lunedì 13 ottobre 2025

GIOVANNI AMIRANTE - UN'IDEA DI LUCIDITA' - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Ci sono canzoni che raccontano emozioni in cui ci viene naturale specchiarci e la cui potenza evocativa riaccende parti del nostro cuore che credevamo ormai spente per sempre. Sono quel tipo di canzoni che ti fanno dimenticare il cellulare e sollevare finalmente gli occhi sul viso di chi ami per capire cosa prova, cosa potete avere in comune, le distanze, i non detti. Canzoni che danno voce alle nostre mille anime. Le canzoni di Giovanni Amirante, cantautore di origine partenopea, fresco di pubblicazione del suo album “Un’idea di lucidità”, sono proprio così. Sette mondi che puoi guardare come caleidoscopi perdendoti nei colori, nei giochi dei riflessi. Le storie narrate si amalgamano a tante piccole suggestioni poetiche, come nel pezzo di apertura del disco, “Sessantamila”, in cui riflessioni sulla vita si intrecciano ai ricordi di un antico amore di cui sono rimasti impressi particolari sulla pelle, piccole rughe che ci fanno volere ancora più bene a una persona che abbiamo ritrovato dopo lungo tempo. Il vertice dell’album è il pezzo “La truffatrice”, cantato in duetto con una voce femminile, lirico e commovente, in qualche modo figlio, dal punto di vista del feeling che è in grado di creare, di “Giudizi universali” di Samuele Bersani. Il brano seguente, penultimo dell’album, “Per il nome del padre”, è un piccolo gioiello di scrittura, una storia in musica che richiama le atmosfere dei cantautori classici come Francesco De Gregori o anche contemporanei come Lucio Corsi. “Un’idea di lucidità” ha la rara qualità di arrivare in punta di piedi bussando alla porta dell’anima dell’ascoltatore, un album in equilibrio sul sottile filo che separa i sogni dalla vita quotidiana, un disco che sussurra anziché urlare come troppi oggi fanno. 
Abbiamo parlato con Giovanni Amirante delle sue canzoni e di come è nato “Un’idea di lucidità”.



- Giovanni, prima di tutto qual è la tua idea di lucidità?
- Innanzitutto mi piace il fatto che il titolo del disco sia una parte del testo di una canzone e non sia il titolo di una canzone. Mi è sempre piaciuta come formula. Quando ho cominciato a pensare al possibile titolo dell’album ho cercato le frasi all’interno delle canzoni che però non fossero i titoli delle canzoni, frasi che potevano rappresentare un po’ l’insieme. La mia idea di lucidità non c’è ma è un percorso, nel senso che scrivere canzoni è anche un atto terapeutico, oltre che una forma di diario. Quindi queste due cose: un diario e una specie di terapia. E quindi un’idea di lucidità perché registrare questo primo disco e vedere le canzoni e non solo immaginarle mi ha dato un’idea del percorso che ho fatto in questi anni e anche cose che pensavo quattro o cinque anni fa e quindi abbastanza vecchie, mi ha fatto notare quelli che sono stati i cambiamenti, come le avrei scritte ora, cosa avrei cambiato.
- Quello che accomuna tutti e sette i brani che fanno parte dell’album è quella sorta di bussare alla porta dell’ascoltatore anziché impugnare un megafono per imporsi. Ti definiresti un cantautore gentile? 
- Sì, poi mi piacciono i cantautori che parlano piano, che fanno filtrare dei concetti e delle riflessioni importanti senza appunto usare un megafono. Per esempio mi viene in mente Concato, ma anche Ivano Fossati che è uno dei miei preferiti in assoluto. O anche Paul Simon se vogliamo andare al di fuori dell’Italia. Quindi anche negli anni cercando un pochino di migliorare la scrittura delle canzoni ho sempre cercato di togliere cose anche dal punto di vista vocale. Ho cercato un po’ di fare questo, di mettere meno acuti, meno parti a voce piena per concentrarmi su una modalità quasi confidenziale di cantato che potesse fare da contraltare con le parole perché cerco di usare parole che per me sono importanti ma dette con un filo di voce.
- Di quali persone o circostanze è la colpa di averti fatto venire la voglia di fare il cantautore?
- Il primo cantautore che ho ascoltato in assoluto è stato De Gregori perché quando ero piccolo mia madre ricordo benissimo che andando una domenica al bowling e c’era questo negozio di dischi sotto al bowling comprò “Il bandito e il campione”, l’album live con tutti i pezzi più famosi però c’era anche “Il bandito e il campione”. E quindi De Gregori è stato il primo amore sicuramente. Poi per esempio De Andrè l’ho capito più tardi, negli ultimi anni del Liceo. Poi chiaramente tutti i classici quindi Dalla, Battiato, Battisti e quant’altro.
- Nel tuo tipo di scrittura ci vedo anche un po’ di Samuele Bersani.
- Sì assolutamente, poi anche la scuola dei cantautori degli anni 90, Niccolò Fabi, Gazzè e anche quelli più recenti come Truppi o lo stesso Lucio Corsi. Mi piace anche molto Capossela cui sono legato anche per ragioni extra musicali perché ho partecipato per molti anni al Festival che lui organizza in Alta Irpinia, lo Sponz Fest. Ho partecipato non come musicista, diciamo come strumentista. Andavo lì in estate è diventato per me un appuntamento importante. Quindi diciamo sì c’è un po’ questa costellazione, poi ci sono questi cantautori americani come Leonard Cohen, Paul Simon, Bob Dylan e poi c’è anche la letteratura, ci sono sicuramente Calvino e Pasolini, i due che mi hanno fatto scegliere la Facoltà di Lettere, quelli di cui mi sono innamorato quando stavo finendo il Liceo. 
- Passiamo ai brani del disco. “Sessantamila” mi sembra una piccola autobiografia, a un certo punto canti “una camera con vista su tutte le città della mia vita”. E’ un pezzo in cui esprimi molti punti di vista poi fai anche una dichiarazione d’amore. Ci sono molte immagini diverse. Cosa intendevi portare alla luce con questa canzone?
- Questa canzone ha cambiato moltissime volte il testo delle strofe. Ultimamente ragionavo su questa cosa che secondo me le canzoni proprio per il fatto che stanno nell’aria possono anche non avere subito una forma definitiva, anzi è bene che cambino nel tempo, che vadano suonate un po’ di volte anche nei live e che ci sia un margine di cambiamento all’interno del testo. Quindi le strofe erano diverse anche se forse hanno fatto un giro a trecentosessanta gradi e che di fatto siano tornate quelle originarie. Nelle strofe sì ci sono diversi punti di vista, quello che sentivo io nella mia vita privata che non le cose più esterne diciamo. Sì c’è sicuramente qualche barlume di un rapporto amoroso, però c’è anche l’eco delle palestre nelle scuole, queste immagini attraverso cui cerco di mischiare il mio vissuto a qualcosa di più collettivo. E’ un po’ quello che vorrei fare diciamo, mischiare la storia mia personale e qualcosa che possa intercettare anche gli altri.
- Parliamo un attimo di “Dall’opaco”, qui si affaccia l’indie rock nell’arrangiamento. Quindi non ascolti solo cantautori.
- No no, comunque la versione di “Dall’opaco” del disco è molto diversa da come la faccio live da solo e anche da quella che ho preparato con la band che si è formata da poco. Non ci sarà quella versione lì di “Dall’opaco” live, è proprio una cosa che resterà sul disco. E’ nata perché il produttore con cui ho registrato che è Luca Vergano ha dato un po’ questa reference che erano i War on Drugs e infatti certe cose le abbiamo proprio un po’ scopiazzate dai loro pezzi. L’intenzione era un po’ quella. Poi c’erano altri gruppi anche, ad esempio, non proprio in “Dall’opaco” ma come reference del disco è stata Shangri-La di Mark Knopfler. Per esempio in “Per il nome del padre” c’è un po’ quella chitarra che è un po’ alla Mark Knopfler.
- Ti chiedo di parlarmi di Delorean, la Delorean penso che per molte generazioni sia sinonimo della macchina del tempo. Quindi “Ritorno al futuro” eccetera. Perché vorresti una macchina del tempo? Vorresti cambiare qualcosa del tuo passato?
- No diciamo che quella canzone è stata proprio una specie di divertissement tra il serio e il faceto. Negli anni sto cercando di essere meno polemico nei confronti del presente, di lamentarmi di meno però magari in una canzone a volte ci si può permettere di lamentare e quindi volevo scrivere una canzone in cui mi lamentavo un po’ dei tempi moderni. E’ stata un gioco praticamente, su un giro di accordi ho cominciato a scrivere un testo e mi piaceva l’idea di citare “Ritorno al futuro” e non pensavo che sarebbe finita nel disco sinceramente. Facendo vedere a Luca un ventaglio di canzoni l’abbiamo scelta però è stata un po’ una sorpresa anche per me. 
- Ti vorrei chiedere delle cose su un brano che davvero mi ha colpito molto, “La truffatrice”. Un brano lirico, delicato, cantato con una voce femminile. Come è nata la tua collaborazione con questa cantante?
- Sì, io e Francesca ci siamo conosciuti ad un suo concerto, lei collabora anche con un collettivo che si chiama “Canta fino a dieci”. C’è anche Anna Castiglia, insomma stanno facendo strada anche singolarmente. E io ero rimasto impressionato da questo concerto e in particolar modo da lei. Poi mi ha scritto ed è partito un carteggio, ci siamo mandati delle canzoni a vicenda ed è nata una stima reciproca. E quando ho deciso di registrare “La truffatrice” ho pensato che la sua voce potesse starci bene. Tra l’altro lei compare anche in un altro brano, “Serafino Gubbio”, però nei cori. Il suo intervento comunque era pensato proprio come nei dischi folk, non fare il duetto pop come featuring così, ma una presenza nel disco che compare in più punti.
- In “Per il nome del padre” mi sembra di sentire l’eco di De Andrè e anche un po’ dei Baustelle. Confermi?
- Dici De Andrè e i Baustelle? Sì De Andrè tantissimo, fa anche lui parte del mio background. E’stato proprio un innamoramento. Dai diciotto anni fino ai venti- ventidue ho letto tutto quello che riuscivo a leggere su di lui. Al di là delle canzoni mi è sembrato proprio di imparare un modo di stare al mondo. Anche il discorso legato alla Sardegna, i suoi rapporti di amicizia, mi piaceva molto questo suo rapporto con Fernanda Pivano. Quindi un po’ questo. Ora preferisco altri cantautori, anche Fossati adesso mi piace di più, lo trovo più vicino a me. Però De Andrè è stato proprio un autore di formazione. Invece i Baustelle mi piacciono molto, ho consumato “Fantasma”, mi è piaciuto anche l’ultimo. Mi piace in generale il modo che hanno di raccontare, ti dicono delle cose anche brutali però con questo tono disincantato, questa musica leggerissima direbbero Colapesce e Dimartino.
- Ti faccio una domanda sui live. Che effetto fa esporti al pubblico? E’ cambiato, se lo è, il tuo rapporto con chi viene ad ascoltarti?
- Io facendo un altro lavoro, perché insegno a scuola non ho mai avuto una vera e propria attività live, quindi diciamo che sono delle occasioni più che altro. Per ora non mi è mai successo di fare un tour in giro per l’Italia. Spero che accada perché sarebbe proprio una bella esperienza da provare. Per ora direi che sono state delle occasioni. Negli ultimi due anni, da quando mi sono trasferito a Torino la cosa che ho fatto di più sono gli house concert. Ne ho fatti quattro o cinque in questi anni.
- Allora sarà più difficile venirti a sentire perché non è che posso presentarmi così a casa dei tuoi amici…
- Sono live che mi sono piaciuti molto anche perché sono molto crudi diciamo, ho suonato anche senza microfono e quindi bisognava che ci fosse silenzio assoluto e così era. E poi il rapporto con le persone è anche più diretto, finisci di suonare e un secondo dopo stai parlando con le persone. 
- E puoi avere un feedback immediato su quello che hai suonato.
- Esatto. E c’è anche più necessità di scherzare con il pubblico per forza di cose, perché in una casa non hai quella distanza che si crea dal palco e che anche l’amplificazione crea. Sei in mezzo a loro e quindi la battuta la devi fare per forza altrimenti diventa una cosa pesante e anche un po’ artefatta. Questo tipo di esperienza secondo me è un’ottima scuola perché non è sempre facile essere spontanei e prendere alla leggera quello che sta succedendo mentre suoni.


Quello di Giovanni Amirante è il percorso di un giovane che sta imparando a fare il cantautore e che ha trovato nella musica un mezzo per trasmettere emozioni, pensieri che vanno oltre il mero significato delle parole. Forse l’idea di lucidità più che con la mente ha a che fare con il cuore.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra




 

lunedì 6 ottobre 2025

LALADRA - DNA INDIE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


“Ieri sera ho fatto tardi, con la vita a incazzarmi” canta Susie Regazzi, voce dei Laladra, in apertura del loro ultimo singolo “Capolinea” uscito lo scorso settembre. Il progetto, che vede coinvolto Federico Poggipollini, storico chitarrista di Ligabue, ma alla sei corde anche con i Litfiba di “El Diablo”, è inequivocabilmente indie. Poggipollini ha curato tutta la parte strumentale, la scrittura dei brani e la produzione coinvolgendo la giovane e talentuosa cantante bolognese Susie, autrice di testi densi di significati che scaturiscono da un’analisi spietata della realtà. Il loro sodalizio artistico è nato in modo molto spontaneo, le due rispettive visioni musicali si incastravano perfettamente e così hanno deciso di fare un disco insieme, di prossima uscita. Tornando a "Capolinea” quel che colpisce è la schiettezza con cui vengono affrontati argomenti come la perdita di ogni relazione umana (“noi siamo nati morti dentro cazzate virtuali”), l’infantilismo egocentrico da selfie compulsivo da cui siamo affetti (“e noi siamo a curarci i no della prima elementare”/ “giro perché fa figo un video dentro alla discarica”), l’incapacità di affrontare la vita (”allergica anche all’aria”, il verso che forse ad un primo impatto colpisce di più). Musicalmente un tocco di elettronica innerva la chitarra di Poggipollini che suona consapevolmente antitetica rispetto al mondo mainstream. Il ritornello esplode con un hook di buona presa che si stampa in mente fin dal primo ascolto. La scelta di lanciare questo pezzo subito prima dell’uscita dell’album è azzeccata perché fornisce un identikit preciso dei Laladra. Abbiamo parlato con Susie non solo di “Capolinea”, ma anche degli altri quattro singoli precedenti usciti tra il 2024 e il 2025. 



- Partiamo da Capolinea che è il vostro singolo più recente, un pezzo brutalmente sincero e incazzato. La nostra società troppo viziata è arrivata al capolinea?
- Sì, sicuramente è un pezzo piuttosto diretto dove magari vado a toccare delle questioni anche un po’ delicate di questi tempi, è un po’ provocatoria. Questioni delicate anche per chi è al potere in questo momento, l’immigrazione e tutta una serie di cose. Mi sono messa nei panni di una tipologia di italiano che si sente a volte un po’ inutile, un po’ perso dentro a un mondo edulcorato in cui siamo cresciuti e poi ci troviamo in faccia la cruda verità. Siamo una generazione che ha studiato pensando di fare chissà quale lavoro e poi l’Italia è tenuta su da persone che vengono da altri Paesi e si accontentano di lavori umili. Noi siamo tutti psicologi, medici…insomma è un po’ una riflessione su queste cose dall’interno.
- Nel pezzo canti “Tornate dal Paese da dove venite”. Il paradosso che loro sono qua per servirci, noi siamo i viziati e poi vorremmo anche mandarli via. 
- Esatto. Poco fa stavo sentendo un documentario che parlava del fatto che tra l’altro in Italia non si fanno più figli e che se rimanessimo solo quelli che siamo adesso tra qualche decina d’anni dovrebbe collassare il sistema, anche pensionistico e quindi queste cose fanno riflettere quando c’è un certo accanimento da parte di certe eminenze politiche verso certe questioni, quindi c’è sicuramente da pensare anche in termini alternativi sul futuro. 
- Dal punto di vista musicale è un pezzo post punk molto d’impatto sia dal punto di vista ritmico che del testo. Il ritornello è uno di quelli che si stampano in mente e fanno venire voglia di cantarlo a ripetizione. In questo senso dal vivo vi dà soddisfazioni fare “Capolinea”?
- Allora, per ora abbiamo fatto soltanto alcuni live perché deve ancora uscire il disco completo che arriverà il 7 novembre e quindi abbiamo fatto qualche live, showcase di rodaggio, situazioni tra noi diciamo però sì ci piace molto un po’ tutto l’album, ci divertiamo e sicuramente non vediamo l’ora di andare live con tutto il disco anche in un piccolo tour. 
- Nei vostri pezzi il basso è spesso presente in primo piano, come mai questa scelta?
- Sicuramente è un elemento chiave del tipo di sonorità che abbiamo scelto con Federico. Tra l’altro è una proposta che mi ha fatto lui che si abbinava molto bene alla tipologia di testi che gli ho proposto io e era un genere che magari conoscevo meno di altri ma mi ha appassionata subito tantissimo. Io vengo più dal pop e per Federico queste sono le sue radici, la musica che ha amato fin da ragazzo quindi abbiamo sicuramente delle venature, delle citazioni anni 80 in cui il basso aveva una carica più speciale rispetto ad altre decadi.
- Diciamo che per lui è un po’ un ritorno all’underground e per te è un avvicinamento ad un livello musicale più professionale?
- Sì in qualche modo per me è un avvicinamento a delle radici che non sapevo di avere. E’ stata una scoperta.
- Invece il singolo “Offline” è un pezzo un po’ più intimista, riflessivo, una fotografia, o almeno io l’ho vista così, del naufragio di una relazione e della solitudine che nasce dal paradosso di essere sempre iperconnessi.  
- Allora sicuramente “Offline” è l’emblema di una generazione che sta cercando sè stessa, un’identità digitale. Noi non siamo cresciuti da piccolini con tutte queste cose intorno e ci si trova abbastanza spaesati e confusi su come relazionarsi rispetto agli altri, alle relazioni che passano sempre attraverso questi dispositivi. Era un po’ una ricerca quindi del silenzio, del raccoglimento e dell’ascolto di sè stessi che non ci porti a fare delle cavolate.
- Musicalmente possiamo dire che è il pezzo più pop del vostro repertorio? 
- Sì esatto anche perché “Offline” viene da un mio progetto precedente che abbiamo un po’ inglobato in questo progetto qua perché ci tenevo molto a questo brano e quindi sì ha un sapore ancora un po’ più pop, fa parte del mio passato pop. 
- Invece “Siamo tra quelli” è un brano pieno di dubbi, si affermano delle certezze che poi si mettono regolarmente in discussione, ad esempio “voglio tutto dalla vita ma non fino in fondo. O no?”. Qual è per te il valore dei dubbi nella vita?
- Sicuramente anche questa canzone è un po’ provocatoria. I dubbi sono importanti, sono fondamentali, ogni tanto chiedersi “ma dove sto andando nella mia vita?” e quindi questa canzone fa riflettere che a volte abbiamo quasi più paura di vivere rispetto a se morissimo domani, la vita a volte può sembrare veramente spaventosa in un’epoca in cui non sai mai cosa succede, magari da un giorno all’altro può cambiare tutto. Spuntano le intelligenze artificiali, ci sono cambiamenti epocali ogni anno praticamente, quindi può fare più paura che in altri momenti.
- Continuando la panoramica dei vostri singoli precedenti “E così sia” direi che invece è un pezzo sull’infrazione delle barriere, dei limiti. E canti “la notte parla, la notte insegna, il cuore ascolta”. La notte è per te uno spazio di libertà in cui si possono superare le barriere?
- “E così sia” è un po’ un patchwork di ricordi che ho di quando ero adolescente alla periferia di Bologna e di tante cose che sono accadute. Magari non lo dico esplicitamente ma per me “E così sia” è un po’ un brano per lasciar andare quel passato che non riusciamo ad accettare come nostro. Anni persi dietro a cose che magari non hanno costruito qualcosa di sensato nella vita. Però bisogna anche perdonarsi.
- Ok, invece in “Cv” canti “se vuoi il mio Cv cercalo negli occhi”. E’ una canzone su una persona che non ha nulla da nascondere perché nei suoi occhi si legge già tutto di lei?
- Io non credo molto nei curriculum in generale, in quello diciamo in senso tradizionale che hai imparato seduto a una scrivania, io credo molto nell’esperienza sul campo, nella pratica e quindi anche questa è un po’ una provocazione. Al di là di quello che uno ha studiato conta poi la passione che ci mette nel fare le cose al di là del pezzo di carta che ha preso in questo senso. Il brano è un po’ provocatorio.
- A proposito di pratica, come ti trovi nella pratica in sala di registrazione, è stata una novità per te stare in sala di registrazione o avevi già registrato album o tracce precedenti?
- Io ho sempre amato stare in studio, ho lavorato precedentemente con vari producer, col mio vecchio progetto per varie cose. Forse sono stata più in studio che in live, sono cresciuta in studio, ne ho anche uno a casa, mi piace molto come dimensione anche quando non sono da sola ma lavoro con qualcuno mi dà molta soddisfazione alla fine ascoltare un pezzo finito, mettermi anch’io dietro agli arrangiamenti, lavorare sui suoni mi piace molto. 
- Ultima domanda. Ci hai detto già all’inizio che è pronto l’album. Ci puoi dire qualcosa in più?
- Sicuramente queste cose si fanno per tempo, l’album è finito adesso aspetta solo di uscire, sono già usciti alcuni singoli, consiglio a tutti di ascoltarli in alta qualità, io credo molto nell’alta qualità. Cerchiamo di ascoltare le cose perbene ecco, ora deve solo uscire il resto dell’album e lo porteremo live.


Laladra è una testimonianza di libertà artistica per entrambi i componenti della band. Per Federico Poggipollini rappresenta una riconnessione con il mondo da cui è emerso e l’occasione per sperimentare, per Susie è l’occasione per uscire dalla propria confort zone pop scoprendo e abbracciando, come ci ha detto lei stessa, delle radici che non sapeva di avere. Insieme i due musicisti stanno dando vita, in totale libertà creativa, alla musica che hanno dentro e che, se non si fossero mai incontrati, non sarebbero forse stati in grado di far nascere. 


Intervista e recensione a cura di Luca Stra




 

martedì 30 settembre 2025

DANCALIA - L'IMPORTANZA DELLA COMPONENTE UMANA - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Dancalia è una regione desertica del Corno d’Africa caratterizzata da paesaggi surreali con deserto, vulcani e distese di sale, una delle zone in assoluto più inospitali della Terra. I Dancalia, band di Sassari composta da Costantino Pulina alla voce, Mattia Schintu alla chitarra e Giuseppe Cappio Borlino alla chitarra, synth e programmazione, si sono ispirati proprio a questa zona aliena per il nome della band per sottolineare la loro diversità, che si concretizza in una proposta che mixa musica elettronica e testi impegnati, che fanno ballare e contemporaneamente riflettere raccontando la realtà nella sua dura concretezza. “Zolfo”, loro ultimo singolo pubblicato nello scorso mese di luglio, è da questo punto di vista un pezzo emblematico che fonde l’elettronica con fraseggi di chitarra e fa risaltare la voce di Costantino che racconta la fuga dall’orrore di guerre neanche troppo lontane, che sconvolgono completamente l’esistenza quotidiana trasformando chi le subisce in povere anime in fuga. Il protagonista è un ragazzo tredicenne, Miran, che porta impresso sulla pelle l’orrore della guerra e la cui unica colpa è di essere nato nel posto e nel momento sbagliati. Ballare su versi come “ad occhi chiusi suona meglio il sibilo di quella scheggia che mi passerà più vicino” rappresenta il cuore di un progetto dall’anima profonda che non rinuncia a sonorità accattivanti. “Take My Love”, singolo precedente ed unico cantato in inglese, ha un’atmosfera più sognante legata all’espressione del sentimento più universale di tutti, l’amore. Anche in questo caso l’impronta stilistica che fonde synth e chitarre è evidente. Il brano fa risaltare le sfumature vocali di Costantino Pulina creando un amalgama decisamente riuscito. Uscito nel 2024, “Ernst Mach ha imparato a volare”, che cita nel titolo il fisico e filosofo austriaco noto per la sua concezione scientifica radicalmente empirista e anti-metafisica, musicalmente ipnotico è un brano su questi tempi difficili in cui viviamo un rapporto sempre più stretto e in vertiginoso sviluppo tra intelligenza umana e artificiale. “Resistenza”, pezzo di debutto pubblicato nel maggio 2024, è una traccia già caratterizzata dal suono distintivo della band, un brano sulla fuga e sul liberarsi dalle gabbie che ci imprigionano. Quel che caratterizza i Dancalia è la fusione tra strutture musicali stratificate come architetture ardite su cui si innestano testi complessi e mai banali che fan sì che il loro progetto si distingua nel panorama musicale attuale.  
I Dancalia si sono prestati ad una chiacchierata a tutto campo sulla loro musica.



- Dancalia è una regione desertica del Corno d’Africa. E’ da qui che avete tratto ispirazione per il vostro nome?
COSTANTINO – Esatto, abbiamo tratto ispirazione da questa regione qua, che tra l’altro è una regione che si trova tra l’Eritrea e Gibuti, perché è una regione particolare, una regione quasi aliena con vulcani interrati, con geyser, diciamo che è una delle zone più inospitali del pianeta, quasi aliena come stavo dicendo, che un po’ abbiamo voluto rappresentare con la musica che facciamo, musica non canonica e quindi pensavamo fosse figo utilizzare quello come nome. Anche perché suona bene. 
GIUSEPPE – Secondo me la scelta del nome è stata fatta anche perché Dancalia è il luogo più caldo del Pianeta. Noi viviamo in Sardegna che è già penso il posto più caldo di tutta l’Italia e dove sicuramente quello che si percepisce a livello emozionale è il calore della nostra terra e del nostro popolo. Quindi per noi era un luogo iconico “Dancalia”.
- Parliamo di “Zolfo”, un brano pieno di bombe, nitroglicerina, salta tutto, aerei che si schiantano. A un certo punto invocate la pace. Avete la sensazione di sentirvi schiacciati dalla vita?
COSTANTINO – Qua c’è una parentesi molto grande da aprire, io credo che nessuno debba sentirsi schiacciato dalla vita perché c’è sempre un modo per reagire, semplicemente è una storia, come tutte le storie che ultimamente ci stanno attraversando, di guerra. E’ la storia di un bimbo che semplicemente è nato dove non doveva nascere e si è ritrovato nel posto in cui non doveva essere. Abbiamo voluto rappresentarla così in un modo crudo ma neanche troppo drammatico perché sono del parere che comunque credo che la ricerca della pace è qualcosa cui ambiamo tutti da sempre, cioè da piccoli quando ci chiedono “che sogno avete?” la pace nel mondo è sempre uno di quelli. Quindi abbiamo voluto attraversare anche noi questa tematica con un brano di quel tipo. 
- Lo zolfo è da sempre comunque un elemento associato all’inferno, quindi in questo caso, come avete spiegato, l’inferno della guerra come avete già risposto. Dove collocate il vostro inferno?
GIUSEPPE – Diciamo che l’inferno in questo caso potrebbe essere collocato in Palestina ad esempio, a Gaza. Perché alla fine è il luogo in cui si sono vissute queste cose ultimamente, anche in Ucraina, però diciamo che in Palestina va avanti da cinquant’anni e quindi diciamo che possiamo collocarlo in quella zona per quanto riguarda la tematica del testo. Per quanto riguarda poi la metafora il brano dice a un certo punto “cenere per sentirsi bene” perché a volte dalla distruzione totale anche dell’individuo nasce sicuramente qualcosa di nuovo. Quindi anche ridursi completamente in cenere e dalla cenere rinasce qualcos’altro è un messaggio che comunque vuole essere positivo.
- Dal punto di vista musicale il pezzo è un mix tra elettronica e cantato pop. Voi aspirate ad unire gli amanti del pop al popolo del dancefloor? 
GIUSEPPE – Sì, la risposta è sì perché come sempre il futuro della musica lo vediamo nella contaminazione e credo che la contaminazione più forte che c’è stata dagli anni 80 in poi è quella della musica elettronica e diciamo che vogliamo recuperare un po’ quel senso di elettronica da ballare ma anche da ascoltare che era forte negli anni 90 e che poi un po’ si è andato perdendo trasformando la discoteca in un luogo di massa dedito principalmente alla droga e ad altre tipologie di situazioni che andavano lontane da quelle con cui quel tipo di musica era nato alla fine degli anni 80 in Inghilterra. Io vivevo lì e ho assistito un po’ a quella fase. Vogliamo un po’ recuperare parte di quello spirito là però con un’estetica pop, ma anche un po’ post punk come forse si può percepire nel suono delle chitarre.
MATTIA – Vorrei aggiungere una suggestione a quello che hanno già elencato Giuseppe e Costantino. Noi cerchiamo di riportare quello che è la vera musica suonata in chiave elettronica con gli strumenti unendola al pop in modo tale che alle persone possa arrivare una canzone assolutamente orecchiabile, ma che al di sotto non ci sia una base preregistrata, ma ci sono persone che suonano strumenti. Noi cerchiamo di riportare in live tutto quanto, anche la dimensione umana.
GIUSEPPE – Adesso con l’intelligenza artificiale si sta correndo il rischio che alla fine non suoni più nessuno di noi e la via è proprio la musica elettronica, però interpretata come la interpretiamo noi cerchiamo di far capire che la macchina deve interagire con l’essere umano e non con un’altra macchina.
COSTANTINO – Voglio aggiungere un’ultima cosa, fondamentalmente è un po’ il discorso che di preconfezionato non c’è niente, ogni suono è riprodotto manualmente in un mondo in cui non sai nemmeno più chi scrive che cosa perché solo se sei attento lo puoi percepire, i famosi brani con l’intelligenza artificiale o chi scrive libri con l’intelligenza artificiale. Questa è una cosa che sicuramente rompe quella barriera lì, c’è ancora l’essere umano dietro ed è una cosa che si percepisce, come, per esempio in Chat GPT ci sono alcune cose che nonostante tutto, nonostante quanto si possa essere bravi fanno capire che quella è un’intelligenza artificiale. Noi vogliamo proprio rompere quella barriera lì, cioè è tutto creato ad hoc per creare quell’autenticità che si sente e che noi vogliamo trasmettere con la musica d’autore. 
- Nel vostro singolo “Take My Love” cantate “everything is magic”, quindi al centro c’è un sentimento più positivo, l’amore. Sembra un brano agli antipodi rispetto a “Zolfo”. Qui fate vedere il vostro lato più luminoso? 
GIUSEPPE – Sì è il nostro lato più luminoso, abbiamo anche qualche altro brano così anche se in realtà il testo di “Take My Love” l’ha scritto una donna, non l’abbiamo scritto noi. L’ha scritto mia moglie e sì probabilmente è il pezzo più positivo che abbiamo. Poi magari ce n’è qualcun altro che è ironico ma quello è sicuramente il più positivo di tutti. 
- Perché avete deciso di far uscire un pezzo in inglese dato che tutti gli altri singoli sono in italiano?
COSTANTINO – Beh di base perché non l’ho scritto io. E’ una cosa che, per quanto io sia una di quelle persone che trova difficile cantare e musicare qualcosa di scritto da un altro perché devo farlo diventare mio. In mezzo a tutta questa difficoltà quello spiraglio di autenticità e di luce di cui si parlava prima mi ha aiutato molto, in parte perché questa persona che lo ha scritto ci è molto vicina e ci conosce come se fossimo, io e Mattia che siamo i più piccoli, i suoi figli e quindi per noi non è stato così difficile quindi in sostanza è questo. Perché non è un brano scritto da me. Io continuo sempre ad avere le mie preferenze in fase di scrittura, mi piace molto scrivere di qualsiasi cosa mi capiti. Anche se vedo una foglia che cade da un albero e sono in uno stato d’animo particolare posso provare a ricavarci sopra qualcosa. In quel caso ho dovuto accogliere l’emotività di un’altra persona che ho fatto mie, che abbiamo fatto nostre. 
- L’anno scorso avete pubblicato altri due singoli, il primo è “Ernst Mach ha imparato a volare”. Ernst Mach fa riferimento a un fisico e filosofo austriaco. Ho letto che una delle cose in cui credeva nell’esplorazione tramite la sperimentazione empirica. Voi vi sentite degli sperimentatori empirici musicali? 
COSTANTINO – Assolutamente sì tendiamo sempre ad esplorare, ascoltiamo talmente tante cose, ci contaminiamo costantemente a vicenda e ancora oggi anche se siamo da tanti anni insieme quando Giuseppe e Mattia mi dicono “conosci questo?”, “hai ascoltato questo?” io continuo a sorprendermi di alcune cose che sento nonostante siano passati magari anche vent’anni. Questo per me è la sperimentazione, un po’ quella che appunto Ernst Mach voleva mettere in pratica nella sua vita, vedere le cose che succedono davvero, io voglio vedere succedere quello che mi ispira di più quindi scrivo per me, scrivo per gli altri in modo da ispirarli, questa per me a livello empirico è la cosa che più mi stimola. L’unica cosa su cui posso avere un riscontro facendo musica è vedere che alla gente piace, che la gente capisce quello che scrivo, quindi io sono il mio Ernst Mach, ho un Ernst Mach dentro come ne ha uno Giuseppe e ne ha uno Mattia. 
- “La frase i pensieri sono armi adatte a pochi”. Pensare oggi può essere pericoloso? 
COSTANTINO – Esatto, non sempre bisogna agire istintivamente, c’è un momento in cui anche la persona più intelligente, più razionale del mondo abbia un momento in cui cede e agisce d’istinto. C’è magari un momento in cui bisogna morsicarsi la lingua e contare fino a dieci prima di fare qualsiasi cosa. Bisogna sempre ponderare e poi ci sta che alcune cose vadano fatte con cognizione di causa, io mi riferisco più che altro a idee che possono essere pericolose, mettere a repentaglio la salute e comunque la moralità di un’altra persona. Anche un misunderstanding, un’incomprensione può diventare una cosa gigantesca quindi pensarci bene è una cosa che dovremmo fare. Usa le tue idee e pensa prima di applicarle.
- Com’è nata la vostra collaborazione con HenryBeard per il remix di Resistenza?
GIUSEPPE – Allora le cose sono nate così, praticamente Enrico è un mio alunno perché io insegno programmazione e l’utilizzo di determinati software e anche un po’ di teoria musicale e quindi insomma ha iniziato con me perché lui faceva solo il Dj e voleva fare un upgrade, imparare a fare qualcosa di diverso, imparare a fare la propria musica. E’ venuto a lezione da me e dopo un annetto che faceva lezione ho iniziato a vederlo abbastanza pronto, ha fatto qualche brano e ha funzionato parecchio e allora abbiamo detto “beh facciamo un passo avanti ulteriore, lavora sulla musica degli altri, vediamo se riesci a tirare fuori un remix valido e lui per noi ha fatto due remix, quello di “Resistenza” e quello di “Take My Love” che suonano molto bene e devo dire che ahimè fa più ascolti lui di noi perché è più da club e poi è molto bravo nel gestire i social, cosa in cui noi siamo deficitari, te ne sarai accorto.
- Mi verrebbe da dirvi allora fate un po’ “do ut des”, visto che gli avete offerto la possibilità di remixare i vostri pezzi chiedetegli in cambio di curare un po’ i vostrisocial. 
GIUSEPPE – Infatti ogni tanto qualche consiglio glielo chiedo e grazie ai suoi consigli siamo riusciti un pochino a crescere sulle piattaforme d’ascolto, siamo andati un po’ dietro a lui e abbiamo tirato fuori dei buoni risultati. Lui è proprio molto bravo. Prima faceva l’influencer quando era un po’ più giovane, sette-otto anni fa e aveva un profilo seguitissimo con 300mila follower in tempi in cui 300mila follower erano tanti. Poi ha mollato quella cosa perché era legata al mondo della moda, lui sfilava faceva delle cose così e alla fine si è buttato sulla musica e quindi quel modo di lavorare sui social ce l’ha ancora dentro e lo sa fare bene e quindi noi poi godiamo del fatto che faccia più ascolti perché poi arrivano anche a noi perché poi alla fine i brani sono i nostri. Il nostro problema principale è riuscire a suonare al di fuori della Sardegna perché vivendo qua non è facile rapportarti con i locali che sono molto lontani da noi e magari non possono fidarsi ciecamente del fatto che noi suoniamo veramente oppure quella roba che sentono è tutta quanta registrata. Quindi adesso stiamo cercando di lavorare su quello.
- Immagino le difficoltà, anche perché se voi vi impegnaste per un concerto al di fuori della Sardegna dovreste affrontare delle spese di viaggio non da poco.
GIUSEPPE – Sì però abbiamo fatto due conti e se facciamo due date in Italia i costi sono già assorbiti. Alla fine adesso non è che ci interessa guadagnare, ci interessa farci conoscere. Però anche per cifre basse i locali diffidano dei gruppi che non conoscono e che non vanno lì fisicamente a proporsi. Con le mail alla fine si sa come funziona che magari le leggono ma manco ti rispondono. Pensano “mah questi fanno musica elettronica, magari è tutto finto”. Qualcuno mi ha anche risposto così e quindi mi rendo conto che è difficile e il modo in cui vogliamo crescere è questo, riuscire ad uscire dalla Sardegna, perché poi i nostri brani vanno bene e alla gente piacciono tanto e quindi siamo sicuri che facendolo fuori funzionerebbe. 


Si sa che i gruppi indie faticano molto ad emergere a prescindere dalla qualità della loro musica perché oggi se non si è confezionati come il pubblico è stato abituato ad aspettarsi si viene emarginati. E ci sono band come i Dancalia che meriterebbero molta più attenzione perché non è da tutti far ballare e riflettere allo stesso tempo. La speranza è che le nuove generazioni che si stanno affacciando ora al mondo della musica abbiano un sussulto di ribellione e un po’ di sana curiosità di cercare oltre i brani proposti e imposti dalle playlist degli editor dei servizi di streaming o i motivetti che fanno da sottofondo ai balletti su Tik Tok. 


 

lunedì 22 settembre 2025

CRISTINA DI FALCO - CHIAMAMI ESTATE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER DIAMANTI NASCOSTI


“Chiamami estate”, ultimo singolo della cantautrice di origine siciliana Cristina Di Falco, è un inno alla gioia, un pezzo sorretto da un arrangiamento semplice ma efficace che mette in risalto la melodia ariosa che profuma di sole, di mare e di tutti quegli elementi che fanno dell’estate un momento di spensieratezza che spezza la routine delle nostre vite. “Stare bene è quel che vale” canta Cristina sintetizzando l’essenza del brano. Colonna sonora perfetta per un viaggio verso Sud, “Chiamami estate” esprime il desiderio di recuperare quella parte di sé legata alle radici, all’infanzia. Dal punto di vista musicale il brano è pop in stile anni 90 e si ispira alla prima Elisa, che la musicista ci ha detto essere il suo principale punto di riferimento. Prima di “Chiamami estate” Cristina Di Falco ha pubblicato altri due singoli, “Dal mondo in una stanza” e “Edera”. In “Dal mondo a una stanza”, uscito a settembre 2024, la voce ricalca in modo più marcato le linee vocali di Elisa, ma anche di Giorgia dimostrando una buona estensione e una notevole capacità di modulare il canto. E’ una classica canzone d’amore che celebra la bellezza dello stare insieme. “Come imparare a non idealizzare tutto?” è la domanda. Perché si sa che amarsi significa essere quasi essere accecati dalla bellezza dello stare insieme, lasciarsi andare e perdersi l’uno nell’altro. Musicalmente il pezzo si ispira sempre al pop anni 90 e sa farsi notare per la sua aggraziata semplicità. “Edera”, primo singolo ad essere pubblicato a gennaio del 2024 ha una ritmica più mossa ed invita a scoprire sé stessi lasciandosi cullare dall’abbraccio dell’edera, che simboleggia l’amore e la natura come luoghi in cui ritrovarsi. Ed è proprio questo ritrovarsi il comun denominatore della musica di Cristina Di Falco, ritornare a quella dimensione in cui la nostra anima si sente protetta e libera.
La cantautrice ci ha rilasciato un’intervista per darci modo non solo di parlare dei suoi pezzi, ma di lei come persona.



- Partiamo dal tuo ultimo singolo “Chiamami estate”. Che rapporto hai con l’estate, cos’è che la rende così preziosa per te?
- Allora, per me l’estate è un po’ una stagione di rinascita. Parlavo proprio oggi con una mia amica e ognuno ha un momento dell’anno in cui sente di partire da zero e per me lo è l’estate. In parte probabilmente perché io sono nata in estate quindi c’è un legame da questo punto di vista e penso a quando fondamentalmente sono venuta al mondo. E’ una stagione in cui mi sento carica, energica e inizio sempre a fare qualcosa. In questo caso l’estate rappresenta un momento di transizione perché mi sto indirizzando verso nuove avventure, nuovi percorsi di vita per cui è stata un po’ una transizione, ma anche un momento di riflessione, vedere dove sono arrivata finora, insomma è questo. 
- Il tuo singolo si può definire un pop folk, si sentono influenze della musica americana, di vari artisti come per esempio Sheryl Crow. Ne ascolti molta di musica folk americana e folk in generale?
- Ma allora folk dipende, quello magari un po’ più commerciale, più pop, poi io sono dell’idea che è un po’ tutto collegato quindi magari il mio rifarmi a un artista poi magari quell’artista si collega ad altri artisti folk. Con i produttori del brano che sono anche dei musicisti abbiamo cercato di dare un po’ una vibe anni 90. Io ad esempio amo molto Elisa e Elisa a sua volta si sarà ispirata, come io mi sono ispirata a certi suoi brani della prima Elisa quindi stiamo parlando degli anni 2000, lei si sarà ispirata a sua volta ad altri artisti avvicinandosi di più al ramo folk. Poi in certe cose molto alla lontana anche Pino Daniele, più atmosfere a livello evocativo quindi immagini che mi ero fatta io in testa, quindi comunque artisti che mi hanno un po’ guidato, ispirato. Anche emergenti. 
- Nel pezzo canti anche alcuni versi in siciliano, quanto è importante per te il legame con la tua terra d’origine?
- Molto ed è qualcosa che sto scoprendo pian piano, perché io non vivo più in Sicilia e questo stare lontana mi ha in realtà aiutata perché è poi stando lontana che capisci tante cose di te, senti insomma magari la mancanza di casa e quindi mi sono avvicinata stando lontano e anche magari ad artisti che cantano in siciliano, banalmente Marco Castello è un artista emergenti siracusano, io sono proprio di Siracusa e quando un anno fa ho iniziato proprio a buttare giù quelle che erano le prime idee di “Chiamami estate”, anzi il brano era inizialmente tutto in siciliano perché era molto ispirato al suo genere al suo vibe.
- Guardando il video che accompagna il brano il protagonista, oltre a te, è il mare. Perché la scelta di girarlo in parte su una barca a vela?
- Perché in realtà io prima di allora non ero mai salita su una barca a vela quindi era un mio sogno anche perché vengo da una città di mare, ma non mi è mai capitato di salire su una barca a vela. Ho avuto occasione di vedere due volte la Barcolana a Trieste che è un evento bellissimo dove proprio gareggiano le barche a vela, quindi era una figura in cui anche io mi rispecchio ed è anche un po’ metafora di me stessa. Quindi volevo e quando ho cominciato a pensare al video con il videomaker che tra l’altro è il mio ragazzo abbiamo detto sarebbe bellissimo girarlo magari una parte in barca a vela proprio per questo motivo. 
- Non avevo mai sentito parlare della Barcolana, ci spieghi di più?
- E’ un evento velistico tra i più importanti del mondo che viene fatto ogni anno a ottobre. Riempiono praticamente il golfo di Trieste di barche a vela e ci sono più di mille imbarcazioni ed è molto suggestivo soprattutto se viene visto magari dall’alto e si vedono tutte queste piccole barche, questi puntini bianchi sul mare. Io sono molto paesaggista quindi questi scenari mi piacciono molto, al di là del fatto che sono legata al simbolo della barca a vela.
- Tu fai la busker, ti ho vista anche in vari filmati su YouTube, da quanto è che lo fai? E’ la tua professione principale o è ancora a livello amatoriale?
- Io lo faccio da due anni, un paio d’anni e mezzo, non è il mio unico lavoro, per un anno e mezzo ho fatto la cameriera e in parallelo ho portato avanti questo progetto, anche suonare nei locali, insomma il progetto artistico nella sua integrità. Però è qualcosa che sicuramente mi ha formato tanto perché quando io iniziai lo feci perché volevo mettermi in gioco, volevo fare la mia palestra, ecco. Perché comunque nei locali non sempre a fissare delle date, soprattutto all’inizio quando ancora sei inesperto. Quindi la strada è stata una vera e propria palestra. 
- Qual è la molla che ti ha spinta a decidere di far uscire musica tua? 
- Ma probabilmente sempre quel desiderio che ha qualsiasi musicista o cantante di emergere, che è forse anche una cosa un po’ egocentrica, ma secondo me è anche un po’ nell’artista, cioè quando si ha un animo da artista la voglia di far sentire qualcosa di proprio. Molte volte anche molti hanno detto guarda tu sei molto brava a cantare le cover però magari sei ancora più brava a cantare i tuoi inediti perché giustamente sono tuoi, quindi l’emozione che trasmetti la trasmetti ancora più forte e quindi è sicuramente importante per chiunque cercare di trovare il coraggio di fare roba propria perché poi è quello, superare quella paura del giudizio, quell’imbarazzo iniziale, poi uno si butta. 
- Quand’è che hai scoperto la musica nella tua vita, cioè hai detto “bella, questa vorrei che fosse la mia vita”? 
- Io diciamo canto da sempre, questa passione me l’ha trasmessa mia mamma che anche lei ha sempre cantato per passione ma non ha fatto mai concerti, però mi ha trasmesso questa sua passione quindi da piccolissima. Poi io ho iniziato un po’ ad esibirmi durante il Liceo in piccoli contest, però proprio come decisione, che ho chiarito che quella sarebbe stata la mia strada è stato quando ho iniziato a suonare come busker. Due anni fa mi sono laureata, ho finito il mio percorso di studi quindi ho detto “a questo punto devo chiarirmi le idee” e lì ho capito che quella era la strada.
- Parliamo un attimo dei tuoi due singoli precedenti che hai pubblicato. “Dal mondo a una stanza”, leggendo il testo, sentendo il pezzo è la storia di una storia d’amore. E’ così?
- Sì esatto. E’ un amore più idealizzato, un  po’ quello che quando sei adolescente, quando ti fai delle aspettative, delle idee molto romanzate di un amore che poi magari finisce, come è nella vita, non sempre le storie volgono a buon fine. Quindi è magari anche un po’ il superamento di questo amore idealizzato che rimane lì magari, un bel ricordo da guardare di tanto in tanto. Rimane in quella stanza, molto in stile film anni 90, infatti appunto lì cito anche i film degli anni 90, quelli romantici ambientati a New York. Questa canzone mi dava quell’atmosfera lì e questa è quindi quella che era l’idea del brano. 
- Invece nel tuo primissimo singolo “Edera” il cadere e rialzarsi grazie a qualcuno che ti tiri su è importante?
- Sì sicuramente. Quel brano rappresenta anche un po’ il mio legame con la natura che è qualcosa che voglio cercare di riprendere anche nei prossimi brani. La natura è qualcosa che ho riscoperto perché credo che l’essere umano abbia un po’ abbandonato il fatto che è un essere naturale ed è abituato a vivere nelle città e questo non lo fa stare bene, però quando riesce a riscoprirsi nella natura riesce a stare bene con sé stesso e con gli altri. E quindi questo brano parla un po’ anche di questo, cioè parla di amicizia, il riscoprire magari dei legami che aiutano a farti stare bene, però allo stesso tempo riscoprire questo rapporto con la natura. L’edera stessa molti la associano a qualcosa di velenoso però di base l’edera ha la funzione di avvolgere gli alberi e quindi in inverno li protegge anche dal freddo. Quindi è quello che in realtà fanno anche un po’ gli amici, quindi un significato molto profondo. 


Da questa chiacchierata Cristina Di Falco emerge come un’artista che, attraverso la propria musica non vuole solo condividere emozioni ma anche la propria visione della vita. Ascoltare i suoi brani è un’esperienza piacevole perché trasmettono un’atmosfera di serenità, gioia, come le vacanze in estate.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra




 

lunedì 15 settembre 2025

"SOMEWHERE THERE'S HAPPINESS INSTEAD OF PAIN" // GRANT HART (HÜSKER DÜ) NELLE PAROLE DI LJUBO UNGHERELLI





Entriamo nel locale che c’è ancora poca gente. Trascorre qualche minuto e vediamo arrivare un tizio tutto infagottato, in là con gli anni, un improbabile berretto verde di lana calato in testa e in generale l’aria del classico senzatetto a cui mancano parecchie rotelle. Un “badass from South Saint Paul”, com’era uso autodefinirsi, provato da una vita difficile, troncata il 13 settembre 2017 all’età di cinquantasei anni. Fino all’ultimo, ha continuato a esibirsi in giro per mondo, spostandosi in treno attraverso i cinque continenti, sprovvisto di computer e finanche telefono cellulare (almeno così narra l’epica, peraltro da lui stesso foraggiata), concedendosi volentieri all’affetto di un pubblico non certo oceanico ma profondamente riconoscente per essere stato toccato dalla Musica di Grant Hart.


Affrontando l’hardcore e il power pop col piglio di un novello Bob Dylan, liricamente a metà tra lo storytelling e il nonsense, amministrando i pedali della batteria a piedi scalzi e gridando nel microfono, che si trattasse di fare i cori o di essere la voce principale, Hart ha attraversato quarant’anni di storia della musica con la discontinuità e la sregolatezza di ogni Genio che si rispetti, però cercando sempre di reinventarsi e di guardare avanti, benché fosse depositario di un canzoniere che avrebbe potuto farlo campare di rendita (artistica) senza doversi dannare più di tanto per inserire nelle scalette dei concerti composizioni inedite. E, parlando più spietatamente, benché fosse consapevole di avere i giorni contati.


Quel signore apparentemente un po’ svitato di cui si diceva all’inizio, potrebbe comparire in un remake del film di Virzì “My name is Tanino”, quando il protagonista incontra il suo idolo Chinaski, ormai derelitto. Senz’altro meno estremo in tal senso, e comunque lontano anni luce dallo stereotipo della fulgida icona del rock underground che Grant Hart impersona con pieno merito, l’uomo in questione canta, suona la chitarra, concede udienza ai fan prima e dopo il concerto, si accomoda al banchetto merchandise per vendere i suoi stessi cd. Un’umanità finanche esasperata, un’etica del “do it yourself” forse anche obbligata dalle circostanze. Ma poco o nulla, in realtà, può scalfire il fulgore dell’icona. Dell’autore di “2541”, “Never talking to you again”, “Sorry somehow”, “The last days of Pompeii”, “Green eyes”, “Don’t want to know that you are lonely”, “Old empire”, “She floated away” e decine di altre.


“Ho smesso di suonare ‘Diane’ per lo stesso motivo per cui l’ho scritta”, dichiara il signore malmesso di cui sopra, ormai ritrasformatosi nell’icona Grant Hart che torna sul palco, richiamato per il bis. La storia di una donna rapita, violentata e uccisa, narrata in prima persona dal suo aguzzino, ha evidentemente convinto Hart che qualcuno possa interpretare in chiave “eroica” il racconto, disincentivandolo così ad alimentare una rilettura distorta di una tormentata riflessione sul lato più oscuro della natura umana. “Al suo posto, suonerò un altro pezzo tratto dallo stesso disco.”
Il concerto si chiude dunque sulle note di “It’s not funny anymore”. Non è più divertente. Non è più divertente sapere che abbiamo perso Grant Hart.


Tutti i panegirici piovuti a cascata in questi giorni, quantunque scontati e prevedibili, recitano solo la sacrosanta verità. Per convincervene ulteriormente, fatevi un giro sulla giostra di un uomo che ha usato tutti i suoi sensi per tramandare una “legacy” artistica che sopravvivrà a qualunque malattia terrena.
“…somewhere there’s happiness instead of pain…” Grantzberg Vernon Hart (1961–2017)


Testo e foto di Ljubo Ungherelli

domenica 14 settembre 2025

NEVECIECA - SOTTO LA CENERE COVA LA FIAMMA DEL GRUNGE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Con all’attivo tre buoni singoli i Nevecieca, band di Varese di matrice grunge e hard rock sta costruendo con attenzione e passione un progetto musicale in grado di assimilare i classici rielaborandoli in una prospettiva diversa e originale. “Cenere”, l’ultimo singolo uscito nel mese di luglio 2025, parte subito con un bel suono di chitarre denso, opera di Edward Virzì, cantante e chitarrista del gruppo. Il riff iniziale, che ricorda da vicino quello che da molti è considerato il primo brano hard rock della storia, ovvero “Helter Skelter” dei Beatles, lascia presto spazio ad un mood decisamente più sonico, con chitarre sature sostenute efficacemente dalla sezione ritmica, formata da Marco Saporiti (bassista e tastierista) e William Zangla alla batteria. Dal punto di vista del testo il brano è un inno alla resistenza molto riflessivo che parte “dal coraggio che non hai” per arrivare a “vinci se resisterai”. Già solo il fatto che oggi più o meno tutti noi siamo chiamati a resistere ad una vita inquinata da social media e da un individualismo sfrenato crea un effetto di identificazione nell’ascoltatore. Andando a ritroso, i Nevecieca a maggio avevano pubblicato “Coscienza e lacrime”, traccia caratterizzata da un’introspezione coraggiosa per riallacciare i canali di comunicazione empatica con le altre persone: “Non esiterei, a prender parte a questo rito di coscienza e lacrime, e ti troverei”. Dal punto di vista musicale le parti di chitarra sono sempre in primissimo piano e sono il motore del brano. Rispetto a “Cenere”, però, la voce “esce” meglio nel mix. Andando ancora a ritroso, a febbraio è uscito il primo singolo della band “Dio solitario”. Anche in questo caso lo strumento principe è la chitarra. Il brano ha come tematica centrale la disillusione per tutte le aspettative di vita che non hanno trovato un riscontro concreto. Il livello di empatia che si crea con l’ascoltatore è anche in questo caso elevato.
Edward, William – membri fondatori – e Marco si sono prestati ad un’intervista full band sul loro modo di fare musica e sull’interpretazione dei brani. 



- Partiamo dall’ultimo singolo uscito a luglio che si intitola “Cenere”. C’è un verso emblematico che dice “Quanto conta un insuccesso se sei stanco già di attenderlo”. Sembrano le parole di una persona arresa che non conta neanche più gli insuccessi. Poi però nel testo c’è un altro verso che dice “Vinci se resisterai”. Volete trasmettere un messaggio di resistenza, di non farsi abbattere?
EDWARD – Quella canzone descrive una frustrazione per il fatto che sono arrivato ad un momento della vita dove sembra non succedere nulla e quindi quasi prego che arrivi anche un insuccesso. Cioè anche un insuccesso mi basterebbe pur di sentirmi vivo. Conterebbe qualcosa anche un insuccesso piuttosto che non vivere.
- Quindi il pezzo nasce da un’esperienza personale di vita tua profonda.
EDWARD – Sì chiaro ci sono molte aspettative e anche pur di fallire che succeda qualcosa. 
- Dal punto di vista musicale l’attacco di “Cenere” mi ha fatto venire in mente “Helter Skelter” dei Beatles. Poi il suono cambia e sfocia in un grunge abbastanza tosto venato di hard rock. Mi sono piaciuti molto anche i cambi di tempo e di atmosfera. Quanto ci è voluto per arrivare alla forma definitiva del brano? 
MARCO – Ci abbiamo messo un po’ in realtà nel senso che è stato il primo brano un po’ particolare ed è il primo che abbiamo scritto veramente insieme. E’ stato frutto di un lavoro comune e di conseguenza ci abbiamo messo abbastanza tanto, un annetto mi verrebbe da dire prima che diventasse quello che hai poi potuto ascoltare. 
EDWARD – Io ricordo le due sezioni, abbiamo fatto per prima la canzone che iniziava con il riff principale e poi dopo ci abbiamo aggiunto l’intro simile a “Helter Skelter”. Nel giro di un anno l’abbiamo completata perché comunque era un canzone che ci ritornava spesso.
MARCO – Per i testi ci abbiamo messo un pochino forse. Tra l’altro grazie per “Helter Skelter” non ci avevo mai pensato però effettivamente c’è una somiglianza. 
- Quindi a proposito del vostro stile di fare musica i pezzi nascono da improvvisazioni o portate già delle idee finite in sala prove e poi li rifinite tutti insieme? 
MARCO – Direi più la seconda. “Cenere” è un po’ l’eccezione in questo senso credo. Comunque la maggior parte nascono da idee di Edward e Willie che hanno lavorato per tanti anni insieme, io sono arrivato un po’ dopo. Le abbiamo un po’ completate assieme. 
- Buttate via molto materiale tra le cose che componete oppure tendete a cercare di rifinire tutto?
EDWARD – A dir la verità quello che non abbiamo messo nel disco che deve uscire l’abbiamo tenuto da parte si presume per il prossimo. Cioè scartare obiettivamente poco anche perché io prima di proporre qualcosa agli altri già scarto parecchio, di mio nella mia cameretta. 
WILLIAM – Al massimo ci sono dei pezzi che sono lì un po’ come dire sospesi che rifineremo, speriamo di sì però proprio scartati no. 
- Ok, invece il singolo “Coscienza e lacrime”, uscito a maggio è molto introspettivo, a tratti dà addirittura la sensazione di accennare a una relazione tormentata. Per esempio nel verso “il mio sogno è vivere notti e giorni insieme a te”. I vostri testi in generale sono comunque aperti a più interpretazioni. Da cosa nasce il vostro stile di scrittura?
EDWARD – Sì è chiaramente un metodo aperto, non cercato perché comunque è istintivo e mi piace comunque che sia di libera interpretazione. 
- Parlando invece del primo singolo “Dio solitario” ha questo attacco roccioso molto forte a livello di volumi. Questa è una domanda diciamo un po’ critica: nei vostri pezzi il suono delle chitarre e la potenza in generale tendono un po’ a soffocare la voce di Edward. E’ una scelta stilistica o piuttosto determinata dai mezzi limitati che si hanno quando si fa un’autoproduzione?
EDWARD – E’ stata più la seconda, deriva più da quello che avevamo anche perché tutti i singoli che sono usciti e di conseguenza anche l’album che uscirà si spera a breve sono stati registrati direttamente nella nostra saletta che è fondamentalmente un garage. E sì insomma abbiamo fatto il massimo con quello che avevamo. 
WILLIAM – Non era uno studio professionale è la sala prove dai. 
- “Dio solitario” ha un bell’assolo vorticoso e c’è quel verso che dice “E’ insulso specchiarsi nel vuoto che c’è”. Immagino che qui facciate cenno alle nostre vite ormai asservite ai social?
EDWARD – Sì fa riferimento ai social network, all’attualità. Almeno io personalmente non mi rivedo in quasi nulla, neanche nella mia generazione, ho poco senso di appartenenza in generale. E penso di poter parlare anche a nome di tutti e tre. 
- A livello di fonti ispirative c’è sicuramente il grunge anni 90, ecco perché secondo voi a distanza di trent’anni quel genere continua ad essere fonte di ispirazione non solo per voi ma anche per tanti altri gruppi?
WILLIAM -  E’ una bella domanda. Penso magari per un discorso un po’ di rabbia misto a quello che è anche un po’ la noia esistenziale che hanno i giovani da trent’anni a questa parte, diciamo anche un po’ di disillusione. Penso che quello spirito lì magari è cambiato ma non è mai sparito. Penso sia un po’ quello. Io personalmente il grunge lo apprezzo di più adesso rispetto a quando avevo 15-16 anni quando i Nirvana non me li sono mai “cagati”. In sta roba mi ci vedo. 
- A proposito mi dite la vostra età media per capire. Quanti anni avete in media?
WILLIAM – Siamo sulla trentina più o meno. 
- Avete ancora tutto il tempo di crescere e di sviluppare la vostra musica. A parte il grunge di cui abbiamo parlato, avete altre fonti di ispirazione in gruppi, in band che sono in giro adesso, che sono nate negli ultimi 10-15 anni?
EDWARD – Non saprei, come ispirazione siamo veramente istintivi quando andiamo in saletta, non riusciamo a riconoscere bene da dove arriva tutto quanto. 
WILLIAM – Diciamo che abbiamo tutti e tre gusti abbastanza diversi, quindi ognuno porta la sua cosa. Mi ricordo che c’era un pezzo che abbiamo fatto un po’ di tempo fa e io avevo detto “vi faccio sentire questa cosa, c’è un’ispirazione molto chiara però non ve la dico sennò vi influenzo. 


Come è emerso dalla nostra chiacchierata i Nevecieca sono una band ancora alla ricerca di una propria piena identità, ma Edward, William e Marco stanno facendo di tutto per trovarla grazie alla coesione e al rispetto reciproco che si è creato in un gruppo in cui le idee di tutti i membri vengono non solo accettate ma diventano la base per costruire il repertorio. 


Recensione e intervista a cura di Luca Stra