione e passione un progetto musicale in grado di assimilare i classici rielaborandoli in una prospettiva diversa e originale. “Cenere”, l’ultimo singolo uscito nel mese di luglio 2025, parte subito con un bel suono di chitarre denso, opera di Edward Virzì, cantante e chitarrista del gruppo. Il riff iniziale, che ricorda da vicino quello che da molti è considerato il primo brano hard rock della storia, ovvero “Helter Skelter” dei Beatles, lascia presto spazio ad un mood decisamente più sonico, con chitarre sature sostenute efficacemente dalla sezione ritmica, formata da Marco Saporiti (bassista e tastierista) e William Zangla alla batteria. Dal punto di vista del testo il brano è un inno alla resistenza molto riflessivo che parte “dal coraggio che non hai” per arrivare a “vinci se resisterai”. Già solo il fatto che oggi più o meno tutti noi siamo chiamati a resistere ad una vita inquinata da social media e da un individualismo sfrenato crea un effetto di identificazione nell’ascoltatore. Andando a ritroso, i Nevecieca a maggio avevano pubblicato “Coscienza e lacrime”, traccia caratterizzata da un’introspezione coraggiosa per riallacciare i canali di comunicazione empatica con le altre persone: “Non esiterei, a prender parte a questo rito di coscienza e lacrime, e ti troverei”. Dal punto di vista musicale le parti di chitarra sono sempre in primissimo piano e sono il motore del brano. Rispetto a “Cenere”, però, la voce “esce” meglio nel mix. Andando ancora a ritroso, a febbraio è uscito il primo singolo della band “Dio solitario”. Anche in questo caso lo strumento principe è la chitarra. Il brano ha come tematica centrale la disillusione per tutte le aspettative di vita che non hanno trovato un riscontro concreto. Il livello di empatia che si crea con l’ascoltatore è anche in questo caso elevato.
Edward, William – membri fondatori – e Marco si sono prestati ad un’intervista full band sul loro modo di fare musica e sull’interpretazione dei brani. 



- Partiamo dall’ultimo singolo uscito a luglio che si intitola “Cenere”. C’è un verso emblematico che dice “Quanto conta un insuccesso se sei stanco già di attenderlo”. Sembrano le parole di una persona arresa che non conta neanche più gli insuccessi. Poi però nel testo c’è un altro verso che dice “Vinci se resisterai”. Volete trasmettere un messaggio di resistenza, di non farsi abbattere?
EDWARD – Quella canzone descrive una frustrazione per il fatto che sono arrivato ad un momento della vita dove sembra non succedere nulla e quindi quasi prego che arrivi anche un insuccesso. Cioè anche un insuccesso mi basterebbe pur di sentirmi vivo. Conterebbe qualcosa anche un insuccesso piuttosto che non vivere.
- Quindi il pezzo nasce da un’esperienza personale di vita tua profonda.
EDWARD – Sì chiaro ci sono molte aspettative e anche pur di fallire che succeda qualcosa. 
- Dal punto di vista musicale l’attacco di “Cenere” mi ha fatto venire in mente “Helter Skelter” dei Beatles. Poi il suono cambia e sfocia in un grunge abbastanza tosto venato di hard rock. Mi sono piaciuti molto anche i cambi di tempo e di atmosfera. Quanto ci è voluto per arrivare alla forma definitiva del brano? 
MARCO – Ci abbiamo messo un po’ in realtà nel senso che è stato il primo brano un po’ particolare ed è il primo che abbiamo scritto veramente insieme. E’ stato frutto di un lavoro comune e di conseguenza ci abbiamo messo abbastanza tanto, un annetto mi verrebbe da dire prima che diventasse quello che hai poi potuto ascoltare. 
EDWARD – Io ricordo le due sezioni, abbiamo fatto per prima la canzone che iniziava con il riff principale e poi dopo ci abbiamo aggiunto l’intro simile a “Helter Skelter”. Nel giro di un anno l’abbiamo completata perché comunque era un canzone che ci ritornava spesso.
MARCO – Per i testi ci abbiamo messo un pochino forse. Tra l’altro grazie per “Helter Skelter” non ci avevo mai pensato però effettivamente c’è una somiglianza. 
- Quindi a proposito del vostro stile di fare musica i pezzi nascono da improvvisazioni o portate già delle idee finite in sala prove e poi li rifinite tutti insieme? 
MARCO – Direi più la seconda. “Cenere” è un po’ l’eccezione in questo senso credo. Comunque la maggior parte nascono da idee di Edward e Willie che hanno lavorato per tanti anni insieme, io sono arrivato un po’ dopo. Le abbiamo un po’ completate assieme. 
- Buttate via molto materiale tra le cose che componete oppure tendete a cercare di rifinire tutto?
EDWARD – A dir la verità quello che non abbiamo messo nel disco che deve uscire l’abbiamo tenuto da parte si presume per il prossimo. Cioè scartare obiettivamente poco anche perché io prima di proporre qualcosa agli altri già scarto parecchio, di mio nella mia cameretta. 
WILLIAM – Al massimo ci sono dei pezzi che sono lì un po’ come dire sospesi che rifineremo, speriamo di sì però proprio scartati no. 
- Ok, invece il singolo “Coscienza e lacrime”, uscito a maggio è molto introspettivo, a tratti dà addirittura la sensazione di accennare a una relazione tormentata. Per esempio nel verso “il mio sogno è vivere notti e giorni insieme a te”. I vostri testi in generale sono comunque aperti a più interpretazioni. Da cosa nasce il vostro stile di scrittura?
EDWARD – Sì è chiaramente un metodo aperto, non cercato perché comunque è istintivo e mi piace comunque che sia di libera interpretazione. 
- Parlando invece del primo singolo “Dio solitario” ha questo attacco roccioso molto forte a livello di volumi. Questa è una domanda diciamo un po’ critica: nei vostri pezzi il suono delle chitarre e la potenza in generale tendono un po’ a soffocare la voce di Edward. E’ una scelta stilistica o piuttosto determinata dai mezzi limitati che si hanno quando si fa un’autoproduzione?
EDWARD – E’ stata più la seconda, deriva più da quello che avevamo anche perché tutti i singoli che sono usciti e di conseguenza anche l’album che uscirà si spera a breve sono stati registrati direttamente nella nostra saletta che è fondamentalmente un garage. E sì insomma abbiamo fatto il massimo con quello che avevamo. 
WILLIAM – Non era uno studio professionale è la sala prove dai. 
- “Dio solitario” ha un bell’assolo vorticoso e c’è quel verso che dice “E’ insulso specchiarsi nel vuoto che c’è”. Immagino che qui facciate cenno alle nostre vite ormai asservite ai social?
EDWARD – Sì fa riferimento ai social network, all’attualità. Almeno io personalmente non mi rivedo in quasi nulla, neanche nella mia generazione, ho poco senso di appartenenza in generale. E penso di poter parlare anche a nome di tutti e tre. 
- A livello di fonti ispirative c’è sicuramente il grunge anni 90, ecco perché secondo voi a distanza di trent’anni quel genere continua ad essere fonte di ispirazione non solo per voi ma anche per tanti altri gruppi?
WILLIAM -  E’ una bella domanda. Penso magari per un discorso un po’ di rabbia misto a quello che è anche un po’ la noia esistenziale che hanno i giovani da trent’anni a questa parte, diciamo anche un po’ di disillusione. Penso che quello spirito lì magari è cambiato ma non è mai sparito. Penso sia un po’ quello. Io personalmente il grunge lo apprezzo di più adesso rispetto a quando avevo 15-16 anni quando i Nirvana non me li sono mai “cagati”. In sta roba mi ci vedo. 
- A proposito mi dite la vostra età media per capire. Quanti anni avete in media?
WILLIAM – Siamo sulla trentina più o meno. 
- Avete ancora tutto il tempo di crescere e di sviluppare la vostra musica. A parte il grunge di cui abbiamo parlato, avete altre fonti di ispirazione in gruppi, in band che sono in giro adesso, che sono nate negli ultimi 10-15 anni?
EDWARD – Non saprei, come ispirazione siamo veramente istintivi quando andiamo in saletta, non riusciamo a riconoscere bene da dove arriva tutto quanto. 
WILLIAM – Diciamo che abbiamo tutti e tre gusti abbastanza diversi, quindi ognuno porta la sua cosa. Mi ricordo che c’era un pezzo che abbiamo fatto un po’ di tempo fa e io avevo detto “vi faccio sentire questa cosa, c’è un’ispirazione molto chiara però non ve la dico sennò vi influenzo. 


Come è emerso dalla nostra chiacchierata i Nevecieca sono una band ancora alla ricerca di una propria piena identità, ma Edward, William e Marco stanno facendo di tutto per trovarla grazie alla coesione e al rispetto reciproco che si è creato in un gruppo in cui le idee di tutti i membri vengono non solo accettate ma diventano la base per costruire il repertorio. 


Recensione e intervista a cura di Luca Stra




 

domenica 31 agosto 2025

LAICA LUNA - QUEL FASCINO AUSTERO - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Trieste, in quanto città di confine, è da sempre luogo di incontri e contaminazioni tra popoli e culture diversi. La scena musicale triestina è particolarmente vivace e qui sono nate band che fanno della diversità culturale una ricchezza. Tra di esse una delle novità più interessanti sono i Laica Luna, gruppo in bilico tra grunge e alternative rock con qualche spruzzata di psichedelia. La band, formata da Lana Petrovic’ alla voce, Paolo Diviacco, chitarre e produzione, Luca Sollecito bassista e Jaren Diviacco, batteria, ha pubblicato nel mese di luglio 2025 il suo primo EP omonimo, composto da quattro pezzi più un quinto che è, di fatto, una rielaborazione del brano d’apertura. L’incipit “Fascino austero” si apre su un solido riff di chitarra su cui se ne innesta un secondo dal vago sapore mediorientale creando una miscela sonora di grande presa. Il testo racconta di un personaggio dal fascino austero, quasi algido, che tenta di penetrare i pensieri. “Ma io oppongo barriere impenetrabili” canta Lana Petrovic’ dando di fatto le coordinate dell’EP, ovvero l’affermazione individuale, la liberazione da ogni condizionamento esterno. “Stella polare”, seconda traccia dell’EP è un viaggio nell’interiorità dell’io che inizia con una sorta di inutile libretto di istruzioni “scritto in caratteri strani” che stimola l’esigenza di lasciare il giogo di quelle “emozioni malate confuse, un respiro affannato”. Il terzo pezzo in scaletta, “Martirio”, esprime figurativamente una trappola mentale di voci e delirio costruita dalla protagonista stessa che ora lotta per liberarsene. Il quarto brano “Una canzone semplice” è nato dal desiderio iniziale di scrivere qualcosa di più facilmente fruibile dagli ascoltatori, più semplice per l’appunto, ma il finale vorticoso lascia emergere la consueta complessità delle strutture musicali create dai Laica Luna. In chiusura, quasi a voler cambiare atmosfera passando dall’oscurità a un clima più spensierato troviamo “Fascino austereo”, che è una versione da bicchierata in birreria del brano d’apertura. Qui tutto si fa più lieve e, ad un certo punto, fa capolino anche la vocina della figlia della cantante che chiede silenzio per poter ascoltare il pezzo. Un finale imprevisto quanto piacevole ed interessante perché restituisce un’immagine meno cupa della band.



I Laica Luna si sono prestati ad un’intervista in cui abbiamo esplorato i significati che loro stessi danno dei loro brani.
- Il comun denominatore di questo EP sembra essere la ribellione a ciò che ci ingabbia, ci sottomette, quindi ribellione nei confronti della rigidità, delle convenzioni. E’così?
PAOLO – Direi di sì, però non è una ribellione urlata, ma un po’ più sentita dentro, un po’ più accennata diciamo, per metafora. Quindi non una ribellione urlata tipo punk in senso stretto, anche se come estrazione nostra Luca ad esempio Luca canta in un gruppo che fa proprio punk in senso stretto proprio. In questo contesto qua siamo un po’ più intimi. 
LANA – Sì una ribellione intima, anche un po’ esplorativa di uno spazio interiore.
- Dato che facevate cenno a gruppi precedenti raccontate un po’ come siete nati, qual è il vostro passato musicale.
JAREN – Cominciamo dal bassista che è anche voce dai.
LUCA – Sono un bassista finto, non so suonare, mi applico però. Sono trent’anni che non suonavo. Lascia stare la mia voce perché è quello che è però la musica che mi piace è lo ska, mi piace un sacco di roba, i Viagra Boys giusto per citare un gruppo attuale senza restare ancorati a robe vecchie e secondo me sono un gruppo fighissimo. 
- Passiamo ai pezzi del vostro EP. “Fascino austero” che lo apre ha quel riffone portante su cui poi si innesta un groove quasi marziale e ci sono tante influenze del rock alternativo, americano, suoni grunge, psichedelici, ci si può vedere di tutto. Datemi voi la vostra interpretazione di questo pezzo. 
JAREN – Mi assumo la responsabilità di dire da dove parte. Parte da un fastidio verso un certo tipo di persone che tendono un po’ a inquadrarti nelle loro categorie mentali. Quando tu non sei allineato con quello che loro pensano diventa un po’ un problema. Allora ti squadrano, ti “tagliuzzano” ben bene con questi bisturi affilati per capire come sei fatto dentro, ma solo se corrispondi a quello che loro hanno in testa. Le persone che non corrispondono a queste loro categorie, che poi sono generalmente abbastanza standardizzate fra loro, fan sì che di solito se la vivono male. L’idea è un po’ quella di dire che tutto sommato ognuno ha diritto di essere come vuole e se gli altri vogliono incasellarti dentro qualche categoria loro magari anche non ci stiamo a questa cosa. Diciamo che vogliamo essere noi stessi senza finire nelle caselle, nelle categorie arbitrarie degli altri.
- Ascoltate, invece “Stella polare” con quella frase “leggo le mie istruzioni, compendio di tutta una vita in ricordo di poche emozioni”. Sembra il desiderio di volersi distaccare da ciò che si è stati dando una svolta alla propria vita.
LANA – Il pezzo parla in realtà di qualcosa di abbastanza preciso.
PAOLO – Ecco forse è un po’ il contrario di Fascino austero nel senso che quando tu hai una tua personalità magari alle volte cerchi un po’ di trovare dei punti di riferimento, un po’ Battiato il centro di gravità permanente. La stella polare è quel qualcosa che ti consente di sapere, non di orientarti magari ma sai dove è e così prendi dei riferimenti rispetto a tutto quello che ti sta intorno. Non ti dà dico una direzione ma almeno capisci dove sei e dove stai andando. E’ tutto un po’ enigmatico.
LANA – Bisogna dire da dove nasce. Però non so se posso dirlo.
PAOLO – Abbiamo dei segreti…(ridono ndr). “Stella polare” è un po’ una premessa al pezzo successivo che è “Martirio” che è diciamo un po’ deprimente perché nasce da una storia personale, di una persona che conosco e che ho sempre apprezzato e che purtroppo non c’è più, che si è persa in una malattia che intacca sia la memoria che l’identità stessa della persona. Una persona che è andata ad esplorare mondi lontanissimi perché qua non ci stava più. Questa è la storia personale che sta dietro a questa canzone e ogni volta che la suono la trovo molto emozionante. Per fortuna che la canta Lana perché a me viene sempre il magone. 
- Invece “Una canzone semplice” che avete fatto uscire come primo singolo diciamo che non tiene molto fede al suo titolo perché è tutt’altro che semplice, soprattutto nel finale dal punto di vista musicale.
PAOLO – Lì era un po’ un gioco perché in qualche modo ci siamo un po’ riconosciuti come pesanti sia nei testi, diciamo nello svolgimento del tema. Siccome riconoscevamo un po’ di pesantezza in quello che facevamo abbiamo detto “Facciamo una canzone divertente”. Poi quello che ci è uscito è una canzone abbastanza divertente, un po’ un tormentone che ti resta in testa, ma in realtà sotto sotto c’è sempre un po’ un dramma, diciamo che è un po’ piovosa, non è un cielo sereno, azzurro e senza nuvole. E’ abbastanza annuvolata, abbastanza piovosa e questo in realtà lo senti perché ci sono delle forti dissonanze a livello armonico rispetto a quello che facciamo per cui diciamo di fare degli accordi maggiori ma in realtà maggiori non sono, è abbastanza incasinata. Per cui ti dà questa sensazione non dico di ansia, ma di qualcosa che non viene raccontato e infatti alla fine si cerca un po’ di esplodere, di far venire fuori la cosa che veramente avevamo in testa. Nel video, non so se hai avuto occasione di vederlo, anche questo era un po’ un gioco perché era girato in una cantina…
JAREN – Il giorno di Ferragosto, 45 gradi in cantina. (ridono ndr).
PAOLO – Insomma eravamo in questa cantina che doveva essere opprimente, mentre in realtà era la parte della canzone che era più divertente, gioiosa. E ti dava invece questa sensazione di costrizione. Che poi alla fine rivela che puoi avere una prospettiva molto più ampia, un cielo nuvoloso. Esci da questo mondo costretto nel quale sei compresso per fare canzoni che si vorrebbero semplici però in realtà ci costringono a suonare in un certo modo, un po’ più commerciale, un po’ più standard, un po’ più canzonetta e però magari forse non è così e il finale dovrebbe un po’ sorprendere perché magari l’idea è quella di dire “ma in realtà non siamo così”. 
- Sì le vostre chiavi di lettura sono molte e diverse. Infatti sul finale dell’EP piazzate “Fascino austereo” che è già divertente nel titolo e sembra la versione di “Fascino austero” da birreria.
PAOLO – E’ esattamente così, eravamo ubriachi. 
- Quindi è stata registrata diciamo “buona la prima”. 
PAOLO – L’idea è proprio quella, anche qua siamo cupi, siamo un po’ pesanti come pensieri, come atteggiamento, però in realtà no perché ci divertiamo e insomma non è cinismo ma è forse una valvola di sfogo. Per non diventare cinici restiamo comunque fedeli a quello che pensiamo, a quello che viviamo, a quello che sentiamo e però cogliamo anche gli aspetti belli di tutto quello che ci circonda. E quindi siamo andati in queste trattorie private (perché poi ci sono invece quelle pubbliche che sono gestite dal Comune) che sono tipiche di qua, del Carso triestino e tra il mangiare e il bere e forse esagerare un po’ nel bere ci si diverte e si fanno delle versioni meno cupe, meno pesanti di quello che sono le canzoni come sono state scritte. 
- Ecco, a proposito di trattoria, una curiosità: quella voce di bambina che si sente verso la fine che dice: “Stai zitto che non riesco a sentire” era preparata?
LANA – Quella è mia figlia che, non ricordo bene come è nata questa cosa però sempre giocando volevamo includerla in un certo modo perché è presente nella mia vita e nei miei impegni…” ragazzi sono in ritardo a prove”, “non riesco a venire”, nell’impossibilità a volte di riuscire a mantenere gli impegni e così l’abbiamo inclusa e si è divertita.
- E’ un tocco di innocenza in una canzone che nell’originale è molto più oscura.
PAOLO – Questo è vero, ci sono queste prospettive diverse, molto più ampie rispetto a quelle che cerchiamo di trasmettere noi. E così è importante presentare lo stesso pezzo con due ambientazioni, con due arrangiamenti completamente diversi, quello tirato, un po’ cupo e quello invece rilassato un po’ da ubriachi. 


Il fare musica dei Laica Luna è fare un po’ anche i conti con la propria vita, con le esperienze e le prove che ti dà condividendole con i compagni di band. Certe difficoltà, se affrontate così, possono far meno male.


Intervista e recensione a cura di Luca Stra 




 

domenica 24 agosto 2025

DOPO IL CIAO - DOVE STA L'AMORE TRA IL SILENZIO E IL RUMORE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Avere la cosiddetta “attitude”, come la chiamano gli anglofoni, ovvero, traducendo a senso, lo spirito giusto per un musicista è un requisito importante per guadagnare visibilità in un mondo in cui ogni giorno vengono pubblicati sulle piattaforme di streaming migliaia di nuovi brani e il potenziale ascoltatore resta disorientato e, il più delle volte, sceglie quegli artisti che già conosce, oppure quelli magari costruiti a tavolino o che comunque, solo grazie ad un buon marketing, vengono promossi dal nulla allo status di star.  I Dopo il ciao, pur essendo un duo semi esordiente indipendente con all’attivo per il momento tre singoli, sicuramente non mancano di tale attitude. Il duo imolese, formato da Milena Mingotti alla voce e Andrea Grossi, responsabile della parte sonora dei brani, nonché arrangiatore, si cimenta in quel tema che loro stessi definiscono come il più provocante oggi, ovvero l’amore. I Dopo il ciao hanno pubblicato, a febbraio 2025, un’ottima reinterpretazione del classico di Patty Pravo “Pensiero stupendo”, che, nella loro versione, si rinnova indossando nuovi panni elettropop che però non ne snaturano l’anima, anche grazie all’interpretazione di Milena che dosa attentamente la voce sottolineando il lato più sensuale e ammaliante del pezzo. Successivamente, nell’aprile 2025, i Dopo il ciao hanno pubblicato una seconda reinterpretazione, stavolta “Cenere” del noto rapper Lazza e qui il loro elettropop mette in risalto la loro duttilità, la capacità di rinnovare l’anima di un pezzo. E a giugno, finalmente, è stato il momento del loro primo brano originale, “Tra il silenzio e il rumore”. La scommessa di lanciare un brano proprio è una scommessa vinta, le mezze tinte dipinte dall’intreccio tra suoni e voce sottolineano il verso chiave “prova a immaginare dove sta l’amore tra il silenzio e il rumore”. 
Abbiamo avuto occasione di parlare con i Dopo il ciao dei singoli finora pubblicati e dei progetti futuri.



- Partiamo dal vostro ultimo singolo “Tra il silenzio e il rumore”. I temi centrali mi sembra che siano la notte e l’amore, di notte è tutto più lento e quindi c’è più tempo per sentimenti e emozioni. Cos’è per voi la notte?
ANDREA – La notte sicuramente secondo me è un tempo in cui tutto è sospeso, anche il minimo rumore risalta. E forse è anche quello che è il nostro sentire, cioè la possibilità di sentire quello che abbiamo dentro, anche i nostri pensieri hanno più volume, tutti i sensi si acquiscono durante la notte. Personalmente è anche un buon momento per scrivere, avere ispirazione, anche per entrare più in contatto con noi stessi. Adesso mi viene in mente tutte le volte che vado a letto per dormire ed è un momento per pensare, riflettere. Delle volte i pensieri non ti fanno anche dormire o ritardano il sonno. E’ un momento prezioso la notte. 
MILENA – Condivido tutto quello che ha detto Andrea sicuramente. Per me scrivere di sera o di notte proprio per il fatto che non ci sia la luce del giorno e quindi si crea un’atmosfera diversa è il momento migliore, quello in cui vengono di più le idee. Mi è piaciuto quello che hai captato dal brano “Tra il silenzio e il rumore” che comunque è un brano che in realtà parla della fine di una storia d’amore, quindi anche il ritrovarsi a pensarci di notte è il momento giusto. 
- La vostra musica gioca sui mezzi toni, sulle sfumature. Pensate che le sfumature possano contenere più emozioni rispetto agli estremi?
MILENA – No non per forza. Che domande difficili (ride). Penso che l’interpretazione sia di ogni persona, sia per noi che scriviamo, sia per chi ascolta. 
ANDREA – Poi per noi musicisti e autori sia gli estremi che le sfumature fanno tutte parte di un sentire, sono condizioni necessarie che vanno ascoltate per essere poi trasportate in musica, nella forma canzone. Ovviamente se sono cose di cui vuoi parlare. Però sì non si butta via niente se si può dire così e fa tutto parte della sfera del sentire che poi si trasforma in musica, in arte. 
- Dal punto di vista musicale ascoltando l’ultimo singolo ma anche un po’ i due precedenti ho sentito anche degli echi dei Massive Attack. Sono tra i vostri ascolti
ANDREA – Allora Massive Attack onestamente non li ho ascoltati, non li ho presi come punti di riferimento anche se sono un grande punto di riferimento. Personalmente mi piace molto l’idea di venire accostato a certi ascolti ed è un onore, però non l’abbiamo usato come reference. Può essere considerato un punto di riferimento per la nostra musica anche se non lo abbiamo usato direttamente. Però sì sono maestri del genere.
- Andando ancora a ritroso, passando a “Cenere” anche questa è una canzone sulla fine di un rapporto?
MILENA – Cenere è una cover, non è un brano nostro, è la nostra reinterpretazione di “Cenere” di Lazza. L’abbiamo stravolta facendone una nostra versione arrangiata da Dopo il ciao cioè pop elettronico. Proprio perché volevamo dare le nostre reintepretazioni di alcuni brani, come è stato per “Pensiero stupendo” di Patty Pravo. Perché sono brani che hanno testi in tema con quello che sarà il nostro album. Entrambe le cover toccano tematiche di storie d’amore, di fine di storie d’amore o altri riferimenti a quello. Un amore sensuale e non volgare. 
- Andiamo appunto su “Pensiero stupendo”. La vostra è appunto una reinterpretazione, non è una cover, perché è un brano che fate vostro proprio con una riscrittura. Scegliendo un brano così iconico come “Pensiero stupendo” nel momento in cui l’avete affrontato avete avuto un po’ di timore o invece siete andati diretti, spediti, convinti?
ANDREA – Guarda è stato un brano su cui non abbiamo avuto remore, anche perché la nostra selezione avviene sulla tematica, su quello che dice e deve essere in linea con quello che è il progetto Dopo il ciao. Quindi artisticamente deve essere affine. E’ un brano che è un grande classico del panorama italiano. Se non funziona semplicemente non lo facciamo, non lo portiamo alla fine. Ci siamo cimentati con questo mostro sacro partendo da un’idea e siamo riusciti ad arrivare in fondo al brano riuscendo a farlo nostro e siamo stati un po’ i giudici di noi stessi, del nostro lavoro. Se non ci avesse convinto non l’avremmo neanche pubblicato.
MILENA – Chiaramente ne parliamo con la persona che ci segue in studio quindi non siamo solo noi a valutare la funzionalità.
ANDREA – Comunque artisticamente a noi ha convinto. C’è sempre questo metro che è lo stupore, l’entusiasmo. Se un brano ci stupisce, sia che sia una cover o un brano originale ci meraviglia, vuol dire che funziona come parte del progetto Dopo il ciao.
- La voce sussurrata, suadente di Milena in questo brano per citare un verso “si potrebbe trattare di un bisogno d’amore, meglio non dire”, suggerisce che il silenzio non sia a volte assenza ma un segno di interesse per chi ci sta a cuore?
MILENA – Assolutamente sì. In realtà qui, come anche nel nostro brano “Tra il silenzio e il rumore,” è importante cercare di interpretare come prima cosa anche con la vocalità, quindi dosare l’intensità soprattutto in un brano come questo credo che sia fondamentale.
- Avete fatto riferimento anche allo scrivere musica come autori. Approfondiamo questo aspetto?
MILENA E ANDREA – Sì assolutamente siamo autori e compositori.
- Per chi avete scritto?
ANDREA - No ok adesso ho capito la domanda, no personalmente io non ho mai scritto per nessuno, ho sempre scritto per me.
- A proposito di uscite discografiche ho letto che avete un album in uscita, se ne parlava per questa estate. Potete dirci qualcosa di più?
MILENA – Sì il disco è terminato, è pronto e non vediamo l’ora di pubblicarlo, ma non abbiamo una data precisa ancora proprio perché ci stiamo lavorando con una équipe di persone e per fare le cose al meglio dobbiamo ancora scegliere la data di uscita precisa, ma sicuramente da questo autunno ci saranno grosse novità. Diciamo che da questo settembre- ottobre cominceranno ad uscire parecchie novità. 


- Nella vostra bio che ho letto su Rockit scrivete che parlate d’amore perché oggi non può esserci nulla di più provocante. Potete approfondire un po’ cosa intendete?
ANDREA – Beh diciamo che oggi soprattutto nel pop, ma in generale, anche nella musica trap diciamo che il messaggio dell’amore è sempre molto sessualizzato come immagine della donna. Noi ci concentriamo di più su un’immagine elegante, sensuale, su un’idea di amore diversa, come secondo noi l’amore dovrebbe essere. E questo è il messaggio provocante che vogliamo mandare, cioè tornare a parlare d’amore in una maniera in cui oggi facciamo fatica a trovare nel mercato discografico. E che è quello che poi ci rappresenta come ideale. C’è un modo diverso di amare rispetto a quello che ci viene venduto e noi crediamo in quello ecco. 
MILENA – Sottoscrivo quello che ha detto Andrea ed è quello che sarà il concept del disco, parlerà d’amore in varie forme però la base è sempre questa, che cioè che vogliamo che l’amore sia nella sua forma un po’ più pura, non come possesso. 
- Per concludere raccontate un po’ la vostra storia. Cioè quando vi siete formati e qual è stato il vostro percorso fin qui?
ANDREA – Il gruppo è nato per curiosità, abbiamo collaborato insieme per la prima volta proprio con questo brano “Tra il silenzio e il rumore”. Ci conoscevamo già da anni perché comunque la scena musicale ci ha portato a conoscerci e ad incontrarci proprio ad un concerto, tra l’altro. E così abbiamo deciso per curiosità di provare a scrivere insieme, a divertirci con la musica, andare ad esplorare territori ancora sconosciuti. E questo è avvenuto due anni fa proprio con “Tra il silenzio e il rumore” e il risultato ci è piaciuto molto e così finiti i nostri impegni da solisti, quindi Milena con l’uscita del suo album e del suo libro, io con l’uscita del mio album, ci siamo ritrovati a scrivere altri brani e a dare forma al progetto Dopo il ciao e poi a pensare di realizzare un album insieme.
- Milena quindi ti abbiamo sgamata, hai pubblicato anche un libro. Ce ne vuoi parlare un attimo?
MILENA - Sì volentieri. Il libro si intitola “3130 giorni. La costruzione di una nuova vita”, è un racconto breve ed è una necessità che avevo, volevo fare un regalo alla mia mamma e chiudere un po’ un cerchio. Ne avevo bisogno, l’ho usato anche un po’ come terapia. In realtà è un racconto autobiografico perché racconta un periodo preciso della mia vita che va dal giorno 1 al giorno 3130, il giorno 1 è stato il giorno del mio primo intervento alla colonna vertebrale e racconto tutto quello che è successo, la vita da ospedale e tutto il resto. Le luci e le ombre nel percorso fino ad arrivare al giorno 3130 che è la prima data del tour che ho fatto in Italia con la mia band nei club e c’è tutto quello che è avvenuto nel mezzo. L’ho fatto anche perché la musica mi ha salvata e volevo raccontarlo in prima persona. 


Nella pochezza del panorama musicale odierno, per quanto riguarda il mainstream che è l’unica musica che ascolta la massa, un gruppo come i Dopo il ciao, che fa dei sentimenti veri la propria cifra stilistica, è prezioso. Auguriamo loro di riuscire a far vibrare le corde dell’anima a più gente possibile.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra




 

domenica 17 agosto 2025

FRANCESCA PICHIERRI - CELLULE STRONZE - UNA STORIA DI DOLORE E DI GRANDE AMORE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


“Cellule stronze”, album d’esordio della cantautrice pugliese Francesca Pichierri, è un diario intimo svelato al pubblico per condividere una prova molto difficile, ovvero il percorso di diagnosi e cura di un carcinoma diagnosticato a sua madre. Il caleidoscopio di emozioni che si dipana brano dopo brano costruisce una narrazione coinvolgente. Il primo pezzo “Gelo” rappresenta la presa di coscienza. Si apre in modo spensierato con un pianoforte che traccia una melodia allegra a segnare il “prima” e il repentino cambio di atmosfera, sottolineato da un sax e dall’ingresso della voce che segna il momento della diagnosi, della paura. “E arriva il gelo. La pelle d’oca sulle gambe tese che tremano nude” canta Francesca Pichierri con voce ricca di sfumature jazz. In questo, come in tutti gli altri pezzi dell’album la fusione tra testi e musica è l’elemento chiave che crea il pathos. La successiva “Il nemico dentro” contiene uno dei versi più emblematici: “Lo so è ovvio siamo fragili, ci tradisce anche il nostro corpo”. Il crescendo è come un’esplosione di sentimenti in musica. A seguire “Io sto bene” è uno dei brani strutturalmente più interessanti, con il pianoforte ragtime e la voce in inglese che danza tra le note fino alla risposta alla classica domanda di rito “Come stai?” con un evitante “Io sto bene, io sto bene tutto bene”. Sono molti i frammenti diversi che compongono questa traccia multiforme, che si conclude sulle rive di un mare di cui si sente l’infrangersi dell’onda. “Amen”, quarto brano dell’album, è quell’up tempo funk che non ti aspetteresti. La successiva “Anime vaghe” inizia in un sussurro: “Attendevo un segnale, una parola, anche una sola, all’imbrunire per poi sentire quando il giorno muore lento, il rumore del vento”. Il piano accompagna la voce ora fragile, ora potente della cantautrice a simboleggiare il nostro essere anime vaghe. Segue “Guardami guardami” che riporta la rotta dell’album su ritmi pop su cui la voce sembra giocare grazie alla sua notevole duttilità. “Nel dolore cerca la” si apre col suono di un sitar e echi di voci lontane per poi rivelare una grana pop di gran qualità. La traccia conclusiva “Sperarci due eroi” è una cavalcata verso la luce, ricca di speranza e di positività.
Abbiamo parlato di questo album emozionante con l’autrice.



- “Cellule stronze” è un album molto intimo e, al tempo stesso, di sensibilizzazione nei confronti degli altri sulla malattia, sul percorso che state affrontando. Qual è stato il tuo personale percorso che ti ha fatto decidere di pubblicarlo?
- Diciamo che la ragione nasce dall’esigenza stessa di scrivere canzoni su questo tema, perché nel vivere la malattia, come è nella nostra famiglia, quello che accade è che ti rendi conto di quanto vivere la malattia sia complesso da tanti punti di vista, non solo fisico ma anche emotivo e sociale soprattutto. E che ci sia difficoltà nel comprendere la complessità della malattia. Quindi l’esigenza di pubblicare, di parlare di un argomento del genere nasce proprio dal voler comunicare l’esperienza molto semplicemente. Il voler raccontare un’esperienza affinché ci si soffermi un attimo a riflettere su questo tipo di vissuto. 
- Quel che mi ha subito colpito del tuo disco è come ogni parola, ogni suono siano come necessari. C’è quest’alternanza di sconforto, risate, c’è un momento in cui si intravvede anche la voce di tua mamma. C’è questa alternanza di luce e buio anche dal punto di vista della musica oltre che dei testi. Ti ci riconosci?
- Assolutamente. Ingloba un po’ tutto, i momenti di positività, di speranza, ma anche di buio, di disperazione perché l’esperienza è anche questo, momenti di alti e bassi. La scrittura, la produzione sono stati molto autentici, immediati, non c’è un calcolo all’interno del brano o dell’album stesso. Quindi è estremamente immediato, proveniente da un’esperienza vissuta e quindi anche in questo ci trovi gli estremi, lo spettro dell’esperienza.
- Il primo pezzo dell’album “Gelo” comincia con un tocco lieve, quasi spensierato di pianoforte che poi viene interrotto da questo brusco cambio d’atmosfera con la tua voce che dice: “E arriva il gelo”. Immagino che si tratti del momento della presa di coscienza della diagnosi. E’ così?
- Sì assolutamente, è proprio quello. Racconta il percorso, quasi la scena. Andavamo in macchina a fare una visita, in questo caso ginecologica, normale e poi trovarsi un macigno addosso. Quindi sì racconta quel momento quasi di passaggio da una vita normale e una vita che viene stravolta. 
- Un altro pezzo che mi ha colpito molto è “Io sto bene”, che è un po’ la risposta al classico “come stai?”, una risposta di circostanza. Gli altri si aspettano sempre una risposta positiva, poi ci rendiamo conto che invece intorno a noi c’è un’indifferenza totale da parte degli altri.
- Sì, questo aspetto della felicità, delle emozioni positive, del fatto che gli altri vogliano saperci sereni e sentirci dire che si sta bene, perché se invece la persona ci dice che non sta bene dobbiamo entrare in un discorso più ampio e approfondito, quindi dobbiamo anche saper ascoltare. Molto spesso si trova nelle situazioni di vita normale quel “Come stai?” “Bene, bene”, cerchi di tagliare corto perché non hai né voglia né è la situazione adatta per andare un attimo in profondità. Si può leggere da una parte come un’esigenza della persona di dire che si sta bene quando si vive una certa situazione anche per non sentirsi estremamente vulnerabili, non entrare troppo, non ammettere di stare male. Ma anche a volte come un senso di protezione. In questo caso del brano nasce come senso di protezione, di prendersi cura degli altri anche quando dentro di te tutto sta vacillando. Dici alle persone che ami che stai bene anche per questo senso di protezione, poi però chi ti ama sa che c’è qualche cosa che non va, lo sente dalla tua voce, o lo vede dallo sguardo, da tanti aspetti. E quindi mi piaceva anche esplorare questo aspetto che si ritrova in molte situazioni. Poi come dicevi tu a volte anche la superficialità dei rapporti umani quando ci si vede, perché si preferisce non andare a fondo perché richiederebbe del tempo e, nella vita che viviamo, il tempo è sempre molto scarso. Dal mio punto di vista le relazioni umane ne soffrono parecchio anche perché richiedono del tempo.
- Il pezzo “Amen” esprime sostanzialmente un paradosso, cioè non mi volete vedere perché poi voi soffrite. Il non voler vedere diventa un po’ un alibi, una convenienza. Riallacciandoci a quanto dicevamo prima un po’ l’ipocrisia della gente che nel momento in cui si ha bisogno casualmente ha sempre un impegno. 
- Sì a me racconta proprio questo fenomeno, il cancel ghosting in cui persone familiari e che appartenevano alla sfera degli amici, dei conoscenti che magari prima popolavano la tua casa quando tu stavi bene a un certo punto non si fanno trovare. Ed è un’esperienza molto comune a chi affronta la malattia. Ci si rende conto di essere comunque soli, avevi un bel gruppo di persone e ti ritrovi quelle poche più strette che rimangono. E purtroppo sì si incontra tanta ipocrisia, persone che dicono “non voglio vederti perché altrimenti sto male, non riesco a gestire il tuo dolore, oppure c’è chi dice che vuole essere d’aiuto e prega per te ma nei momenti concreti non è mai presente. Stiamo parlando di fuffa quindi. 
- Parliamo del pezzo “Nel dolore cerca la”, che è dedicata proprio a tua mamma, canti “mentre stringi i pugni brilli di più”. E’ un’esortazione a mettercela tutta per farcela? 
- In realtà parla di un’esperienza molto forte, ad un momento in cui pensavo che non ci fosse più speranza, che fosse tutto lì per finire. In quella situazione di grande dolore, di grande emergenza quello che notavo è questo stringere i pugni per il dolore che quella persona sta provando, oppure nel momento di grande dolore c’è chi è lì a proteggere, è lì a brillare…non so bene come spiegartelo. E’ come se quella persona nonostante quel dolore, quella situazione di paura anche per se stessi fosse lì per dare forza a te. E’ una cosa quasi surreale se ci pensi. Vedi quella persona che ami che è lì con il rischio di morire e poi invece è lei a proteggere te e a darti forza. E’ un momento molto forte da vivere e si crea questo paradosso per cui dici “come fai tu lì ad avere quel tipo di forza”. Nei rapporti stretti con le persone che amano come tra una madre e una figlia o un padre e un figlio o una figlia è molto interessante vedere il potere dell’amore, che poi è il senso di tutto. 
- Passando a considerazioni più musicali, nel pezzo di cui abbiamo parlato ora, “Nel dolore cerca la” mi sembra di sentire degli echi dei Depeche Mode. Ci avevi pensato scrivendola?
- Sì assolutamente ma anche altre band come i Wolf Alice, una band inglese per cui ho un forte amore, per la musica anche Matia Bazar hanno una forte influenza nell’album.
- Parlando della tua voce si sente nell’album che non è certo la voce di qualcuno che si improvvisa cantante, quindi vorrei sapere se hai affrontato un percorso professionale da questo punto di vista.
- Sì è da tantissimi anni, dal Liceo, dalle Scuole Medie che comunque ho seguito una serie di lezioni che ho continuato fino a che mi sono diplomata al “Complete Vocal Institute” di Copenaghen in Danimarca che è una scuola molto importante. E lì mi sono diplomata anche come insegnante, quindi sono una vocal coach. Comunque ho anche sperimentato da sola, sono anche un po’ nerd quindi i vari studi e corsi anche un po’ all’estero, le varie masterclass. La mia voce è il mio strumento preferito quindi sono molto interessata a coltivarlo.
- Ho notato che in quest’album hai un cantato quasi jazz, vero?
- Sì ho iniziato in realtà con il blues, che è stato il mio primo amore, poi ho continuato con il jazz facendo parte di diverse band sempre della scena indipendente. E sì confermo che ci sono forti influenze jazz, ma anche blues. Mi piace spaziare in musica, ascolto anche rock, alternative rock, ma anche punk e folk. Ascolto veramente di tutto ma comunque l’aspetto che mi interessa di più è lo storytelling, al di là del genere musicale che viene usato e come viene usato, qual è il senso della canzone, com’è la storia che mi stai raccontando e in che modo me la stai raccontando. Deve avere tutto una connessione, un senso. 
- Ho letto che tu hai scritto, composto e arrangiato l’album quasi tutto da sola, sei stata affiancata da Stefano Iuso come coproduttore e chitarrista, Simone Ferrero (al mix) Giovanni Versari (al mastering), ma il disco è stato registrato nella camera in cui sei cresciuta.
- Sì Stefano è anche bassista, suona il piano, insomma è un polistrumentista. Comunque sì in gran parte è nato ed è stato registrato nella mia cameretta qui in Puglia, a casa dei miei genitori per questioni anche logistiche, di presenza. Vivo all’estero, in Germania, ma molto spesso ero in Puglia per stare accanto a mia mamma. Gran parte della produzione è stata fatta online. Io ho iniziato con Stefano, lui era il mio insegnante di produzione musicale, gli ho parlato del progetto cui stavo lavorando e da lì abbiamo iniziato a lavorare insieme sull’album. 
- L’arma più potente che abbiamo quando ci troviamo ad affrontare queste esperienze è l’amore per i nostri cari e il desiderio fortissimo di star loro accanto, perché uniti si può farcela.
- Bellissimo, esatto. Si può affrontare tutto con uno spirito diverso rispetto al fare tutto da soli. E’ questo, come hai sintetizzato tu il messaggio che volevo dare. Nella vita ci sono esperienze particolarmente complesse ed è attraverso l’empatia si può fare la differenza nella vita degli altri, ci tengo a sottolinearlo.



L’empatia di cui ha parlato Francesca Pichierri al termine dell’intervista è effettivamente palpabile anche ascoltando “Cellule stronze”. Sembra quasi che la cantautrice pugliese voglia prenderci per mano per portarci alla scoperta del suo mondo interiore. Un mondo di brani in grado di emozionare e coinvolgere.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra