domenica 6 luglio 2025

THE RADS - ONLY THE BEGINNING - PUNK SENZA COMPROMESSI - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Fino a quando ci saranno musicisti appassionati e capaci il sacro fuoco del punk rock non si spegnerà mai. E i fiorentini The Rads capaci e appassionati lo sono senza ombra di dubbio. Si tratta, infatti, di quattro musicisti con una lunga esperienza che hanno deciso di dare vita ad un progetto schietto, diretto e senza tanti fronzoli. La musica dei The Rads punta a smuovere le corde dell’anima degli ascoltatori e a risvegliare le loro coscienze intorpidite. Il primo EP della band, “Only the beginning”, uscito lo scorso 27 giugno per Blackcandy Produzioni, è la dimostrazione pratica di come si possa suonare protopunk oggi non solo in modo credibile, ma con carattere e personalità. Le radici dei The Rads affondano nel punk inglese dei Clash e in gruppi come i Dead Boys, ma l’approccio è assolutamente personale e maturo. La scrittura dei pezzi è curata nei minimi dettagli, d’altronde i quattro musicisti che compongono il gruppo, Matteo Gioli (chitarra e voce), Rino Valente (chitarra e cori), Dino Graziani (basso e cori) e Francesco Giancaterino (batteria) come detto hanno una lunga esperienza alle spalle ed è questa la loro marcia in più. I cinque brani che compongono l’EP sono una scarica di adrenalina benefica ed esaltante. La produzione praticamente live è assolutamente funzionale ai pezzi e ne esalta ulteriormente la qualità. Abbiamo parlato con Matteo Gioli di “Only the beginning” e del loro modo di vedere la musica. 



- Matteo il vostro è un punk schietto con reminiscenze che vanno dai Clash a band americane come i Dead Boys.
- Certamente sì tanti ex della scena Los Angeles 77.
- Siete musicisti con molta esperienza, ho letto che avete fatto parte di band di generi molto diversi tra loro. Qual è la tua storia musicale in particolare?
- La mia storia musicale nasce con Dome La Muerte and the Diggers, o meglio avevo tanti progetti diciamo adolescenziali all’epoca tipo Thunder Road Company finchè non fui reclutato appunto da Dome La Muerte e quindi CCM, diciamo un po’ la storia del punk nostrano per la prima formazione dei The Diggers in cui ho suonato per quasi dieci anni. In contemporanea a quello sono nati altri progetti, dal country al rock n’ roll, abbiamo fatto anche un tour per l’anniversario di Folsom Prison di Johnny Cash con Bobby Solo alla voce, quindi tanta roba diversa però alla fine c’è stato un po’ un ritorno alle origini. Io personalmente ho sentito il bisogno di ritornare al  volume alto e cercare di fare quel genere lì in modo più adulto, più cresciuto visto che l’ho vissuto nei miei twenties e ora che sono nei quasi quaranta ho una visione diversa nell’affrontare le stesse robe, da quello che può essere un punk di rottura adolescenziale a un punk di fuga in età più adulta. 
- Secondo te gruppi che hanno sdoganato il punk per le masse, ma in realtà non sono punk ma pop con un vestito simil punk, ad esempio i Green Day, hanno fatto più male che bene al genere?
- Mah guarda la domanda casca a pennello nel senso che ho portato mio figlio a vederli due settimane fa, io li avevo già visti 25 anni fa e per quanto il loro non sia più ora un concerto punk come quando li ho visti io è stata comunque una delle cose più punk che ho visto negli ultimi anni. Hanno iniziato lanciando subito messaggi anti Trump, nonostante siano comunque un gruppo pop sotto una Major, comunque hanno mantenuto alcune delle robe importanti. Paradossalmente quel modo di lanciare un messaggio, di aggregare tramite un messaggio che è quello che manca oggi perché tutti si mettono like l’uno con l’altro ma poi manca veramente un’ideologia di fondo che unisce. E loro questo l’hanno fatto devo dire, con mia grande sorpresa e comunque un gruppo main del genere che ti dice “mandiamo a casa quei fascisti” non è da tutti.
- Parliamo un po’ del vostro EP. Il primo pezzo “Liar” ha proprio un tiro da singolo, si sente. Mi ricorda un po’ nel tipo di sonorità “I fought the law”, nella cover più famosa di tutte che ne fecero i Clash. E il vostro pezzo resta impresso nella mente già dai primi ascolti. Siete comunque riusciti a differenziare i 5 pezzi dell’EP dando un’atmosfera particolare ad ognuno rendendo più movimentato l’insieme. 
- L’EP è un mini viaggio in quelli che sono stati i primi esperimenti che abbiamo fatto. I Rads sono nati a settembre dell’anno scorso, quindi nonostante le esperienze dei singoli siano di vecchia data, comunque come band suoniamo insieme da molto poco tempo e quindi abbiamo iniziato un po’ a scoprire cosa potesse venirne fuori. Non ci siamo voluti dare dei paletti, non abbiamo voluto dire “ok facciamo il gruppo punk, californiano o altro e quindi in questa prima esplorazione fai conto avendo iniziato a suonare a settembre abbiamo buttato giù subito dei pezzi nostri. Abbiamo cominciato come spesso succede con delle cover anche perché dei pezzi già conosciuti nell’ambito di un live servono anche quelli anche per smorzare i vari momenti però è stata un po’ un’esplorazione e quindi ogni pezzo dell’EP è come se fosse un seme di quello che abbiamo dentro, quindi c’è il pezzo più clashano, quello più alla X, quello più rock n’ roll quindi con il chitarrone quasi surf, c’è il pezzo più blues, ci sono tante identità e paradossalmente ogni pezzo ha un’identità specifica, ma alla fine suonano molto bene insieme. Diciamo che sono stati i pezzi che abbiamo usato per costruirci, per trovare quella che poteva essere la nostra identità. Abbiamo capito che alcuni pezzi più mid tempo come “Liar” ce li sentiamo particolarmente addosso. Abbiamo lavorato su dei pezzi con quell’identità lì. Quindi ci sono serviti come strumento per crescere, per andare avanti con quello che è il lavoro di scrittura dei pezzi. Fai conto che l’EP l’abbiamo registrato a dicembre e la band è nata a settembre. Quindi è un disco registrato molto di pancia, senza overdub, senza sovraincisioni. Volevamo una cosa che suonasse più vicina al live, non volevamo partire da una cose che fosse troppo sovraprodotta come in quei casi che uno quando va a sentire la band dal vivo sente che ci manca qualcosa. Quindi abbiamo cercato molto quella ruvidezza lì e quindi credo che sia stato un ottimo EP di presentazione, anche di quello che verrà perché comunque abbiamo altri pezzi e abbiamo già fatto i provini per l’LP che andremo a registrare penso a fine agosto per un album in uscita verso novembre per fare poi i club.


Quel che rende un gruppo di genere, come in questo caso il punk, diverso dagli altri è proprio la capacità di osare, di uscire dalla propria confort zone e proporre al pubblico un tipo di musica che resti impresso per un taglio particolare dei brani e che contribuisca a catalizzare l’attenzione. Questo sono i The Rads.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra





 

mercoledì 2 luglio 2025

ANDREA CARBONI - PASSANTI MOSTRI E FANTASMI - RECENSIONE A CURA DI IRIS CONTROLUCE PER #GLORYBOX


Per dare vita ad un album, quale veduta può mai ambire a superare la bellezza di una finestra sul mare della Sardegna?
Ed è proprio cullato dal rumore delle onde e inebriato dai profumi salmastri che nell’estate del 2020 Andrea Carboni, ha scritto il suo quarto lavoro, dal titolo “Passanti, mostri e fantasmi”.
A differenza dei dischi precedenti nei quali aveva affrontato temi quali l’amore (“Due”) e la critica sociale (“La rivoluzione cosmetica”), in questo si raccontano relazioni fra esseri umani che poi ritornano su loro stesse, un viaggio che mira a mettere in discussione ruoli, decisioni, sogni, ideali, in un continuo nascere e morire di passanti, mostri e fantasmi.
Il cantautore, ci ricorda come nel corso della vita di un individuo, le persone che ne prendono parte attiva hanno un’identità propria e un’identità collettiva (e queste inevitabilmente si influenzano a vicenda).
Ascoltando l’album e leggendo i temi trattati, mi è venuta in mente quella frase in cui Fernando Pessoa, si riferiva a se stesso come un semplice osservatore anonimo della vita, che si muove senza lasciare alcuna traccia nel mondo.  Considerandosi un semplice passante, nell’immaginare la propria dipartita, lo scrittore e poeta portoghese, riteneva che quanto avesse fatto, sentito o vissuto nel frattempo sarebbe svanito nel nulla. 
Questa sua visione era puramente soggettiva, mentre quella dell’artista toscano è conseguenza di uno sguardo più ampio: parte dal presupposto che tutti noi siamo in qualche modo interconnessi e che chiunque possa essere trasformato in un passante: da conosciuto a sconosciuto (e viceversa), divenendo fantasma (non facendo più parte della vita di qualcuno) oppure mutando addirittura in un mostro (a causa delle proprie azioni o semplicemente perché vittima di pregiudizi).



I testi, descrivono le emozioni che accompagnano l’instabilità di certe relazioni interpersonali poco inclini alla condivisione, difficoltà descritte sia dal punto di vista di chi non lavora su se stesso per superare le proprie mancanze sia dalla prospettiva di chi si ritrova a dover scegliere tra subire in silenzio o allontanarsi dal dolore.
In queste situazioni, Andrea ipotizza ci si possa affidare al destino (“Andiamo forte”: prendi la luna, prendi da bere, io prendo il vento, prendo il silenzio. Restiamo soli ancora un po’, che forse qualcos’altro apparirà. Cade la pioggia dentro a un bicchiere, cadono stelle anche se sembrano neve. Cadono tutte le difficoltà, sembrano sabbia in una lacrima), all’istinto placato grazie ad una ritrovata consapevolezza (“Agosto”: Tornare domani, le mani sono di sabbia, cercare qualcosa dentro, tagliare la luna a metà senza fare rumore. Far cadere parole, passare più tardi. Con tutte le luci più chiare non sembrano come ieri. E’ colpa del sole, dell’acqua che cade, del tempo aspettato, di frasi affettate), rassegnandosi alla sofferenza che deriva dall’aver soffocato i propri sentimenti (“Piove dentro”), rimanendo inermi rispetto all’impossibilità di riuscire a comunicare come si vorrebbe (“Ho un tic”) o arrendendosi di fronte all’evidenza (“Non è vero”).
Nel descrivere la propria famiglia musicale, l’artista ci racconta di un cerchio composto solo da poche, ma fidate, persone: Paolo Mauri (Afterhours, Massimo Volume, Prozac+, Luci Della Centrale Elettrica e tantissimi altri) che si è occupato della produzione artistica del disco e Daniela Savoldi, che ha arrangiato e suonato tutti gli archi.
Partiti dalla scrittura del cantautore che ha inizialmente proposto una prima stesura piano e voce, Daniela ha dato vita a delle vere tessiture orchestrali che hanno impreziosito l’intero lavoro e, allestito uno studio mobile, Paolo Mauri, ha costruito tutto il resto, ricomponendo parti e intrecci pianistici, strutture delle canzoni e raffinando le melodie vocali.
“Passanti, mostri e fantasmi” è un album poliedrico, in cui le canzoni alternano arrangiamenti più complessi che virano in lievi dissonanze ad altri più essenziali che prediligono squisiti ricami armonici. 
Laddove la struttura della forma canzone viene maggiormente rispettata e gli archi abbracciano le melodie vocali elevandole ad un livello superiore, non possiamo che riconoscere una marcata vena di orecchiabilità (specie in “Io te l’avevo detto”, “Agosto” e “Andiamo forte”). 
La delicatezza della poetica di Andrea Carboni sa convincere perché ricolma dell’innata grazia malinconica tipica dei dipinti dei paesaggisti del Romanticismo, con i quali condivide delicatezza ed eleganza.
Parole e suoni delle canzoni diventano prima fotografie, poi immagini in movimento, affidandosi alla raffinatezza della classica contemporanea ed esplorando le profondità dell’animo umano con il tocco gentile tipico delle persone dotate di grande sensibilità.
In attesa di poter apprezzare i suoi prossimi lavori discografici, aspettiamo con curiosità di poterlo seguire dal vivo.


Recensione a cura di Iris Controluce per #glorybox



 

domenica 29 giugno 2025

GIULIA BI - IN STATO DI QUIETE (APPARENTE) - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


“In stato di quiete”, album d’esordio della cantautrice rivolese Giulia Bi, uscito nel 2024, è il ritratto di una quiete piena di riflessioni, stimoli e passioni. L’incipit “Timido”, musicalmente spoglio con solo voce e chitarra in primo piano, è un invito a prendere coraggio ed uscire dal proprio guscio, perché “non penserai mica di essere speciale”. Il protagonista del brano infatti si crogiola nella sua timidezza facendone un alibi per sottrarsi al prendere la vita di petto. La title track “Stato di quiete”, che segue, è una piacevole sterzata verso atmosfere più blues con i fiati in primo piano che impreziosiscono la struttura del pezzo e sottolineano il contrasto tra il testo “stato di quiete, stato di malattia” e la musica decisamente upbeat. Tra le altre tracce degne di nota emergono sicuramente “(Il mio) rock n roll suicide”, citazione di “Rock n roll suicide” di David Bowie, con un crescendo che culmina in un ritornello che si imprime in mente già dai primi ascolti. L’album è fondamentalmente pop di buona fattura, ma sconfina volentieri in un rock più vigoroso dando vita ad un amalgama che rende le tracce varie e movimentate. Tra le fonti ispirative emerge sicuramente il grunge, ma anche molti gruppi storici seminali del rock in italiano. La conclusiva “Basta così” che si apre su una chitarra sudamericana è la degna conclusione di quest’album decisamente riuscito, personale, in buona parte autobiografico. Decisivo nel plasmarlo è stato il contributo di due musicisti di grande esperienza come Gigi Giancursi dei Perturbazione e Gianluca Della Torca dei Gatto ciliegia contro il grande freddo. 



Giulia Bi ci ha concesso un’intervista che ci ha permesso di approfondire i contenuti del suo album e anche di commentare i pezzi del suo prossimo lavoro, che ci ha fatto gentilmente ascoltare in anteprima.
- Ciao Giulia, “In stato di quiete” mi sembra che sia un disco di regole contro le regole, cioè strategie per liberarsi da molti bavagli che abbiamo nella vita.
- Mi sembra abbastanza puntuale. Non so se può essere anche l’inverso cioè che io ho fatto fatica ad interiorizzare le regole, però sì diciamo che come tema ci sta.
- Parliamo del brano di apertura “Timido”. Il timido è una persona che rinuncia, che si sottrae programmaticamente come stile di vita. Ce lo spieghi meglio?
- Posso parlare di me?
- Di te, del tuo punto di vista sulla canzone. Poi può essere una persona figurata. 
- Sì sono quasi tutti pezzi autobiografici, su quello che provo, cui provo a dare una forma ecco. Quindi la timidezza è mia perché lo sono stata per gran parte della vita. Ed è anche il tentativo di dare una lettura meno tenera del timido che è sempre quello un po’ in difficoltà per cui per carità grande compassione ma anche per dire “chi ti credi di essere”. Vuol dire che ti sottrai. Ed è mettersi anche nei panni di quelli che interagiscono con i timidi volendo. Quindi era un po’ questo concetto qua: “ma ci provi gusto a non stare in relazione da un certo punto di vista”.  Cioè polarizzo un po’ come concetto e poi concludo dicendo “vai a dormire” che magari domani sei più leggero.
- Anche perché questa timidezza da pesantezza. È difficile da sopportare.
- Eh sì anche perché costringe l’altro a fare degli sforzi e quindi non è proprio semplice.
- Il tuo è un cantautorato sporco di varie cose: di rock, di blues, di garage, di punk, diciamo che ti piace spaziare. Se dovessi identificarti in un filone, non un genere ma diciamo un filone dove ti collocheresti?
- Allora come gusto forse il grunge è il mio genere preferito, poi forse comunque lo trovo un disco pop il mio. Ha un po’ di rock come struttura dei pezzi, orecchiabilità. Quindi forse pop rock. Poi è stato un disco creato proprio un po’ in condivisione. Io non suonavo da tanto tempo perché il lavoro, la vita, eccetera tolgono tempo. Poi ho ripreso ad un certo punto a scrivere ed ho tirato su un gruppo che è fatto anche da mio fratello alla batteria e poi all’inizio c’era Gianluca Della Torca al basso.
- Mi ha incuriosita anche la title track “Stato di quiete” in cui canti “Stato di quiete, stato di malattia”. Quest’associazione di pensiero è perché forse quando siamo sani facciamo sempre mille cose e l’unico momento in cui possiamo fermarci è quando stiamo male?
- È bello perché tu stai dando una lettura opposta, cioè mi fa molto ridere. In realtà è la sindrome depressiva perché quando stai bene ti ricordi di tutte le cose di cui c’è da occuparsi mentre quando stai male ti occupi del fatto che stai male.
- Parliamo del pezzo “Il mio rock'n'roll suicide”. Penso che ovviamente sia una citazione di David Bowie, anche un po’ dal punto di vista della struttura musicale. Ce la racconti?
- Ma era un po’ un periodo un po’ così come umore però anche diciamo di condivisione rock n roll con tutte le persone che ho incontrato in quel momento, di grandi serate quando abbiamo registrato il disco, grandi prosecchi, grande divertimento rock n roll però c’è anche lì un po’ il tema dello star male. In realtà quando l’ho scritta la prima immagine che mi è venuta in mente è il risveglio la mattina che è un po’ duro. Ti svegli e hai quei secondi in cui sei triste. Quindi è un po’ come rinascere perché ci metti un attimo a riprendere coscienza che sei un po’ giù. La prima immagine che mi affascinava un po’ come concetto era quindi il risveglio, quindi anche tutto quello che ti fa dimenticare. Quindi rock n roll suicide in quell’accezione là, anche in questo caso un po’ doppia. 
- Sul pezzo “Orari buoni” mi sono appuntato questo verso: “mi devo solo ricordare di dormire e di mangiare in orari buoni”. Di che si tratta? È un richiamo ad un conformismo forzato? Scandire la vita secondo regole?
- Sì era il desiderio di averne in quel momento lì, cioè non è possibile appunto questa vita rock n roll. Io tra l’altro sono anche psicologa di mestiere e il lavoro che richiede la musica è un lavoro creativo non è un lavoro meccanico ma richiede una certa struttura. Mi auspicavo di riprendere un po’ una bussola, bisogna solo ricordarsi di organizzarsi un po’ meglio, di ristrutturarsi, di non perdersi nel rock n roll, un po’ questo.
- Invece su “La mia faccia” c’è un verso che recita “se siamo tutti narcisi allora ormai è tutto normale”. Penso sia un riferimento ai social, così come anche in un altro pezzo, “Cuori infranti” in cui parli di guru improvvisati, di gente che su YouTube monetizza l’amore. Secondo te siamo pronti a svendere le nostre vite per un secondo di celebrità, altro che il quarto d’ora di Andy Wharol. Qual è il tuo punto di vista su questo?
- Sì la direzione un po’ mi sembra questa effettivamente. In realtà quel pezzo lì l’ho scritto durante il Covid quando ho iniziato a fare sedute di lavoro online, cosa che adesso è sdoganata perché è prassi comune, ma al tempo era una cosa nuova. Quindi l’ho scritta perché quando facevo i colloqui mi rendevo conto che non riuscivo a smettere di guardare la mia immagine sullo schermo. E quindi era veramente assurdo fare un colloquio ma non riuscire a smettere di guardare se stessi. Avevo partecipato anche ad un talk al Parco del Valentino (ndr il più famoso parco di Torino) su questi temi qua e si parlava di ragazzini che sognano magari di fare musica ma la prima cosa cui pensano non è “scrivo questa roba qui perché la voglio scrivere, perché mi importa della musica” ma è come se il primo pensiero fosse già che quella cosa lì poi finirà sui social, un processo molto narcisistico. Che poi sì se fai musica devi farla questa roba qui, mi sento in difficoltà ma cerco di fare come posso, come mi viene. 
- Come è nata “Cuori infranti”? Musicalmente, tra l’altro, quel “è una questione di volontà” su quella musica lì mi ha ricordato un po’ i CCCP.
- Allora, avevo guardato in quel periodo dei video di coach, di persone che ti spiegano come vivere in una serie di situazioni legate soprattutto ai sentimenti e quindi il concetto è sempre “dotati di strategie”. Che non è come dire un’interiorizzazione, un parlare della relazione, è tutto un semplificare, adottare delle strategie per avere l’altro vicino. E’ stato un po’ questa cosa qui, una critica al fatto che si moltiplichino tutti questi video che ti spiegano come relazionarsi.
- A proposito dell’album ho letto che hanno avuto un ruolo nella sua creazione sia Gigi Giancursi dei Perturbazione che Gianluca Della Torca dei Gatto ciliegia contro il grande freddo. Qual è stato il loro ruolo? Hanno collaborato nella scrittura dei pezzi?
- I pezzi li ho scritti tutti io come struttura però negli arrangiamenti è capitato che cambiassero qualche accordo, che modificassero un po’ la struttura del pezzo. Gianluca Della Torca è stato nostro bassista per un po’ poi adesso abbiamo Gianluca Cato Senatore. Abbiamo costruito arrangiamenti come band poi Gigi ci ha dato un po’ una mano in fase di produzione. È stato abbastanza un processo condiviso. Che poi ci sono diversi  casi in cui i cantautori scrivono le parti e poi dicono “lo voglio così, lo voglio cosà”, mentre invece noi abbiamo proprio creato un po’ insieme.
- Ho ascoltato anche i brani del futuro EP che mi hai mandato gentilmente in anteprima. Lo trovo interessante anche se, non sapendo se gli arrangiamenti siano o meno quelli definitivi posso darti le mie prime impressioni. Mi sembra che tu abbia messo l’accento su una componente più cantautorale, la chitarra acustica è presente in quasi tutti i pezzi, sono dei provini oppure l’intento è quello?
- Allora, qualcuna era sicuramente meno definita di altre che ti ho mandato. Lo stiamo mixando proprio ora però diciamo che sì la direzione è un po’ questa. Tra l’altro ho comprato un mellotron. Comunque è stato un processo un po’ diverso, io a casa con il mellotron ho messo due linee melodiche, dei diciamo disegnini nei testi. Poi ora ho chiesto un aiuto a Matteo Tambussi che adesso ha avviato una sua carriera da solista quindi cura i pezzi un po’ come produzione. Però comunque ho pensato di fare un disco un po’ meno rock n roll non perché non avessi dei pezzi che si prestavano però ho due anime, una un po’ più intimista e una più rock n roll e ho pensato l’album rock n roll lo ho già fatto e così ora farò emergere di più l’altra parte.



Il primo album di Giulia Bi è un esordio decisamente promettente per cui la curiosità di esplorare questo lato più intimista nel prossimo, secondo lavoro è tanta anche per poter valutare come sta evolvendo il suo stile, la sua poetica. 


Recensione e intervista a cura di Luca Stra per #diamantinascosti






 

martedì 24 giugno 2025

CRISTIAN CICCI BAGNOLI - "RITRATTO", UNA DICHIARAZIONE D'AMORE PER IL ROCK - TESTO E INTERVISTA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Una dichiarazione d’amore per il rock. Questo è “Ritratto”, il nuovo album del chitarrista e compositore romagnolo Cristian “Cicci” Bagnoli. I sette brani che lo compongono spaziano tra sonorità vicine ai Dire Straits e ai Pink Floyd, dal funk del brano “Funky Mission” fino al prog degli Area in uno dei pezzi dalla struttura più complessa, “Cluster”. L’album contiene anche numerose parti orchestrali condotte da Loris Ceroni e ogni pezzo ha una sua precisa identità. Il brano d’apertura “Life” trasmette un senso di pace, ha un intro con un suono di uccelli e di campane e sembra quasi di vedere Cristian “Cicci” Bagnoli suonare a cavalcioni su una finestra aperta su un paese romagnolo inondato dalla luce del mattino. Accanto a tracce strumentali che mettono particolarmente in risalto le doti chitarristiche dell’autore, ci sono anche alcuni pezzi cantati, come “Sogni in vendita”, un inno alla libertà, in cui Cristian canta “vola più su (…) i sogni non si comprano”. Altro brano notevole è la reinterpretazione di “Lugano addio” di Ivan Graziani, in cui, senza tradire lo spirito dell’originale, il pezzo assume una veste diversa, più eterea, che ne mette in risalto l’aspetto emotivo e la chitarra si sposa perfettamente con il suono dell’orchestra.  Ed è ancora l’orchestra ad accompagnare l’ultimo pezzo “New Life” che chiude idealmente il cerchio con “Life”, il brano di apertura. “Ritratto” è l’album della piena maturità di un artista che fa della musica la colonna sonora della propria vita. Abbiamo intervistato Cristian “Cicci” Bagnoli per parlare a tutto campo di “Ritratto”, ma anche della sua vita di chitarrista.



- Cristian il tuo album si intitola “Ritratto”. Ci puoi fare un autoritratto di te come musicista?
- Questa è bella (ride). Sono un mix di cose, di stili. Spazio dal blues al rock al prog e mi reputo un musicista fine, elegante.
- C’è un brano nel tuo album che si intitola “Sogni in vendita” e dice “i sogni non si comprano”. In effetti sognare è rimasto uno dei pochi spazi di libertà che ci è concesso. 
- Esatto, ci hanno rubato tutto tranne i sogni, che perlomeno per adesso rimangono nostri e non ce li tocca nessuno. 
- Quali sono le cose della vita che ti danno la sensazione di essere libero?
- Credo proprio i sogni e la musica, perché quando si ascolta la musica ognuno si può fare il proprio viaggio mentale, la musica credo che sia fatta apposta per creare emozioni. Quando uno ascolta un brano ti può portare chissà dove ed è una cosa molto bella secondo me. 
- Il tuo album è stato registrato in analogico e il suono è molto curato. Ti consideri un perfezionista quando si tratta di creare musica o hai più un approccio istintivo ai pezzi?
- Oggi guardo a tante cose, una volta ero più smanazzone e non ci badavo troppo. Pronti e via. Invece oggi sono lì che curo il dettaglio, dico “questa cosa non mi piace”, insomma sono un pignolo. Si cambia, sarà la vecchiaia. 
- Come è nata la tua passione per la musica?
- Da piccolino ascoltavo la radio, ero affascinato dal suono poi andavo a vedere i concerti nel mio paese oppure nelle zone limitrofe e poi mi sono appassionato alla chitarra studiandola poco perché non ne avevo voglia, però dopo è diventato il mio lavoro ed una passione veramente grande, una cosa bella. E quindi la musica che ho ascoltato da piccolo, magari mi facevano ascoltare i Pink Floyd o i Dire Straits e in qualche modo sono entrati dentro di me 
- In “Life”, il brano di apertura del tuo album all’inizio hai un tocco un po’ alla Mark Knopfler.
- Sì vado a cadere sempre lì perché li ho ascoltati talmente tanto che ho assorbito il loro essere. Quando mi viene in mente un tema di chitarra oppure un fraseggio io lo penso così e non faccio ginnastiche sulla chitarra per far vedere cosa so fare. Non ha senso. Quindi preferisco dedicarmi alla melodia e alla musica e viene fuori quella roba lì. 
- Un altro pezzo interessante è “Funk Mission”, in cui oltre al funk si sente anche un po’ di prog. Ci racconti come è nata?
- A volte come in questo caso le canzoni me le sogno di notte e cerco di portarle al risveglio. Magari dico “questo è bello e mi piace” e lo registro sul cellulare e poi magari la porto avanti. Il funky mi ha sempre appassionato, un po’ come il prog, quindi gli Area, la PFM, i Genesis, sono sempre stato affascinato da questi generi. E quindi quando scrivo un brano mi viene da scrivere queste cose o funky o come “Cluster” che è veramente prog.
- Hai collaborato con molti artisti di alto livello come Maurizio Solieri, Claudio Golinelli, il bassista di Vasco. Cosa ti hanno lasciato queste esperienze?
- Ognuno ti regala sempre, nel bene o nel male, qualcosa. Anche se sembra che non ti stiano insegnando niente invece ti insegnano qualcosa. Serve tutto. Loro hanno fatto la storia della musica e quindi qualsiasi cosa dicano è oro colato. E sono begli insegnamenti, non tutti ce li hanno, quindi è una fortuna.
- Hai fatto nel tuo album una cover di “Lugano addio” di Ivan Graziani che, come dovrebbe sempre avvenire quando si rifanno dei brani, non è la versione karaoke, ma una reinterpretazione.
- Sì l’abbiamo totalmente stravolta anche perché andare a cercare di fare quello che faceva lui è impossibile e poi non mi fregava di fare esattamente la cover e quindi l’ho fatta sulle mie corde, Loris Ceroni mi ha dato una mano con l’arrangiamento e l’abbiamo registrata con un’orchestra vera e quello fa la differenza. 
- Hai militato nella Steve Rogers Band. Ci racconti qualche momento particolarmente bello, emozionante di quella esperienza?
- Sì li sono un branco, (ride) sembrava di essere in giostra. Era sempre divertimento. Poi giravamo. Me lo ricordo come un periodo felice, poi è finito tutto ma me lo porto dentro di me. Anche lì ho cercato di prendere qualcosa di positivo, è stato un bel momento della mia vita. 
- Hai mai condiviso il tuo palco con Vasco?
- No no, me lo chiedono in tanti ma no, per adesso no. 
- Ogni giorno nascono centinaia di nuove rockband perché, in realtà, non tutti i ragazzini ascoltano solo la trap o simili, c’è anche chi, vuoi per via di quello che gli facevano ascoltare i genitori, vuoi perché sono andati a cercarsi i classici del rock, imbraccia una chitarra, un basso o si siede dietro le pelli della batteria con poca esperienza e molta voglia di musica. Cosa consiglieresti a chi si affaccia al mondo della musica suonata oggi?
- Di darci dentro senza mollare mai perché è un mondo difficile, quindi provare, riprovare e riprovare cercando il proprio stile. Perché tutti vanno a copiare qualcosa. Credo che ci sia proprio bisogno oggi di nuove generazioni di rockband, però come dicevi tu sta vincendo l’altra categoria. Il rock è più difficile da “bucare”, però so anch’io di gruppi che stanno cercando di farcela ma è veramente difficile. Quindi mai fermarsi, continuare e crederci sempre.
- Quali sono gli spunti che ti hanno portato a scrivere “Ritratto”?
- Guarda, tutte le volte che esce un disco dico sempre “non ne faccio più”. Questo è il sesto (ride). Poi dopo io metto nel cassetto i pezzi poi li vado a estrapolare e dico “dai allora posso fare un album”. Quindi “Ritratto” è nato così, ascoltando i brani, i provini. Ho scelto un filone perché i brani erano molti di più. Ne ho scelti sette ed è venuto fuori ritratto. 
- Il fatto di essere un chitarrista è un qualcosa che ti definisce in pieno come musicista o sai suonare anche altri strumenti?
- Smanazzo altre cose, magari mi viene un’idea per la tastiera e dico al tastierista “guarda cosa ho trovato”, ma non sono un tastierista. Mi diverto ad esempio a suonare il basso, se mi metto dietro la batteria faccio un po’ di casino. Quindi "suonazzo" anche altri strumenti ma non mi reputo un polistrumentista. Il mio strumento rimane sempre la chitarra.
- Ci puoi dire con chi hai realizzato questo album, chi sono i musicisti che hanno collaborato con te?
- Beh c’è la mia band che è i CC Quartet che è Marco Dirani al basso, Tommy Graziani alla batteria e Mecco Guidi alle tastiere, poi c’è anche Alberto Linari in un brano che suona sempre le tastiere. Tutto è stato diretto da Loris Ceroni che ha fatto gli arrangiamenti degli archi in diversi pezzi. Molto essenziale, non siamo tantissimi, però il disco suona bene dall’inizio alla fine proprio perché ho scelto dei musicisti che mi seguono da un bel po’.
- E’ nato live in sala prove?
- Praticamente sì, una volta provato lo abbiamo suonato live e poi lo abbiamo sistemato un po’ in post produzione. 


Chiacchierata veramente piacevole quella con Cristian “Cicci” Bagnoli che, oltre ad essere un bravo chitarrista, si dimostra estremamente disponibile e non si è mai montato la testa nonostante abbia suonato con diversi big. “Ritratto” è un album autentico, nato per amore della musica, non per cercare a tutti i costi di sfornare un hit che porti fama, soldi e successo, ma per condividere le proprie emozioni con chi ascolta. Quello che conta per “Cicci” è rapporto umano, quel rapporto che molti suoi colleghi, vuoi perché stritolati dai meccanismi della discografia, vuoi perché centrati solo sul diventare qualcuno, non raggiungeranno mai. 


Recensione e intervista a cura di Luca Stra




 

martedì 17 giugno 2025

L'INVIDIA - NON CI GIRIAMO DALL'ALTRA PARTE MA AFFRONTIAMO LA VITA E LE TRAGEDIE DEL MONDO SENZA IPOCRISIE CON LA NOSTRA MUSICA - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI



In un’epoca in cui a fronte del totale disimpegno sociale di molti e del rimpiegarsi su se stessi dimenticandosi della realtà reale per prediligere le presunte meraviglie della realità virtuale, si sta finalmente affacciando una nuova generazione, la cosiddetta Gen Z, che invece rivendica la necessità e l’urgenza di un impegno sociale autentico. E si sa che ogni generazione ha bisogno di propri eroi musicali che ne siano portavoce, in cui potersi riconoscere. Una banda come L’Invidia ha raccolto questa istanza arrivata dal basso ed ha il coraggio di prendere posizione candidandosi potenzialmente a farsi portavoce dei giovani ma anche di quella minoranza di adulti meno accecati da smartphone e visori. Il quartetto salernitano, formato da Vittorio Mascolo, cantante e chitarrista, Giovanni Caiazza, batterista, Gino de Filippo al basso e Lorenzo Fiume alle chitarre ha recentemente pubblicato i primi due singoli del nuovo album atteso per il mese di luglio, ovvero “Crollano i palazzi” e “Mostri nell’armadio”. “Crollano i palazzi” si apre con un arpeggio di chitarra decisamente grunge e la voce di Vittorio Mascolo si staglia netta su un amalgama sonoro possente cantando versi come “vorrei dominare le guerre, tutte senza ragione, vorrei rimboccare le maniche e fermare i bombardamenti ai palestinesi e non restare a guardare quelle povere anime”. Il no alla guerra è netto, senza possibilità di equivoci e portato avanti con profonda convinzione. Il singolo più recente “Mostri nell’armadio” nasce, invece, da una delle tante esperienze dolorose vissute sul lavoro dallo stesso Vittorio per via del proprio lavoro, ossia la morte di un paziente in ospedale durante una notte in cui il cantante de L’Invidia era di turno come infermiere. Un attacco che richiama in parte l’inizio di “Confortably numb” dei Pink Floyd in versione più pesante introduce i versi “ho visto l’arcobaleno dopo una notte in ospedale”. Anche se la vita ci pone a contatto con tragedie simili bisogna in qualche modo trovare la forza di andare avanti. E L’Invidia è una band che fa della tenacia e della forza morale la propria bandiera. 
Abbiamo parlato con Vittorio Mascolo per farci raccontare di più sul progetto L’Invidia.



- Ciao Vittorio la vostra è musica impegnata, tratta delle guerre ma anche della vita quotidiana delle persone, ad esempio in “Mostri nell’armadio” tu descrivi una realtà tragica che hai vissuto sul lavoro. Quanto contano i testi nelle vostre canzoni?
- I testi sono molto importanti anche perché l’italiano è una lingua molto poetica che riesce ad arrivare tanto alle persone quindi, secondo me, va di pari passo alla musica. 
- A proposito del tipo di musica pensate che il rock possa tornare ad essere ascoltato da più persone?
- Tutte le mode ritornano, sia nei vestiti, sia nella musica o nella cucina le mode ritornano sempre quindi, secondo me, tornerà importante anche il rock.
- Il tipo di testi che proponete ben si sposa con un suono pesante come il vostro. Pensi che certe cose non si possano dire con una ballatina pop?
- Ovviamente tematiche importanti devono avere un suono importante ed è quello che noi cerchiamo di fare. Il suono è sempre molto aggressivo, molto distorto anche quando la canzone magari è meno ritmata ma resta sempre un suono corposo e profondo. Abbiamo molta cura del sound perché passiamo giornate intere a cercare di capire l’effetto giusto, la miscela giusta, quindi sicuramente ci teniamo tanto.
- In “Crollano i palazzi” esprimete un netto “NO alla guerra”. Ma secondo voi c’è un pubblico meno anestetizzato da social e realtà virtuale che può recepire?
- Sicuramente ci giriamo spesso dall’altra parte quando vediamo alcune scene in televisione perché non le viviamo in prima persona anche se sono realtà distanti pochi chilometri da noi. Sicuramente sì la gente pensa a sé e le cose scivolano addosso, anche nelle tragedie alla fine si continua a vivere normalmente. E’ questo che secondo me deve cambiare nelle nostre menti, anche nel nostro piccolo dobbiamo dare una mano a queste persone.
- “Mostri nell’armadio” mi ha incuriosito già per il titolo. Questi mostri rappresentano le nostre paure che noi chiudiamo nell’armadio per non vederle? 
- “Mostri nell’armadio” si può identificare in tante cose, può fare riferimento alle malattie, alle paure che abbiamo dentro. Ci sono tanti mostri nell’armadio. In questo caso come primo riferimento ci sono le malattie che a volte sono silenti ed esplodono all’improvviso o danno subito un colpo bello forte e chiaro alle persone. Essendo un infermiere faccio riferimento prima di tutto alle malattie che vedo ogni giorno e che purtroppo mi danno ispirazione. 
- Dal punto di vista musicale si sentono molto gli ascolti del rock anni 90, del grunge del punk. Quali sono i vostri artisti di riferimento, i gruppi o i solisti che vi hanno ispirato di più?
- Un gruppo che ci ispira tanto sono i Foo Fighters, ma anche i Queens of stone age, i Pearl Jam, diciamo tutta quella scia la anni 90 inizio 2000. E’ una cosa che accomuna noi quattro anche se poi ciascuno ha anche ascolti diversi. Ad esempio il batterista Giovanni viene dalla musica classica, ha fatto il conservatorio per cui ha una base un po’ diversa. Lorenzo ed io siamo più sul rock anni 70, quindi Jimi Hendrix, Led Zeppelin. Gino al basso parte più dagli anni 90. 
- Nel verso di “Crollano i palazzi” che dice “vorrei guardare al di là delle azioni sbagliate dove c’è sempre una motivazione che ci spinge a non morire dentro anche se crollano i palazzi”. Come ci spieghi questo verso?
- Questo ritornello di “Crollano i palazzi” è un ritornello di speranza, cercare di guardare sempre al di là delle azioni sbagliate nel nostro piccolo può servire a combattere la guerra, perché la guerra non è solo la guerra delle bombe, delle armi, la guerra accade anche nel nostro piccolo, tra le persone, anche una discussione accesa può essere guerra. Quindi è un’esortazione a guardare al di là delle azioni sbagliate, a cercare di confrontarsi senza andare oltre. 
- Invece tornando ai vostri brani pubblicati anni fa ho notato un’evoluzione nel vostro modo di suonare. Allora eravate molto più blueseggianti, avevate un altro tipo di suono di chitarra. Ci racconti questa evoluzione?
- Quei pezzi nascono da me chitarra acustica e voce sul divano poi in seguito sono stati riarrangiati con la band. Sono nati in modo diverso, perciò sono così. Poi a parte che in ogni band c’è un’evoluzione. L’abbiamo fatto anche perché io sono passato dalla chitarra acustica a quella elettrica quindi già c’è un sound più corposo. Come genere ci siamo un po’ induriti diciamo. Poi quei pezzi sono stati scritti più di 10 anni fa quindi ero un’altra persona, avevo un altro modo di scrivere. E’ bene che ci sia stata questa evoluzione.
- I due ultimi singoli usciti porteranno ad un vostro prossimo album?
- Sì è imminente. Uscirà il 4 luglio. Un album di nove brani che si intitola “Le Nazioni, Situazioni e Sanità”. 
- Sembra quasi un programma di governo
- (Ride) sì e dà anche il titolo a una nostra canzone. Puoi immaginare dal titolo le tematiche.
- Prima dell’album uscirà ancora qualche pezzo?
- No no uscirà l’album direttamente su tutte le piattaforme. 
- Lo porterete in giro in concerto?
- Sì saremo il 2 agosto a Calitri a un Festival che si chiama “Il Primo Maggio in ritardo”, poi faremo una festa nel nostro piccolo paesino e poi bisognerà programmare i locali da settembre in poi. 
- Per curiosità qual è il vostro paesino?
- Io e il batterista siano di Siano, mentre il chitarrista e il bassista e il chitarrista Gino e Lorenzo sono di Sarno. Siamo separati da una montagna praticamente. Da una parte c’è Siano e dall’altra Sarno. Quindici minuti dalla costiera amalfitana.



Ringraziamo Vittorio per l’amichevole chiacchierata e restiamo in attesa di ascoltare per intero l’album “Le Nazioni, Situazioni e Sanità” augurando alla band di riuscire a portare le proprie canzoni a più gente possibile per alimentare un movimento di consapevolezza dei problemi del mondo e della vita. 


Recensione e intervista a cura di Luca Stra




 


 

CòLGATE - MERITA FARE "UNA VACANZA INTERA DENTRO L'ORRIDO" - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Esordio col botto per i veneti Còlgate, band in attività dal 2018, giunti ora al primo album per l’etichetta La Tempesta Dischi, realtà tra le più solide in Italia, fondata dai pordenonesi Tre Allegri Ragazzi Morti. I quattro membri della band Marta Granzotto, chitarra e voce, Andrea Zottino, chitarra e voce, Giulio Dalle Vedove, basso e Matteo Costantin, batteria, dopo aver affrontato un lungo e saggio rodaggio hanno rifinito l’album nell’arco di tre anni per arrivare a dare ad ognuno dei nove pezzi che lo compongono il suono desiderato e testi ricchi di suggestioni che ricordano i migliori Afterhours. 
Il titolo del lavoro, “Orrido”, richiama alla mente atmosfere oscure e claustrofobiche, essendo l’orrido una gola profonda e stretta tra due pareti di roccia scavata dall’azione erosiva dei corsi d’acqua. I testi procedono per immagini come sequenze quasi filmiche, mentre il suono complessivo dell’album è un indie rock venato di pop, in bilico tra i Verdena, i Marlene Kuntz dei primi lavori e il grunge anni 90. I Còlgate sanno alternare ballate dolci e tragiche come il primo singolo “Asteria”, in cui Marta Granzotto, il cui timbro richiama quello di Eva Poles dei Prozac + e anche un po’ Sara Mazo degli Scisma, canta “io guardo il mondo dal retro della mia mente, ma lo vedo spento” su una musica che per contrasto dà un senso di allegra positività. E proprio “Asteria” è forse la punta di diamante del lavoro. In tutto l’album i Còlgate passano da atmosfere acustiche come nel brano “Se la luce continuasse a filtrare attraverso questa finestra” ad un muro di chitarre possente quanto coinvolgente. In un’epoca di musica usa e getta in cui, a causa dell’eccesso di offerta soprattutto sulle piattaforme streaming, siamo diventati incapaci di innamorarci di una band saltando schizofrenicamente da un gruppo ai mille successivi, un album come “Orrido” merita di essere riascoltato e assaporato per riuscire a coglierne le molte sfumature.
Siamo riusciti ad intervistare la band per approfondire “Orrido” e la loro storia.



- Partiamo dalla parola “buio”, che è molto ricorrente in tutto l’album. Che legame avete con l’oscurità, con il buio dell’orrido?
- ANDREA L’orrido per come lo intendo io è una voragine, uno spazio vuoto che non è riempibile, non è sormontabile il nessun modo per cui anche il buio dell’orrido è un buio statico, una sorta di interruzione delle comunicazioni, interruzione dei contatti. Immaginandoci la corrente alternata ci sono momenti in cui l’energia salta, fa il saltino e passa dall’altra parte. E’ un buio di non esistenza in un certo senso come è anche rappresentato nella serie “Twin Peaks 3”. Ci siamo immaginati questo, io in particolare, in alcuni momenti di passaggio della vita. Ci sono momenti senza continuità che semplicemente dobbiamo accettare così come sono senza avere una loro trama che ci possa dire come si è passati da “A” a “B” in maniera lineare. 
MARTA Mi trovo abbastanza in linea con quanto detto da Andre. E’ questo buio che deve arrivare e che non si conosce. Volevamo rappresentare anche quello che si immagina che debba arrivare. Volevamo rappresentare le esperienze future come delle stanze in cui entriamo senza accendere la luce. Questo rapporto luce-buio come il rapporto tra il nascosto e il conosciuto. 
- Un altro legame che ho trovato tra le vostre canzoni è la dimensione del tempo. In pezzi diversi cantate " sono uscita di martedì sera” e anche “contando i lunedì senti che il tempo passa”. 
- MARTA Essendo il tempo centrale non solo nei testi, ma anche nella storia di tutto il disco perché è stato un lavoro che si è evoluto nel corso di almeno tre anni. Essendo delle persone con molte cose da fare, con una vita molto piena soffriamo molto questa cosa di non avere abbastanza tempo per la musica e quindi lo scopo era descrivere esattamente quando succedono le cose per dare familiarità. Lunedì, martedì, questi elementi servono un po’ per contestualizzare la realtà di quello che sentiamo. Penso che questa cosa sia un po’ una dimensione in cui la gente possa immedesimarsi. Avere un po’ un senso familiare delle cose che raccontiamo, anche. 
- Nel brano “Crisma” dite “le pareti di una stanza disegnano per noi il profilo di una gabbia”. Cos’è il particolare che vi fa sentire ingabbiati?
- ANDREA Crisma è una canzone che parla delle rivoluzioni non portate a termine o lasciate a metà. Ci sono alcuni passaggi obbligati nella vita e passaggi che si dice siano obbligati. Io, che ho scritto il testo di “Crisma” stavo pensando al matrimonio come uno di quei passaggi che si pensano obbligati, ma non lo sono e passaggi come il dover scegliere il futuro impiego lavorativo dopo aver concluso il percorso di istruzione classico, ma è una cosa in più che uno può scegliere. Quindi si perde la reale possibilità di scegliere per cui le pareti di una stanza possono essere tali ma per molti diventano il profilo di una gabbia. Questo dover rispondere di alcuni obblighi che in realtà si dice che lo siano senza esserlo realmente.
- Dal punto di vista musicale “Orrido”, la title track è in bilico tra pop e grunge, grunge soprattutto nella ripetizione quasi senza fine della strofa “dentro all’orrido”. Voi come la definireste?
- MARTA Sicuramente ci sono delle influenze grunge perché ascoltiamo tutti un po’ questo tipo di musica, a parte Giulio che ha dei gusti un po’ più raffinati. Io e Andre abbiamo sicuramente, soprattutto Andre, abbiamo questa cosa degli Smashing Pumpkins, soprattutto la ripetizione di questi non dico slogan ma comunque versi ripetuti. La dimensione pop è sicuramente presente in quasi tutte le canzoni perché ci rendiamo conto che sono molto “catchy”, orecchiabili, a volte sembrano quasi un jingle, delle melodie molto “happy”, quasi sciocche ma con dei testi profondi, soprattutto “Asteria”, che sembra una canzone leggerina, ma in realtà ha nel testo tutte parole forti. Quindi non mi offendo a sentirmi dire che è pop perché mi rendo conto che un po’ rientra anche in quello stile. Magari possiamo chiamarlo dreampop.
- Tra l’altro visto che c’è anche Marta ne approfitto per dirti che la tua voce mi ricorda quella di Eva Poles e di Sara Mazo degli Scisma.
- Cavolo grazie per il paragone. Per quanto riguarda gli Scisma mi piacerebbe anche tanto esplorare quel tipo di musica lì, mi piace pensare che i testi siano colti uguali.
- ANDREA Diciamo che gli elementi pop sono messi lì nell’album quasi come una farsa, nel loro valore stucchevole, anche un po’ retorico. Ci sono tante cose che vengono dette della vita di tutti i giorni dentro “Orrido” che sono messe proprio lì di fronte all’orrido. Vogliamo far contrastare questi due aspetti, un po’ come nella copertina dell’album con la grandezza di quella costruzione in cemento che è una diga con di fronte a qualcosa di più spensierato come quei due ragazzini che corrono.
GIULIO Poi secondo me questa cosa ci sta perché essendo “Orrido” la title track dell’album anche per la sua ritmica grunge è quasi una discesa dentro l’orrido, però, come abbiamo lavorato noi, ci sono questi contrasti, quindi un immaginario un po’ più giocoso in contrasto con quello che può essere la profondità e l’oscurità di un orrido. Perché non immaginarsi questa discesa dentro l’orrido con timore, anche un po’ con paura dell’ignoto, però perché allo stesso tempo non scendere dentro l’orrido anche con un po’ di pop. Non essere sempre tutti a pensare “ah mio Dio cosa ci sarà”, ma pensare la discesa come una scampagnata tra amici che è stata un po’ quella che è la copertina dell’album. L’ho scattata io ed era una giornata del 2017 in cui eravamo io, Andrea e una nostra amica e siamo andati a farci un giro alla diga del Vaiont che è un luogo che ha una storia molto triste, molto seria. C’è tutto questo tipo di contrasti tra l’orrido, la diga, la felicità, il tempo. Tutto un filo conduttore che si stringe e non si slega mai.



- Nel vostro album ricorrono diversi miti. C’è Asteria, che per sfuggire alle avances di Zeus, che si era trasformato in un'aquila per raggiungerla, Asteria si trasformò in una quaglia e si gettò nel mar Egeo dove si trasformò in un'isola che prese il nome di Ortigia, ovvero "isola delle quaglie” e c’è anche Venere che ricorre in due brani. Da dove deriva questo legame con la mitologia?
- MARTA  Io ho fatto il classico e quando ho scritto “Asteria” mi stavo diplomando. In realtà non è tanto il fatto di usare i miti, quanto più di raccontare me stessa e come ero in quel momento attraverso queste simbologie e la classicità. Era più quindi perché stavo studiando in quel momento e quindi avevo la testa piena di queste cose, della letteratura greca. Mi piace molto cercare cose su internet, è un mio grande hobby, guardare tanto Wikipedia, i video di YouTube e mi piaceva molto il nome, semplicemente. La scelta di citare Venere invece deriva dal fatto che è il primo pianeta che si vede quando tramonta il sole e l’ultimo a sparire la mattina. Era una metafora di quando fai talmente tardi la notte che poi diventa presto.
ANDREA Su “St ria” ricompare Venere perché la figura di Venere che cerca di sfuggire a Zeus è quanto mai attuale, simboleggia il fatto che la donna è costretta a fare quattromila manovre per portarsi a casa la salvezza, l’incolumità. E quindi Venere più come simbolo della femminilità, della bellezza che  è una bellezza stanca, che sta crollando, affaticata, affannata perché c’è questa figura che non la lascia stare. Così è nata un po’ “St ria” che vorrebbe essere la sorella di “Asteria”. Abbiamo quindi Asteria che è intoccata e invece “St ria” che è affaticata, quindi una sorta di evoluzione. Però questa storia è arrivata dopo, quella di “Asteria” è come l’ha detta Marta. 
- In “Crisma” si sentono echi dei Marlene Kuntz, così come in “Donnie”. Sono tra i vostri ascolti, un gruppo che apprezzate?
- MARTA Sì io tra l’altro i Marlene Kuntz li ho visti live al Festival Suoni di Marca con gli Afterhours e hanno dei suoni pazzeschi. Li ascolto molto perché mi piace quel genere di musica italiana.
ANDREA Sì io i Marlene Kuntz li ho visti a Padova l’anno scorso, non li avevo mai ascoltati con attenzione ma ho pensato "caspita ma questo suono qui è molto simile a “Crisma”. Che invece è nata da un giro un po’ distorto di Dave Matthews che usa tanto questi arpeggini di due corde, è stato un po’ stonato ed è uscita “Crisma”. Però sì ci assomiglia.
GIULIO I Marlene Kuntz non sono tanto nei miei ascolti, anzi quasi per niente però li ho visti nel 2017 in apertura a Thruston Moore all’AMA Music Festival e sono forti. Però la mia ispirazione in “Crisma” sono stati un po’ i New Order, i Joy Division, quel basso pulsante che torna da “Crisma” fino alla fine dell’album. 
- La vostra scrittura sembra quasi essere per immagini, fotogrammi che sembrano apparentemente slegati tra loro e, avete citato gli Afterhours, bene in questo ricordano i primi Afterhours. 
- MARTA Quando abbiamo scritto i brani c’è stato questo momento in cui li abbiamo adattati all’italiano perché erano in inglese, però anche in inglese in realtà erano fatti per immagini. Ci piace molto usare le metafore, specialmente a me e Andrea, anche comunicando tra di noi. Ricordo che all’inizio addirittura ci parlavamo tipo come se fossimo quasi dei profeti, dei filosofi, perché piacendo ad entrambi leggere e piacendoci molto il cinema il fatto di usare tante metafore, tante similitudini lo usiamo anche nel quotidiano. Per cui per noi scrivere i testi in questa modalità non è tanto una ricercatezza quanto come noi comunichiamo.
- Un’ultima curiosità, preparando questa intervista ho saputo che siete in parti diverse del mondo. Dove esattamente?
- GIULIO Io sono in Portogallo. 
- ANDREA Io e Marta siamo entrambi in Veneto, però non siamo vicini. Io mi trovo a Padova e Marta, penso, a San Donà di Piave.
MARTA Sì sono a San Donà di Piave. Comunque ho vissuto a Venezia per due anni quindi eravamo in posti molto difficili per raggiungerci. 
ANDREA Il bello di quest’album è che alcune canzoni sono state scritte mentre eravamo molto vicini, proprio nella stessa zona e poi altre canzoni sono state scritte a distanza di tempo e anche di luogo e questo nell’album si sente. E’ bello poter dire che siamo diventati grandi scrivendo l’album. 
Avete in programma di fare un tour con quest’album?
- GIULIO Al momento fino a settembre sono 19 date, ne abbiamo già fatte un bel po’. Poi ne verranno altre con l’autunno e l’inverno. Ci stiamo dando da fare io con gli aerei, Marta e Andrea con la macchina. Per fortuna c’è stata molta attenzione nei nostri confronti e c’è stata tanta richiesta e io ringrazio tutte le persone che ci hanno contattato per suonare e anche per le interviste. E’ molto bello sapere di essere arrivati con la nostra musica al cuore e alla mente di molte persone ed è una bella soddisfazione. 
Ciò che fa di “Orrido” un album vincente è la riuscita commistione di generi musicali che gli conferisce uno stile tutto suo. E questa riconoscibilità è il primo passo per arrivare ad avere una solida fanbase nonchè ad un’ottima reputazione nell’ambito del mondo indie.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra