sabato 2 agosto 2025

OH BARO - SAPORE D'AMARE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI



Le canzoni di Oh Baro profumano di salsedine, amore e gioventù. Nelle sue liriche compiano infatti mare e baci salati in estate e i pezzi, nascendo per condividere le proprie esperienze di crescita personale soprattutto per quanto riguarda l’amore, diventano universali arrivando al cuore degli ascoltatori. Oh Baro è lo pseudonimo adottato da Alessandro Baroni, cantautore venticinquenne di Viareggio ha con all’attivo un album, “Per un pugno di sole”, uscito nel 2023 e vari nuovi singoli, di cui il più recente, “Casa mia (Goodbye”) è uscito a dicembre 2024. Lo stile si è molto evoluto rispetto all’esordio passando dal classico binomio voce-chitarra ad una tessitura più elettronica e movimentata nei singoli recenti. “Garage mare”, penultimo pezzo uscito, è la traccia che segna questo cambiamento. La riuscita mescolanza di suoni e strofe ne fa un brano nato per i live, per far ballare, per far cantare in coro, per portare Oh Baro sempre più in alto dopo gli straordinari traguardi raggiunti da alcuni singoli precedenti, che hanno totalizzato più di 1 milione di ascolti in streaming. “Casa mia (Goodbye)” è invece un brano che racconta uno dei momenti cruciali dell’esistenza, ovvero quando si salutano i propri cari per andare a vivere la propria vita da soli. “Casa mia è una tempesta che non si scorda più, un’orchestra fuori tempo, fa ballare pure il pavimento”. Nei versi traspare tutto il coinvolgimento emotivo ma anche la risolutezza nel prendere la decisione di spiccare il volo sapendo che la propria famiglia resterà comunque vicina, perché “se mi ami capirai”. Abbiamo sentito Alessandro Baroni per parlare del suo percorso artistico e per approfondire la sua visione sul fare musica.



- “Casa mia (Goodbye)” che è uscita a dicembre 2024 è una canzone pop molto diversa dal tuo album “Per un pugno di sole”. Quello era un album più acustico, qui vai a toccare ritmi funky e c’è più elettronica. Da cosa deriva questo tuo cambiamento?

- Questo cambiamento è avvenuto un po’ per una ricerca mia personale ma anche un po’ per il produttore con cui ho prodotto “Per un pungo di sole” e poi per via della produzione di “Garage mare” e “Casa mia goodbye”. Casa mia è la seconda traccia prodotta con Cosimo Bitossi di Supernova Dischi che è un’etichetta indipendente di Firenze con cui ho fatto questi due brani. Diciamo che sono stati due brani con cui sono ripartito perché dopo “Per un pugno di sole” ho avuto un attimo di stop per molti motivi, a volte neanche dipendenti da me purtroppo e quindi sono ripartito dopo un anno con “Garage mare” sempre prodotto da lui e con Casa mia che invece era un brano molto elettronico ma in cui mantenevo il lato introspettivo, rispetto a “Garage mare” che era musica più leggera diciamo. 

- A proposito dell’album “Per un pugno di sole” ascoltandolo mi ha colpito “Pezzi di me (Paure)” che è una canzone che riassume l’insicurezza tipica dell’adolescenza e vai ad affrontare temi delicati come quello dei pensieri autolesionisti.

- Mi piace ricordarmi dei periodi in cui ho scritto i pezzi e le stagioni sono abbastanza indicative in questa cosa qua. Questa fu scritta a novembre, in casa, da solo ed era un momento in cui riflettevo su svariate cose: E’ stata scritta di getto e assolutamente c’è il lato delle paure e anche un senso di colpa esistenziale che rappresenta spesso quel tipo di crisi adolescenziale. Senso di colpa nei confronti dei genitori, figure che danno tanto, un amore che magari non riesci a comprendere. Insomma è una confusione di valori e di capire quando possono ribaltarsi contro di te e essere te pronto ad amare in generale. E’ una cosa molto difficile.

- Diciamo che è un pezzo legato alla tua maturazione.

- Esatto, diciamo che è una cosa proprio legata a quella cosa lì.

- Invece il pezzo “Fuoco vivo” ha un bel respiro sudamericano, dà quelle sensazioni lì.

- Assolutamente, mi ricordo anche qui il momento in cui ho iniziato a scriverla. Pensa che adesso la facciamo in maniera ancora più latina con la band al completo. Nel momento in cui registravo non avevo a disposizione una band solida anche per le versioni live. E infatti adesso la facciamo molto più suonata dicevo ancora più latina di com’è nel disco e in quel momento lì presi ispirazione da un cantautore spagnolo che fece un album in quel periodo che rimandava molto alla cultura spagnola, alle sonorità spagnole e mi ricordo che presi ispirazione da quell’atmosfera lì, anche se i ritmi sono completamente diversi, quelli italiani rispetto a quelli spagnoli però diciamo che la cosa l’hai presa in pieno. 

- Hai citato la tua band, come si chiama? 

- La mia band si chiama attualmente La Ragione Straniera, non legione ma appunto ragione (ride)

- A proposito di collaborazioni “Solitudine” ha dei featuring di peso, come i 43.nove e Bonnot, come è nata questa collaborazione?

- Allora diciamo che “Solitudine” è un pezzo che è nato esattamente finito il Covid con Cris che è appunto il cantante dei 43.nove ed è stato il primo pezzo da cui è nato “Per un pugno di sole” in realtà da cui è nato tutto un percorso sia mio che dei 43.nove che è una band sempre delle mie zone, mentre venne registrato circa un anno dopo la sua stesura nonostante avesse già ricevuto un discreto successo nei live perché noi lo suonavamo senza averlo pubblicato e le persone lo cantavano a memoria quindi eravamo contentissimi di questa cosa qua e un anno dopo siamo riusciti a produrlo con Bonnot, che è appunto il produttore del brano. 

- Penso che sentirsi cantare dal pubblico dei concerti degli inediti dal vivo sia una bella emozione.

- Sì è incredibile poi è stato un anno in cui abbiamo fatto attività live, prima è sempre stata una cosa da cameretta sia per me sia per Cristiano che è appunto l’altro cantante e tirarsi dentro una situazione del genere è stata una cosa gigantesca. 

- Tutta la tua produzione musicale diciamo che esplora le mille sfumature dell’amore. D’altra parte l’amore è quel sentimento che ha dato vita alle arti.

- Penso che sia abbastanza normale nel senso che alla fine è un filo conduttore che poi ti apre le cose per svariate porte per svariate cose. Poi dentro il disco “Per un pugno di sole” è un sentimento che ha svariate chiavi di lettura, ad esempio la paura che ti può fare quando ti senti solo e quindi la mancanza dell’amore oppure anche l’amore con un amico come nel pezzo “L’amore di Giuda”, quando avete litigato e con cui vi siete traditi. Ma questa cosa qui è rimasta anche in “Casa mia” che è l’amore per la mia città, per la mia famiglia. Non credo sia un tema banale l’amore perché puoi parlarne in milioni di ambiti e in milioni di sfaccettature e anzi trovare il modo di dire sempre qualcosa di nuovo. Finché lui c’è e vuol far parlare di sé che venga. 

- Invece mi piace molto il piglio rock di “Diavoli”. La musica, secondo te, può aiutare anche a calmare i propri diavoli dato che tutti ne abbiamo uno o anche più?

- Assolutamente, penso che sia l’unica vera soluzione. 

- C’è invece sempre sull’album questa bella collaborazione con un cantante che se non erro si chiama Nich. A dir la verità non ho trovato molte informazioni sulla rete su di lui, ce ne puoi raccontare tu?

- Nich è letteralmente il mio miglior amico e lui purtroppo non ha mai pubblicato, cioè pubblicava qualcosa poi ha avuto dei problemi su Spotify con il cambio del nome, su queste cose qui quindi ha avuto solo un featuring con me, i 43.nove che è appunto l’altra band delle mie zone, di Viareggio e in realtà con lui continuo a fare musica, lui in realtà si era interrotto e adesso che sto scrivendo un nuovo disco anche lui è ritornato a fare musica, avremo anche probabilmente un pezzo insieme nel mio nuovo disco e lui pubblicherà da adesso in poi. Lo porto spesso con me nei live però lui al momento è molto nelle retrovie. 

- Questo album cui stai lavorando quando esce? Ci dai qualche anticipazione?

- Riguardo l’uscita no ma perché non lo so nemmeno io, diciamo che adesso siamo nel finale della scrittura e lo sto facendo tutto con la band, io scrivo, compongo poi porto da loro i provini e si rivoluzionano completamente e poi ci sarà la parte della produzione per cui potrebbe volere poco tempo come un pochino di più. Si parla comunque di qualche mese. Entro il prossimo anno se ne parla per la pubblicazione.

- Ho letto che hai fatto un sacco di esperienze, hai partecipato a X Factor e sei arrivato alla fase dei Bootcamp. Ci racconti come si vive un talent del genere dall’interno?

- Come si vive è una questione secondo me estremamente personale, io l’ho vissuta molto tranquillamente, molto in maniera divertente nonostante le emozioni forti della possibilità di giudizio altrui, però anche in maniera incosciente, nel senso che non mi rendevo conto in quanto non mi rendevo conto di quanto fosse grosso il bacino di persone che ti avrebbero visto. L’importante è essere sempre se stessi secondo me e poi nulla potrà andare più di tanto storto. Per quanto riguarda il pensiero che posso aver maturato dopo è stato che è giusto che uno le debba prendere alla leggera, ma allo stesso tempo debba essere molto maturo per gestire al meglio quelle situazioni lì, cosa che in quel momento magari dal mio lato non c’era. Sono trampolini così grandi che più uno arriva maturo meglio è. Ci vedi molti ragazzini e sono cose che purtroppo possono essere anche pericolose per un’età così giovane.


Ferve quindi l’attività di Oh Baro, al lavoro sul suo secondo album che, stando ai singoli usciti e a quanto ci ha detto, sarà molto diverso dall’esordio e permetterà al cantautore viareggino di mostrare lati inediti della propria personalità e del modo di far musica. Senza contare che, essendo il primo lavoro composto con una vera e propria band, anche questo elemento sarà decisivo nel rivoluzionare il suono. 


Testo e intervista a cura di Luca Stra




 

mercoledì 23 luglio 2025

LE FESTE ANTONACCI - "UOMINI, CANI E GABBIANI" - UNA MAIONESE ELETTROPOP - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Ai Le Feste Antonacci sicuramente non mancano le idee originali e a tratti bizzarre per costruire le proprie canzoni. Il primo album “Uomini, cani, gabbiani” è un mix ben riuscito di elettropop, dance e funk su cui si innestano testi che catturano l’attenzione con versi ricchi di giochi lessicali. Uno per tutti il primo pezzo dell’album dal titolo “Uomini nudi”, in cui sonorità in parte vicine ai primi Depeche Mode si mescolano a testi con immagini ad un primo ascolto curiose e nonsense ma, in realtà, saturi di suggestioni quasi lisergiche, tra tutte “l’esistenza è un carosello e radici di bonsai”, “uomo cane gli piacciono i fiori, trova il tempo di pensare ai suoi cari”. Senz’altro il fatto che il duo, formato da Leonardo Rizzi (originario di Siena) e Giacomo Lecchi D'Alessandro (originario di Genova), viva a Parigi rende più facile ai “Le Feste Antonacci” essere esposti alla musica del mondo in una capitale europea ricca di culture e cosmopolita. Il secondo brano dell’album “P.U.L.P.” crea nell’ascoltatore un loop quasi vertiginoso con la ripetizione del verso “scatole che inglobano scatole che inglobano scatole…”. A circa metà album lo strumentale “Aquekete” allenta la tensione emotiva con un ritmo più disteso. A seguire “Ora è meglio di prima”, brano dall’atmosfera inquietante in cui il protagonista è un soldato reso un automa insensibile all’umana pietà: “ho imparato tre regole facili, chiudi gli occhi e cammina, non fermarti a contare i cadaveri”. In chiusura la title track “Uomini cani gabbiani” che ripete le tre parole del titolo in tutto il testo crea un effetto allo stesso tempo buffo e straniante, reso ancor più divertente dalla registrazione quasi in presa diretta che comprese le risate del duo e l’attacco iniziale “Quando vuoi, vai”. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con il duo per approfondire i significati più nascosti dei brani che compongono l’album. 



- In “Uomini cani gabbiani” i testi diventano un tutt’uno con la musica come se fossero degli strumenti musicali aggiuntivi.
LEONARDO Sì noi prima ancora di essere degli autori di testi siamo dei musicisti e anche nei nostri altri lavori, lavoriamo come compositori diciamo “a comando” utilizziamo molto la voce come strumento melodico caratterizzante. A volte ci affezioniamo anche parecchio al suono delle parole, parole che si sposano bene con una melodia ed è quello un punto di arrivo per capire che siamo partiti sull’idea giusta a livello di testo piuttosto che il contenuto. La difficoltà è poi dargli una direzione anche come significato. 
La vostra musica è una sorta di maionese, riesce a mescolare elementi che in teoria non dovrebbero potersi fondere, ma lo fanno e creano qualcosa di innovativo.
GIACOMO Grazie bellissima immagine. Noi di solito parliamo di cipolla perché comunque ci sono diversi strati ma la maionese trovo che sia una grande metafora. 
LEONARDO Tra l’altro se posso aggiungere un commento dal punto di vista tecnico Giacomo che è effettivamente la componente più kraft a livello di suono a livello finale lavora il suono come si lavorerebbe una maionese, scavando da una parte, riempiendo dall’altra quindi anch’io mi ci ritrovo in questa metafora.
- Fin dall’attacco del primo brano dell’album “Uomini nudi” mi avete ricordato l’elettropop dei primi album dei Depeche Mode. Ho visto giusto? Sono tra le vostre fonti ispirative?
GIACOMO Ma guarda effettivamente secondo me Battiato che è andato un po’ a prendere quelle cose lì è stato più una nostra influenza, quindi un po’ con un passaparola tra l’Inghilterra di quei tempi e l’Italia di quei tempi il più futurista che era sicuramente Franco Battiato ha preso un po’ da quel sound là e ci siamo ispirati tanto entrambi a lui. “La voce del padrone” è un album che conosciamo e memoria e quindi direi che l’influenza viene più da Franco. 
LEONARDO Sì interessante, un’Inghilterra di riflesso sicuramente la nostra. Io i Depeche Mode non li ho mai ascoltati bene a parte i pezzi belli che arrivavano e che avevano un grande impatto. 
“Vivi e lascia che sia, l’esistenza è un carosello, una radice di bonsai”. Quindi pazza, fragile. E’ questo il vostro atteggiamento mentale? L’esistenza per voi è un carosello?
GIACOMO - Sì l’esistenza è una ruota che gira come dice il testo e comunque quello che ci accomuna come genere umano è la caducità. Quindi come ci si rapporta a questa caducità è la direzione che si imprime al proprio spazio-tempo nella vita. Quindi uno può vivere come un carosello, trovarsi dalla parte sbagliata della giostra.
LEONARDO Se sei sopra la giostra è bellissimo, se sei sotto la giostra è un dramma. E l’essere sopra o sotto la giostra molto spesso non dipende da noi. Il messaggio è che nell’accettazione del fatto che è completamente dipendente dalle circostanze bisogna andare verso l’altro, essere aperti all’altro, aperti all’accettazione dell’altro in difficoltà. Se tu stai bene sei fortunato e non devi dimenticarti della sfortuna dell’altro.
- Mi spiegate la canzone che io chiamo “Pulp” ma già qui vorrei capire perché è scritto con i puntini tra le lettere, cos’è una specie di acronimo?
- Questo abbiamo deciso che non lo riveleremo mai e noi stessi lo chiamiamo “Pulp”. Forse in punto di morte, sul letto di morte lo riveleremo e vi farà tutti molto ridere ma per il momento no. Si potrebbe lanciare un concorsone “trova l’acronimo di P.U.L.P”. Comunque per noi è pulp perché lo è l’ambiente come pezzo.
- Nel pezzo c’è anche questo infinito gioco di scatole cinesi con gli “specchi che specchiano specchi che specchiano specchi…” che dà quasi un senso di vertigine o come l’effetto ingannatore di quelle illusioni ottiche che si vedono ogni tanto alle mostre
- Sì è esattamente quello, impressionante. 
GIACOMO - Comunque ci sono diverse ragioni, come ti dicevo prima la musica ha già spesso all’interno una storia e tocca quindi usare le cose che ci stanno bene e abbiamo sentito quel “non ci vedi siamo sempre più forti” che sono diventati di conseguenza questi cattivi, i poteri forti, occulti. Ma poi comunque nel pezzo non si capisce se si parla dei poteri occulti, di noi, se siamo noi stessi che siamo sempre più forti. E poi c’era la volontà di fare un pezzo rap e poi quando ci siamo messi a scrivere un pezzo hip hop ci siamo resi conto che non è proprio il nostro campo. In compenso il nostro campo sono poche parole scelte bene. Leonardo ha tirato fuori il concetto delle scatole che si può prestare a mille interpretazioni, tutte molto interessanti, che siano una holding, universi che si inglobano in una sorta di matrioska. O anche il guardare troppo in noi stessi, il narcisismo l’ossessione per la felicità. Leonardo ha fatto queste due take indiavolati.
LEONARDO Sì e poi c’è questo “io e te fuori dal mondo” che è un po’ alla conclusione di questo sproloquio, queste “scatole che inglobano scatole” che danno un po’ il senso di questa vita over informata, dalla sensazione di avere questa conoscenza quando al di fuori di sé stanno accadendo delle dinamiche non controllabili da noi e siamo fuori da questo gioco. E tutto questo poi si rispecchia nella tematica ancora più grande che poi, in realtà, anche quelli che pensano di controllare il gioco delle scatole o il gioco degli specchi sono essi stessi esseri viventi destinati allo stesso destino che l’ultimo dei coglioni ha.
GIACOMO Tutti controllati da una biologia più grande dell’uomo. “Pulp” è la festa dei cattivi che festeggiano il fatto di essere sempre più forti, questa macabra danza. Il momento con il sax è il picco di questa festa. 
- In “Ora è meglio di prima” c’è questa filastrocca tragica: “ho imparato tre regole facili, chiudi gli occhi e cammina, non fermarti a contare i cadaveri”. Sembra quasi di vedere uno scenario post bellico.
GIACOMO Anche durante una guerra, noi ci abbiamo visto a tratti un soldato pazzo che spara a tutti con entusiasmo convinto che ora sia meglio di prima. In questa marcia folle verso l’avanti, a caso. 
LEONARDO Sì un entusiasmo a caso che non guarda niente, ma poi magari però serpeggia un dubbio-
GIACOMO Sì, a un certo punto si ferma e guarda il cielo e vede che in mano non gli rimane niente e c’è questo dubbio “se fossimo rami invece di essere pietre”.
- “Uomini cani gabbiani” che è il pezzo che dà il titolo all’album è diciamo il brano più particolare perché ripete per tutta la durata le stesse tre parole del titolo e scappa tra voi anche qualche risata come se fosse uno scherzo. Com’è nata l’idea di associare uomini, cani e gabbiani?
LEONARDO E’ nato completamente a vanvera e quello che si sente è la prima, unica e sola versione di quel pezzo che sia mai stata performata. E uscì questo testo come una specie di vomitata subconscia e abbiamo deciso di mettere questa versione nell’album e di non lavorarla più di così come se fosse un po’ uno spioncino sul nostro modo di fare la musica e di scrivere i pezzi che è abbastanza questo in realtà.
GIACOMO E’ il manifesto del processo creativo delle Feste Antonacci che siamo noi due e ci viene un’intuizione che si può cavalcare anche solo il tempo di una take come in questo caso. Crediamo che ci rappresenti abbastanza bene, quasi a scopo documentario.
LEONARDO E poi alla fine più lo si ascolta più si nota la coerenza con il resto dei contenuti del resto del disco e quindi in maniera inconscia, in qualche modo intuitiva ci sta.
- Sono andato anche ad ascoltare i pezzi pre album e sono rimasto colpito da “Fetiche fonetico” che è un pezzo fatto da voi con i Ganso che sono una band portoghese. Com’è nata questa collaborazione?
GIACOMO Questa collaborazione è nata dal fatto che mi sono trovato per circostanze X con degli amici a Lisbona, in una serata e a un certo punto in una discoteca mettono “Sigarette” (ndr altro loro pezzo) e quindi vado a palesarmi al Dj che era amico di amici ed era entusiasta de Le Feste Antonacci e da lì siamo rimasti in contatto e con i Ganso abbiamo detto ma ragazzi volete cantare su un pezzo nostro che abbiamo un buco e troviamo che possa essere una buona idea, il pezzo loro parlava del fatto che gli piace l’accento ruvido del nord del Portogallo, quindi noi un pomeriggio abbiamo detto “dai prendiamo l’accento più ruvido che c’è in Italia, l’accento calabrese e scriviamo una cosa in linea che parli del perché non si sa come questo accento ma scalda ma mi scalda.
- Quindi in Portogallo siete praticamente delle superstar.
GIACOMO Ma no però diciamo che si vocifera delle Feste Antonacci. Poi in realtà siamo stati contattati da un altro gruppo portoghese anche un po’ più famoso però avevamo già fatto questo pezzo. 
- Parliamo ancora del vostro nome. Ho letto che avete deciso di chiamarvi così per via dei video di Biagio Antonacci che sono pieni di queste tipe superfighe vestite di bianco che bevono champagne. Io in realtà avevo di Antonacci un’immagine meno “rap anni 90”, forse perché non l’ho mai ascoltato tanto.
GIACOMO E’ colpa dei video musicali. E poi guarda che ci sono dei pezzacci. Dal punto di vista melodico noi che siamo entrambi appassionati di belle melodie, la melodia napoletana a entrambi ci parla e Biagio Antonacci comunque resta in quella linea di melodisti italiani. Quando le ascolti nel presente dici “quanto le odio queste canzoni” e poi invece se ti distacchi un po’ dal personaggio certe canzoni sono scritte bene e se sei disperato, innamorato ti parlano. 
LEONARDO Sì c’è questo legame ma diciamo che quando ci siamo conosciuti volevamo fare dei pezzi per altri artisti e allora in quest’ottica certe scelte più ambiziose armonicamente o più taglienti risultavano non buone nell’ottica di una produzione pop mainstream che era l’idea nostra. Per cui dicevamo questa cosa qui passa in un video come quello di “Convivendo”? Se la risposta era no veniva fatta un’altra scelta.
GIACOMO Comunque con un po’ di supponenza abbiamo detto facciamo una cosa meno figa. 
LEONARDO Sì diciamo delle scelte che levano universalità a un pezzo.
GIACOMO Che poi è stato un grande progresso per entrambi. C’era all’inizio più voglia di impressionare gli altri musicisti o noi stessi e invece con Le Feste Antonacci ci siamo un po’ liberati di questa cosa e abbiamo imparato ad avere meno paura di fare delle scelte semplici se la scelta semplice è quella giusta. 
LEONARDO E se la scelta è difficile lo è con senso rispetto al pezzo. Comunque tra parentesi questa cosa della canzone per altri è durata il tempo di un pezzo bruttissimo, tanto che eravamo quasi per dirci “ma senti molliamo il colpo”. Poi è venuta fuori “Diverso” che è il nostro primo pezzo e da lì è nata l’idea delle Feste Antonacci con questa vibe un po’ circense, un po’ da balera, da gruppo “Moira Orfei orchestra”. 
- In questo momento in cui prevale la musica in streaming con milioni di brani riversati quotidianamente quanto è importante il nome?
GIACOMO Festa è evocativo di un sacco di immagini e Antonacci che è un nome cathcy, ci siamo detti un po’ come Cristicchi fece “Vorrei cantare come Biagio Antonacci”. Usare un nome così potente in Italia come quello di Biagio è evocativo. All’estero in realtà nessuno riesce a ricordarsi il nostro nome, in Francia particolarmente e poi comunque è vero che in un mondo di mille progetti che escono il nome, soprattutto per farti scoprire per farti scoprire è già la metà del progetto. Se sbagli il nome hai già sbagliato.
- Il disco lo avete registrato a Parigi, giusto? 
GIACOMO Lo abbiamo registrato per metà in una vecchia cantina, mezzo nel salotto della mia ex e poi in un appartamento sfigatissimo. Poi si lavora a casa mia da sempre perché sono quello più accumulatore di materiale e con meno responsabilità. E poi abbiamo registrato i piatti di “Ora è meglio di prima”, un organo in studio. Lo studio è una cosa fantastica, è uno studio degli anni 70 che si chiama CBE qui a Parigi dove sono nate un sacco di hit tra cui i pezzi di Claude Francois che è uno po’ la Raffaella Carrà uomo francese. 


La maionese sonora che offrono i Le Feste Antonacci agli ascoltatori è senz’altro di buona qualità. La musica del duo composto da Giacomo e Leonardo, con questo primo album ha le carte in regola per arrivare “in tavola” non solo nei ristoranti esclusivi ma anche su tavole più popolari. 


Recensione e intervista a cura di Luca Stra







 

mercoledì 16 luglio 2025

YNSANYA - METTENDO INSIEME I PEZZI DI VETRO SI POSSONO COSTRUIRE SOGNI - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Se ci credi davvero con tutta l’anima anche i sogni che sembrano più pazzi possono a poco a poco realizzarsi. E’ il caso degli Ÿnsanÿa, indie band della provincia di Cosenza che stanno investendo tempo e impegno per raggiungere il tipo di suono che i componenti hanno in mente. Matteo Ferraro (voce e chitarra),  Manuel De Rose (chitarra solista), membri fondatori, cui si sono uniti Mario Saccomanno (basso) e Fabio Cusato (batteria) hanno assorbito a fatta propria la musica di band essenzialmente britanniche degli anni 90, ma anche oltre, riuscendo a fondere il suono con il cantato melodico più tipicamente italiano facendo perno sulle notevoli doti canore di Matteo. Ma una squadra vincente non la fa solo il centravanti ed infatti anche Manuel, Mario e Fabio sanno ritagliarsi uno spazio di tutto rispetto. Il groove che esce dagli altoparlanti dello stereo è coinvolgente e non stanca mai perché ognuno dei brani finora pubblicati dalla band ha, allo stesso tempo, una riconoscibilità, ma non suona mai uguale agli altri. L’ultimo singolo, su cui il gruppo punta forte, è “Pezzi di vetro”, uscito quest’anno in una doppia versione, full band, energica e impossibile da ascoltare da fermi e una seconda versione, più sospesa e sognante con l’accompagnamento del piano e, sul finale di una chitarra alla David Gilmour. Ma anche i singoli precedenti, soprattutto quelli editi nel 2024, spiccano per la qualità della proposta. “Phunk” è infatti una traccia guidata dalla voce di Matteo e dalle chitarre di Manuel che si innestano su una sezione ritmica che sa plasmare e rifinire il tutto al meglio. Divertente il siparietto che si apre a due terzi del pezzo quando “entra in scena” un classico da sala prove, ovvero quando gli elementi si punzecchiano bonariamente perchè hanno idee diverse su come dovrebbe prender forma il brano. Assolutamente degna di citazione anche “Don’t look back in hangover”, (ndr. hangover significa sbronza) che a parte il richiamo alla celebre “Don’t look back in anger” degli Oasis, peraltro attualissima dopo la reunion dei fratelli Gallagher, sa fondere due anime, una più alla Lenny Kravitz e una più vicina ai Pink Floyd. Altro elemento decisamente interessante degli Ÿnsanÿa sono i testi, spontanei ma mai banali ed in grado di accrescere il coinvolgimento del pubblico.
Matteo Ferraro, voce e chitarra, ha accettato di fare quattro chiacchiere per approfondire la carriera fino ad oggi degli Ÿnsanÿa e commentare i loro brani



- Matteo ho letto che vi siete formati nel 2022, quindi siete un gruppo relativamente recente e in meno di tre anni siete passati dalla sala prove ai palchi di Sanremo Rock e di Castrocaro. Vi ritenete soddisfatti del vostro percorso fin qui?
- Fin qui direi di sì, sono stati palchi che hanno contribuito alla formazione della nostra identità che abbiamo oggi e in realtà è in continuo evolversi. Anche queste esperienze qua hanno contribuito alla nostra presa di coscienza, perché ci confrontavamo. Diciamo che sono state le prime volte che uscivamo di casa. Siamo una band della provincia di Cosenza ed essendo al Sud non ci sono gli stessi palchi che ci sono altrove e quindi rapportarci in questi contesti è stato molto stimolante. 
- Molti gruppi indie italiani compongono in inglese. Non credi che ci sarebbe bisogno di un rinnovamento del rock in italiano?
- Anche io in realtà sono un grande fan dell’inglese, le prime canzoni che ho scritto nel 2019 quando il gruppo ancora non esisteva, erano totalmente in inglese e avevo in realtà intenzione di proseguire poi non so forse è prevalsa l’idea di farsi capire più facilmente in Italia e da qui la scelta di scrivere in italiano. Però secondo me è bello farlo in entrambe le lingue. Sono pro entrambe le cose.
- Tendenzialmente è forse più facile scrivere in inglese anziché in italiano.
- Sì tendenzialmente sì anche se sono due culture molto diverse, quindi ci sono dei parametri che vanno rispettati nella scrittura in italiano e altri parametri che vanno tenuti in considerazione nella scrittura in inglese, che altrimenti scade in una cosa diciamo un po’ superficiale. 
- Passiamo ad analizzare un po’ i vostri singoli. Ho ascoltato “Pezzi di vetro” sia in versione full band che in versione semiacustica. Nella versione full band si sentono le influenze del rock inglese e del britpop, qualcosa dei Franz Ferdinand coniugati con un gusto per la melodia tipicamente italiano. Come gruppi italiani mi verrebbero da citare i Negrita per esempio. 
- Sì ci siamo mossi su quella scia lì, quando abbiamo riascoltato il pezzo l’ho visto anche sulla scia de Le Vibrazioni, non a livello di sound, forse a livello testuale, degli accenti delle parole sembrava un po’ anche un pezzo de Le Vibrazioni e sì anche i Negrita sono stati tenuti in considerazione, nelle influenze anche i Franz Ferdinand soprattutto e tutta la scena brit è diciamo sempre luogo di contaminazione. 
- Nella versione acustica di “Pezzi di vetro” la tua voce ha modo di dispiegarsi di più, si sente che hai una buona estensione vocale. Che formazione hai come musicista, sei un autodidatta o l’hai studiata?
- In realtà si potrebbe dire tranquillamente cinquanta e cinquanta. Ho iniziato a studiare musica quando avevo circa 8 o 9 anni, ho iniziato a studiare pianoforte, poi mi sono avvicinato alla chitarra, ma anche al basso e all’ukulele. In realtà la voce è arrivata dopo, ho preso per qualche mese lezioni di canto ma diciamo niente di particolare, giusto per tenere le due ore di live senza stancarsi e arrivarci morti con la voce. 
- Hai imparato ad usare il diaframma nel canto immagino.
- Esatto! Non essendo tra i fortunati dotati per natura ho dovuto studiare. 
- “Don’t look back in hangover” a parte che è una divertente citazione degli Oasis, ma a livello di sonorità nella chitarra mi ricorda un po’ Lenny Kravitz e in alcune parti ricorda un po’ anche i Maneskin. 
- Questa cosa dei Maneskin è stata più volte discussa perché forse è stato involontariamente perché noi i Maneskin non li abbiamo forse mai presi in considerazione come fonte di ispirazione. Lenny Kravitz per il riff di chitarra sì, in questo caso ci abbiamo pensato effettivamente per seguire un po’ la sua scia, anche lui super artista indipendente che si produce da solo e tutto quanto. Lui è sempre stato un idolo sotto questo punto di vista. Mentre invece per i Maneskin no non abbiamo mai pensato di prendere qualcosa da loro però ce l’hanno detto anche altri, che anche in altri pezzi come “Don’t look back in hangover” si sente una forte influenza dei Maneskin. Diciamo che è stata una cosa involontaria perché non ci abbiamo pensato durante la scrittura del pezzo. 
- Un altro pezzo che mi ha intrigato è “Phunk” che è un funk vibrante. Come è nata?
- “Phunk” è forse la canzone concept per eccellenza che abbiamo scritto. Quel che mi dispiace è che queste produzioni sono state curate troppo poco per il semplice fatto che avevamo come mezzi semplicemente chitarra, basso e batteria. Quindi non avevamo ancora uno studio, non avevamo ancora un canale di distribuzione. Poi siamo stati distribuiti dalla nostra etichetta che abbiamo trovato poi più in là, dopo un annetto e mezzo di carriera diciamo. “Phunk” nasce da un concept che è quello di “Ph”, che potrebbe significare tranquillamente il Ph delle foto, quello della pelle. Infatti nel testo ci sono citazioni riguardanti la “pelle acida”, Ph per quanto riguarda le foto quindi tutto ciò che è legato al mondo dell’apparenza, quello che si vede dalle foto sui social ad esempio e “Ph” anche per quanto riguarda la sessualità, quindi anche “PornHub”. Siccome è un pezzo funk abbiamo detto “scriviamo funk col ph e scriviamo il testo in relazione a quello che abbiamo pensato. E infatti il testo parla di una persona che ha magari la pelle acida. “La tua pelle è acida come te”, quindi paragonata appunto alla persona e spieghiamo di questa ragazza che vive nell’apparenza.
- Come molte persone adesso purtroppo. Altra domanda, quali sono i vostri progetti futuri? Volete fare molti live, registrare altre cose in studio…
- Sicuramente ci stiamo evolvendo sotto il punto di vista del sound perché stiamo passando dal fare rock diciamo un po’ più alternativo all’altra faccia della medaglia, cioè proprio al pop. Stiamo preparando delle produzioni prettamente pop funk, electro quindi con l’aggiunta di synth, campionatori, drum machine, un sacco di roba insomma. Quest’estate contiamo di fare qualche data ma soprattutto concentrarci sulla registrazione. Abbiamo potuto chiuderci da mesi a questa parte a preparare delle nuove demo e ci siamo presi addirittura una casetta per poterci andare a rinchiudere in full immersion. Ovviamente bloggheremo tutto quanto, quindi faremo dei contenuti su quello. Questo è il nostro progetto più importante. Ovviamente oltre alle date. A settembre apriremo per i Patagarri, band di X Factor che è andata fortissimo. Ed è il nostro primo open per qualcuno di emergente che però è già famoso e poi altre date qua e là per portare il progetto un po’ in giro.
- E magari da quella casa che avete preso uscirete con un album alla fine.
- Non lo so perché sono poco fiducioso nei confronti degli album. Scrivere un album è il mio più grande sogno, sì magari potrebbe uscire però ancora non lo “sento”. 
- Perché secondo te ormai gli investimenti vanno fatti sui singoli?
- Sì perché secondo me se non c’è almeno un po’ di seguito grande non ha senso pubblicare della musica che non ascolterebbe nessuno, per quanto mi riguarda. Quindi i singoli sono il modo più veloce per comunicare, sono più facili da far girare, farsi conoscere per poi preparare qualcosa di più maturo, anche perché non è una questione diciamo prettamente di marketing, è che scrivere nuovi brani ci porta a migliorare ed essendo una band emergente forse non saremmo ancora pronti per un album.



Quel che emerge dall’intervista è la sensazione che gli Ÿnsanÿa, oltre ad essere validi musicisti, abbiano anche piena coscienza dei propri mezzi e vogliano crescere senza strafare per maturare come band e riuscire così a raggiungere quei traguardi importanti che auguriamo loro. 


Recensione e intervista a cura di Luca Stra per #diamantinascosti




 

domenica 6 luglio 2025

THE RADS - ONLY THE BEGINNING - PUNK SENZA COMPROMESSI - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Fino a quando ci saranno musicisti appassionati e capaci il sacro fuoco del punk rock non si spegnerà mai. E i fiorentini The Rads capaci e appassionati lo sono senza ombra di dubbio. Si tratta, infatti, di quattro musicisti con una lunga esperienza che hanno deciso di dare vita ad un progetto schietto, diretto e senza tanti fronzoli. La musica dei The Rads punta a smuovere le corde dell’anima degli ascoltatori e a risvegliare le loro coscienze intorpidite. Il primo EP della band, “Only the beginning”, uscito lo scorso 27 giugno per Blackcandy Produzioni, è la dimostrazione pratica di come si possa suonare protopunk oggi non solo in modo credibile, ma con carattere e personalità. Le radici dei The Rads affondano nel punk inglese dei Clash e in gruppi come i Dead Boys, ma l’approccio è assolutamente personale e maturo. La scrittura dei pezzi è curata nei minimi dettagli, d’altronde i quattro musicisti che compongono il gruppo, Matteo Gioli (chitarra e voce), Rino Valente (chitarra e cori), Dino Graziani (basso e cori) e Francesco Giancaterino (batteria) come detto hanno una lunga esperienza alle spalle ed è questa la loro marcia in più. I cinque brani che compongono l’EP sono una scarica di adrenalina benefica ed esaltante. La produzione praticamente live è assolutamente funzionale ai pezzi e ne esalta ulteriormente la qualità. Abbiamo parlato con Matteo Gioli di “Only the beginning” e del loro modo di vedere la musica. 



- Matteo il vostro è un punk schietto con reminiscenze che vanno dai Clash a band americane come i Dead Boys.
- Certamente sì tanti ex della scena Los Angeles 77.
- Siete musicisti con molta esperienza, ho letto che avete fatto parte di band di generi molto diversi tra loro. Qual è la tua storia musicale in particolare?
- La mia storia musicale nasce con Dome La Muerte and the Diggers, o meglio avevo tanti progetti diciamo adolescenziali all’epoca tipo Thunder Road Company finchè non fui reclutato appunto da Dome La Muerte e quindi CCM, diciamo un po’ la storia del punk nostrano per la prima formazione dei The Diggers in cui ho suonato per quasi dieci anni. In contemporanea a quello sono nati altri progetti, dal country al rock n’ roll, abbiamo fatto anche un tour per l’anniversario di Folsom Prison di Johnny Cash con Bobby Solo alla voce, quindi tanta roba diversa però alla fine c’è stato un po’ un ritorno alle origini. Io personalmente ho sentito il bisogno di ritornare al  volume alto e cercare di fare quel genere lì in modo più adulto, più cresciuto visto che l’ho vissuto nei miei twenties e ora che sono nei quasi quaranta ho una visione diversa nell’affrontare le stesse robe, da quello che può essere un punk di rottura adolescenziale a un punk di fuga in età più adulta. 
- Secondo te gruppi che hanno sdoganato il punk per le masse, ma in realtà non sono punk ma pop con un vestito simil punk, ad esempio i Green Day, hanno fatto più male che bene al genere?
- Mah guarda la domanda casca a pennello nel senso che ho portato mio figlio a vederli due settimane fa, io li avevo già visti 25 anni fa e per quanto il loro non sia più ora un concerto punk come quando li ho visti io è stata comunque una delle cose più punk che ho visto negli ultimi anni. Hanno iniziato lanciando subito messaggi anti Trump, nonostante siano comunque un gruppo pop sotto una Major, comunque hanno mantenuto alcune delle robe importanti. Paradossalmente quel modo di lanciare un messaggio, di aggregare tramite un messaggio che è quello che manca oggi perché tutti si mettono like l’uno con l’altro ma poi manca veramente un’ideologia di fondo che unisce. E loro questo l’hanno fatto devo dire, con mia grande sorpresa e comunque un gruppo main del genere che ti dice “mandiamo a casa quei fascisti” non è da tutti.
- Parliamo un po’ del vostro EP. Il primo pezzo “Liar” ha proprio un tiro da singolo, si sente. Mi ricorda un po’ nel tipo di sonorità “I fought the law”, nella cover più famosa di tutte che ne fecero i Clash. E il vostro pezzo resta impresso nella mente già dai primi ascolti. Siete comunque riusciti a differenziare i 5 pezzi dell’EP dando un’atmosfera particolare ad ognuno rendendo più movimentato l’insieme. 
- L’EP è un mini viaggio in quelli che sono stati i primi esperimenti che abbiamo fatto. I Rads sono nati a settembre dell’anno scorso, quindi nonostante le esperienze dei singoli siano di vecchia data, comunque come band suoniamo insieme da molto poco tempo e quindi abbiamo iniziato un po’ a scoprire cosa potesse venirne fuori. Non ci siamo voluti dare dei paletti, non abbiamo voluto dire “ok facciamo il gruppo punk, californiano o altro e quindi in questa prima esplorazione fai conto avendo iniziato a suonare a settembre abbiamo buttato giù subito dei pezzi nostri. Abbiamo cominciato come spesso succede con delle cover anche perché dei pezzi già conosciuti nell’ambito di un live servono anche quelli anche per smorzare i vari momenti però è stata un po’ un’esplorazione e quindi ogni pezzo dell’EP è come se fosse un seme di quello che abbiamo dentro, quindi c’è il pezzo più clashano, quello più alla X, quello più rock n’ roll quindi con il chitarrone quasi surf, c’è il pezzo più blues, ci sono tante identità e paradossalmente ogni pezzo ha un’identità specifica, ma alla fine suonano molto bene insieme. Diciamo che sono stati i pezzi che abbiamo usato per costruirci, per trovare quella che poteva essere la nostra identità. Abbiamo capito che alcuni pezzi più mid tempo come “Liar” ce li sentiamo particolarmente addosso. Abbiamo lavorato su dei pezzi con quell’identità lì. Quindi ci sono serviti come strumento per crescere, per andare avanti con quello che è il lavoro di scrittura dei pezzi. Fai conto che l’EP l’abbiamo registrato a dicembre e la band è nata a settembre. Quindi è un disco registrato molto di pancia, senza overdub, senza sovraincisioni. Volevamo una cosa che suonasse più vicina al live, non volevamo partire da una cose che fosse troppo sovraprodotta come in quei casi che uno quando va a sentire la band dal vivo sente che ci manca qualcosa. Quindi abbiamo cercato molto quella ruvidezza lì e quindi credo che sia stato un ottimo EP di presentazione, anche di quello che verrà perché comunque abbiamo altri pezzi e abbiamo già fatto i provini per l’LP che andremo a registrare penso a fine agosto per un album in uscita verso novembre per fare poi i club.


Quel che rende un gruppo di genere, come in questo caso il punk, diverso dagli altri è proprio la capacità di osare, di uscire dalla propria confort zone e proporre al pubblico un tipo di musica che resti impresso per un taglio particolare dei brani e che contribuisca a catalizzare l’attenzione. Questo sono i The Rads.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra





 

mercoledì 2 luglio 2025

ANDREA CARBONI - PASSANTI MOSTRI E FANTASMI - RECENSIONE A CURA DI IRIS CONTROLUCE PER #GLORYBOX


Per dare vita ad un album, quale veduta può mai ambire a superare la bellezza di una finestra sul mare della Sardegna?
Ed è proprio cullato dal rumore delle onde e inebriato dai profumi salmastri che nell’estate del 2020 Andrea Carboni, ha scritto il suo quarto lavoro, dal titolo “Passanti, mostri e fantasmi”.
A differenza dei dischi precedenti nei quali aveva affrontato temi quali l’amore (“Due”) e la critica sociale (“La rivoluzione cosmetica”), in questo si raccontano relazioni fra esseri umani che poi ritornano su loro stesse, un viaggio che mira a mettere in discussione ruoli, decisioni, sogni, ideali, in un continuo nascere e morire di passanti, mostri e fantasmi.
Il cantautore, ci ricorda come nel corso della vita di un individuo, le persone che ne prendono parte attiva hanno un’identità propria e un’identità collettiva (e queste inevitabilmente si influenzano a vicenda).
Ascoltando l’album e leggendo i temi trattati, mi è venuta in mente quella frase in cui Fernando Pessoa, si riferiva a se stesso come un semplice osservatore anonimo della vita, che si muove senza lasciare alcuna traccia nel mondo.  Considerandosi un semplice passante, nell’immaginare la propria dipartita, lo scrittore e poeta portoghese, riteneva che quanto avesse fatto, sentito o vissuto nel frattempo sarebbe svanito nel nulla. 
Questa sua visione era puramente soggettiva, mentre quella dell’artista toscano è conseguenza di uno sguardo più ampio: parte dal presupposto che tutti noi siamo in qualche modo interconnessi e che chiunque possa essere trasformato in un passante: da conosciuto a sconosciuto (e viceversa), divenendo fantasma (non facendo più parte della vita di qualcuno) oppure mutando addirittura in un mostro (a causa delle proprie azioni o semplicemente perché vittima di pregiudizi).



I testi, descrivono le emozioni che accompagnano l’instabilità di certe relazioni interpersonali poco inclini alla condivisione, difficoltà descritte sia dal punto di vista di chi non lavora su se stesso per superare le proprie mancanze sia dalla prospettiva di chi si ritrova a dover scegliere tra subire in silenzio o allontanarsi dal dolore.
In queste situazioni, Andrea ipotizza ci si possa affidare al destino (“Andiamo forte”: prendi la luna, prendi da bere, io prendo il vento, prendo il silenzio. Restiamo soli ancora un po’, che forse qualcos’altro apparirà. Cade la pioggia dentro a un bicchiere, cadono stelle anche se sembrano neve. Cadono tutte le difficoltà, sembrano sabbia in una lacrima), all’istinto placato grazie ad una ritrovata consapevolezza (“Agosto”: Tornare domani, le mani sono di sabbia, cercare qualcosa dentro, tagliare la luna a metà senza fare rumore. Far cadere parole, passare più tardi. Con tutte le luci più chiare non sembrano come ieri. E’ colpa del sole, dell’acqua che cade, del tempo aspettato, di frasi affettate), rassegnandosi alla sofferenza che deriva dall’aver soffocato i propri sentimenti (“Piove dentro”), rimanendo inermi rispetto all’impossibilità di riuscire a comunicare come si vorrebbe (“Ho un tic”) o arrendendosi di fronte all’evidenza (“Non è vero”).
Nel descrivere la propria famiglia musicale, l’artista ci racconta di un cerchio composto solo da poche, ma fidate, persone: Paolo Mauri (Afterhours, Massimo Volume, Prozac+, Luci Della Centrale Elettrica e tantissimi altri) che si è occupato della produzione artistica del disco e Daniela Savoldi, che ha arrangiato e suonato tutti gli archi.
Partiti dalla scrittura del cantautore che ha inizialmente proposto una prima stesura piano e voce, Daniela ha dato vita a delle vere tessiture orchestrali che hanno impreziosito l’intero lavoro e, allestito uno studio mobile, Paolo Mauri, ha costruito tutto il resto, ricomponendo parti e intrecci pianistici, strutture delle canzoni e raffinando le melodie vocali.
“Passanti, mostri e fantasmi” è un album poliedrico, in cui le canzoni alternano arrangiamenti più complessi che virano in lievi dissonanze ad altri più essenziali che prediligono squisiti ricami armonici. 
Laddove la struttura della forma canzone viene maggiormente rispettata e gli archi abbracciano le melodie vocali elevandole ad un livello superiore, non possiamo che riconoscere una marcata vena di orecchiabilità (specie in “Io te l’avevo detto”, “Agosto” e “Andiamo forte”). 
La delicatezza della poetica di Andrea Carboni sa convincere perché ricolma dell’innata grazia malinconica tipica dei dipinti dei paesaggisti del Romanticismo, con i quali condivide delicatezza ed eleganza.
Parole e suoni delle canzoni diventano prima fotografie, poi immagini in movimento, affidandosi alla raffinatezza della classica contemporanea ed esplorando le profondità dell’animo umano con il tocco gentile tipico delle persone dotate di grande sensibilità.
In attesa di poter apprezzare i suoi prossimi lavori discografici, aspettiamo con curiosità di poterlo seguire dal vivo.


Recensione a cura di Iris Controluce per #glorybox



 

domenica 29 giugno 2025

GIULIA BI - IN STATO DI QUIETE (APPARENTE) - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


“In stato di quiete”, album d’esordio della cantautrice rivolese Giulia Bi, uscito nel 2024, è il ritratto di una quiete piena di riflessioni, stimoli e passioni. L’incipit “Timido”, musicalmente spoglio con solo voce e chitarra in primo piano, è un invito a prendere coraggio ed uscire dal proprio guscio, perché “non penserai mica di essere speciale”. Il protagonista del brano infatti si crogiola nella sua timidezza facendone un alibi per sottrarsi al prendere la vita di petto. La title track “Stato di quiete”, che segue, è una piacevole sterzata verso atmosfere più blues con i fiati in primo piano che impreziosiscono la struttura del pezzo e sottolineano il contrasto tra il testo “stato di quiete, stato di malattia” e la musica decisamente upbeat. Tra le altre tracce degne di nota emergono sicuramente “(Il mio) rock n roll suicide”, citazione di “Rock n roll suicide” di David Bowie, con un crescendo che culmina in un ritornello che si imprime in mente già dai primi ascolti. L’album è fondamentalmente pop di buona fattura, ma sconfina volentieri in un rock più vigoroso dando vita ad un amalgama che rende le tracce varie e movimentate. Tra le fonti ispirative emerge sicuramente il grunge, ma anche molti gruppi storici seminali del rock in italiano. La conclusiva “Basta così” che si apre su una chitarra sudamericana è la degna conclusione di quest’album decisamente riuscito, personale, in buona parte autobiografico. Decisivo nel plasmarlo è stato il contributo di due musicisti di grande esperienza come Gigi Giancursi dei Perturbazione e Gianluca Della Torca dei Gatto ciliegia contro il grande freddo. 



Giulia Bi ci ha concesso un’intervista che ci ha permesso di approfondire i contenuti del suo album e anche di commentare i pezzi del suo prossimo lavoro, che ci ha fatto gentilmente ascoltare in anteprima.
- Ciao Giulia, “In stato di quiete” mi sembra che sia un disco di regole contro le regole, cioè strategie per liberarsi da molti bavagli che abbiamo nella vita.
- Mi sembra abbastanza puntuale. Non so se può essere anche l’inverso cioè che io ho fatto fatica ad interiorizzare le regole, però sì diciamo che come tema ci sta.
- Parliamo del brano di apertura “Timido”. Il timido è una persona che rinuncia, che si sottrae programmaticamente come stile di vita. Ce lo spieghi meglio?
- Posso parlare di me?
- Di te, del tuo punto di vista sulla canzone. Poi può essere una persona figurata. 
- Sì sono quasi tutti pezzi autobiografici, su quello che provo, cui provo a dare una forma ecco. Quindi la timidezza è mia perché lo sono stata per gran parte della vita. Ed è anche il tentativo di dare una lettura meno tenera del timido che è sempre quello un po’ in difficoltà per cui per carità grande compassione ma anche per dire “chi ti credi di essere”. Vuol dire che ti sottrai. Ed è mettersi anche nei panni di quelli che interagiscono con i timidi volendo. Quindi era un po’ questo concetto qua: “ma ci provi gusto a non stare in relazione da un certo punto di vista”.  Cioè polarizzo un po’ come concetto e poi concludo dicendo “vai a dormire” che magari domani sei più leggero.
- Anche perché questa timidezza da pesantezza. È difficile da sopportare.
- Eh sì anche perché costringe l’altro a fare degli sforzi e quindi non è proprio semplice.
- Il tuo è un cantautorato sporco di varie cose: di rock, di blues, di garage, di punk, diciamo che ti piace spaziare. Se dovessi identificarti in un filone, non un genere ma diciamo un filone dove ti collocheresti?
- Allora come gusto forse il grunge è il mio genere preferito, poi forse comunque lo trovo un disco pop il mio. Ha un po’ di rock come struttura dei pezzi, orecchiabilità. Quindi forse pop rock. Poi è stato un disco creato proprio un po’ in condivisione. Io non suonavo da tanto tempo perché il lavoro, la vita, eccetera tolgono tempo. Poi ho ripreso ad un certo punto a scrivere ed ho tirato su un gruppo che è fatto anche da mio fratello alla batteria e poi all’inizio c’era Gianluca Della Torca al basso.
- Mi ha incuriosita anche la title track “Stato di quiete” in cui canti “Stato di quiete, stato di malattia”. Quest’associazione di pensiero è perché forse quando siamo sani facciamo sempre mille cose e l’unico momento in cui possiamo fermarci è quando stiamo male?
- È bello perché tu stai dando una lettura opposta, cioè mi fa molto ridere. In realtà è la sindrome depressiva perché quando stai bene ti ricordi di tutte le cose di cui c’è da occuparsi mentre quando stai male ti occupi del fatto che stai male.
- Parliamo del pezzo “Il mio rock'n'roll suicide”. Penso che ovviamente sia una citazione di David Bowie, anche un po’ dal punto di vista della struttura musicale. Ce la racconti?
- Ma era un po’ un periodo un po’ così come umore però anche diciamo di condivisione rock n roll con tutte le persone che ho incontrato in quel momento, di grandi serate quando abbiamo registrato il disco, grandi prosecchi, grande divertimento rock n roll però c’è anche lì un po’ il tema dello star male. In realtà quando l’ho scritta la prima immagine che mi è venuta in mente è il risveglio la mattina che è un po’ duro. Ti svegli e hai quei secondi in cui sei triste. Quindi è un po’ come rinascere perché ci metti un attimo a riprendere coscienza che sei un po’ giù. La prima immagine che mi affascinava un po’ come concetto era quindi il risveglio, quindi anche tutto quello che ti fa dimenticare. Quindi rock n roll suicide in quell’accezione là, anche in questo caso un po’ doppia. 
- Sul pezzo “Orari buoni” mi sono appuntato questo verso: “mi devo solo ricordare di dormire e di mangiare in orari buoni”. Di che si tratta? È un richiamo ad un conformismo forzato? Scandire la vita secondo regole?
- Sì era il desiderio di averne in quel momento lì, cioè non è possibile appunto questa vita rock n roll. Io tra l’altro sono anche psicologa di mestiere e il lavoro che richiede la musica è un lavoro creativo non è un lavoro meccanico ma richiede una certa struttura. Mi auspicavo di riprendere un po’ una bussola, bisogna solo ricordarsi di organizzarsi un po’ meglio, di ristrutturarsi, di non perdersi nel rock n roll, un po’ questo.
- Invece su “La mia faccia” c’è un verso che recita “se siamo tutti narcisi allora ormai è tutto normale”. Penso sia un riferimento ai social, così come anche in un altro pezzo, “Cuori infranti” in cui parli di guru improvvisati, di gente che su YouTube monetizza l’amore. Secondo te siamo pronti a svendere le nostre vite per un secondo di celebrità, altro che il quarto d’ora di Andy Wharol. Qual è il tuo punto di vista su questo?
- Sì la direzione un po’ mi sembra questa effettivamente. In realtà quel pezzo lì l’ho scritto durante il Covid quando ho iniziato a fare sedute di lavoro online, cosa che adesso è sdoganata perché è prassi comune, ma al tempo era una cosa nuova. Quindi l’ho scritta perché quando facevo i colloqui mi rendevo conto che non riuscivo a smettere di guardare la mia immagine sullo schermo. E quindi era veramente assurdo fare un colloquio ma non riuscire a smettere di guardare se stessi. Avevo partecipato anche ad un talk al Parco del Valentino (ndr il più famoso parco di Torino) su questi temi qua e si parlava di ragazzini che sognano magari di fare musica ma la prima cosa cui pensano non è “scrivo questa roba qui perché la voglio scrivere, perché mi importa della musica” ma è come se il primo pensiero fosse già che quella cosa lì poi finirà sui social, un processo molto narcisistico. Che poi sì se fai musica devi farla questa roba qui, mi sento in difficoltà ma cerco di fare come posso, come mi viene. 
- Come è nata “Cuori infranti”? Musicalmente, tra l’altro, quel “è una questione di volontà” su quella musica lì mi ha ricordato un po’ i CCCP.
- Allora, avevo guardato in quel periodo dei video di coach, di persone che ti spiegano come vivere in una serie di situazioni legate soprattutto ai sentimenti e quindi il concetto è sempre “dotati di strategie”. Che non è come dire un’interiorizzazione, un parlare della relazione, è tutto un semplificare, adottare delle strategie per avere l’altro vicino. E’ stato un po’ questa cosa qui, una critica al fatto che si moltiplichino tutti questi video che ti spiegano come relazionarsi.
- A proposito dell’album ho letto che hanno avuto un ruolo nella sua creazione sia Gigi Giancursi dei Perturbazione che Gianluca Della Torca dei Gatto ciliegia contro il grande freddo. Qual è stato il loro ruolo? Hanno collaborato nella scrittura dei pezzi?
- I pezzi li ho scritti tutti io come struttura però negli arrangiamenti è capitato che cambiassero qualche accordo, che modificassero un po’ la struttura del pezzo. Gianluca Della Torca è stato nostro bassista per un po’ poi adesso abbiamo Gianluca Cato Senatore. Abbiamo costruito arrangiamenti come band poi Gigi ci ha dato un po’ una mano in fase di produzione. È stato abbastanza un processo condiviso. Che poi ci sono diversi  casi in cui i cantautori scrivono le parti e poi dicono “lo voglio così, lo voglio cosà”, mentre invece noi abbiamo proprio creato un po’ insieme.
- Ho ascoltato anche i brani del futuro EP che mi hai mandato gentilmente in anteprima. Lo trovo interessante anche se, non sapendo se gli arrangiamenti siano o meno quelli definitivi posso darti le mie prime impressioni. Mi sembra che tu abbia messo l’accento su una componente più cantautorale, la chitarra acustica è presente in quasi tutti i pezzi, sono dei provini oppure l’intento è quello?
- Allora, qualcuna era sicuramente meno definita di altre che ti ho mandato. Lo stiamo mixando proprio ora però diciamo che sì la direzione è un po’ questa. Tra l’altro ho comprato un mellotron. Comunque è stato un processo un po’ diverso, io a casa con il mellotron ho messo due linee melodiche, dei diciamo disegnini nei testi. Poi ora ho chiesto un aiuto a Matteo Tambussi che adesso ha avviato una sua carriera da solista quindi cura i pezzi un po’ come produzione. Però comunque ho pensato di fare un disco un po’ meno rock n roll non perché non avessi dei pezzi che si prestavano però ho due anime, una un po’ più intimista e una più rock n roll e ho pensato l’album rock n roll lo ho già fatto e così ora farò emergere di più l’altra parte.



Il primo album di Giulia Bi è un esordio decisamente promettente per cui la curiosità di esplorare questo lato più intimista nel prossimo, secondo lavoro è tanta anche per poter valutare come sta evolvendo il suo stile, la sua poetica. 


Recensione e intervista a cura di Luca Stra per #diamantinascosti