Un filo sottile come lo spago, ma affilato come la lama di un coltello collega idealmente la via Emilia con il West, per parafrasare il titolo di un album di Guccini. Su quel filo camminano come funamboli senza rete i brani country folk innervanti di chitarre elettriche dei Fattore Rurale, band emiliana capitanata da Marco Costa (voce, chitarra acustica) con in formazione Riccardo Polledri (chitarra elettrica), Gianluca Ferrari (basso) e Alex Janev (batteria). Il loro ultimo album, “Emilia Cowboy”, è molto esplicativo fin dal titolo di questo legame profondo tra Emilia e West. La voce scorticata ed espressiva di Marco Costa ne è l’elemento caratterizzante, in grado di dare profondità ai testi e filmando, negli otto brani che compongono il lavoro, la cavalcata solitaria di un cowboy ferito in cerca di sé stesso. Registrato in presa diretta, il disco è stato prodotto in modo minimale per esaltarne la spontaneità. In apertura la title track chiarisce subito fin dal primo verso, “benvenuti all’inferno”, che la pista desertica tra i canyon che seguiremo sarà tortuosa e dovremo tenere duro per non affondare. Tra i pezzi più incisivi spiccano anche “Rispetta il dolore”, intrisa di ricordi sanguinanti e “La stagione del veleno”, ballata dei sogni infranti. Negli ultimi due brani “Fulmini” e “Prendi e portami via” si intravvede un raggio di sole nell’amore per una donna. “Emilia Cowboy” è lo specchio sporco in cui si riflette il suo autore, provato dalla vita, ma con quel bagliore negli occhi di chi, grazie al potere taumaturgico della musica, ha saputo capirsi e accettarsi.
Marco Costa si è prestato ad una chiacchierata che non si limita all’album, ma abbraccia anche ricordi personali importanti.
- “Emilia Cowboy” è un album che mi fa venire in mente, per suggestioni, per associazione di immagini il titolo dell’album di Guccini “Tra la via Emilia e il West”. Possiamo dire che la polvere dei canyon si è depositata sulle vostre canzoni?
- Finalmente qualcuno che mi fa la domanda diretta. Io sono nato con Guccini, quando in prima superiore lo ascoltavo venivo preso in giro. Quindi sì. Tra l’altro c’è un episodio bellissimo successo ultimamente. Stavamo tornando da un live e io dicevo al chitarrista “sai che quando Guccini vedeva…” E lui mi fa: “Ti fermo subito Marco, hai rotto il cazzo”. “Perché?” “Perché lo dici sempre”. Quando Guccini vedeva le ciminiere della centrale a Piacenza si sentiva a casa perché entrava in Emilia.
- Mi sembra che l’album sia narrativo. E’una mia impressione o c’è un unico protagonista che si evolve? E se sì quanto c’è di te in lui?
- Non lo so in realtà perché ovviamente scrivo quello che vivo e quello che vedo, la realtà, quindi sì è l’evoluzione dell’essere. Detto ciò, come me ho incontrato altri miei simili. Comunque sì è un processo di accettazione.
- Un elemento distintivo del vostro suono è l’uso dello strumento voce, una voce scorticata quando canti che esce come un soffio, a volte mi è sembrato anche come uno sputo da labbra dalle quali pende una sigaretta spenta. L’espressività per te conta di più delle doti vocali canoniche?
- Io credo che tutte le persone possano cantare. Nel senso che se uno vuole cantare lo può fare e non c’è bisogno di essere intonati, bisogna fare di necessità virtù. Trovare quello che sei capace di fare e esaltarlo. Idem quando uno suona uno strumento, non c’è bisogno di fare gli assoli di Steve Vai, nel senso che a me piace ad esempio molto l’album “Ship arriving too late to save a drowning witch” di Frank Zappa con Steve Vai, ma non c’è bisogno di fare quelle cose, quindi secondo me conta di più quello che comunichi rispetto a come lo comunichi. Un esempio è anche Nick Cave che non fa delle canzoni alla Placido Domingo. Cave è più interprete che cantante. Non è Dio, ma quasi. Quindi voglio dire conta veramente poco la tecnica quando si fa arte e anche in generale nella letteratura.
- “Rispetta il dolore”, pezzo sporco, intriso di desolazione. Il dolore è, come tutti i nostri sentimenti più privati, invaso dal voyeurismo digitale. C’è un modo di sottrarsi secondo te?
- C’è un modo, che però porterà a salvare non tutti, ci salverà singolarmente, nel senso che dipende da come usi i social in questa società che è allo sbando. I social, per quanto mi riguarda, servono per interagire con gli altri, ma non sono usati per questo bensì per mettere in mostra chi siamo ed è sbagliato. A me interessa condividere, non vedere senza avere rapporti e purtroppo invece è diventato così. Ci salviamo se personalmente capiamo che dobbiamo evitare certe dinamiche. Nel senso che se vedo qualcosa di un artista che mi piace e che non sia famoso e riceva migliaia di messaggi, gli scrivo e lui mi deve rispondere. Perché i social sono nati per questo. Posso scrivergli ad esempio “Ma che bella canzone” e lui mi ringrazierà e da lì nascerà un dialogo. Questa situazione però è una mia utopia perché non è quasi mai così. Uscendo da queste dinamiche ti salvi, capisci in che modo vanno usati i social.
- In “La stagione del vento” c’è un verso che mi ha colpito molto che dice “ormai non è più tempo di difendersi”. Arrendersi di solito è l’ultima opzione possibile e allora cosa spinge il protagonista di questa canzone a farlo?
- Si basa tutto sul concetto di eterno ritorno, perché la morte in realtà non è la fine ma una rinascita. Quindi lui si arrende e poi rinasce. Fallisce, muore, rinasce sempre. E’un concetto che in realtà è difficile da metabolizzare anche per me che lo vivo, un concetto particolare perché c’è sempre una visione pessimistica della vita, ma in realtà il vivere ogni momento ciclicamente all’infinito ti fa capire che i pochi momenti felici che ci sono nella vita vanno vissuti appieno e i momenti brutti, che sono molti di più, ti serviranno per affrontare gli altri che ti capiteranno ciclicamente. “La stagione del veleno” tra l’altro è dedicata a una persona a me molto cara che si chiama Renato e dietro c’è una storia molto particolare che se vuoi ti racconto.
- Certamente, può essere interessante.
- Avevo questo amico che si chiamava Renato. Anni fa quando non c’erano ancora gli smartphone, sarà stato intorno al 2006-2007, io avevo perso il suo numero di telefono e andavo nei posti che frequentava lui nel paesino in cui viveva per vedere se riuscivo ad incontrarlo per strada. L’ho fatto fino al 2024. E pensavo che lui sapeva che volevo fare musica, io ero giovane mentre lui era molto più grande di me e mi chiedevo chissà se anche lui si è fatto i social, se vede gli articoli di giornale. Poi tramite amici in comune che non sapevo di avere e lo conoscevano ho scoperto che, in realtà, nel 2024 lui era morto da 12 anni. E sono rimasto di ghiaccio perché pensavo di poter controllare il tempo, mentre il tempo se ne frega e va avanti. Così di getto è nata questa canzone.
- Sì certo noi ci crediamo eterni.
- Esatto, anche all’Universo in realtà non frega nulla. Poi quando lo metabolizzi e lo capisci lo accetti però si parte dalla presunzione di essere eterno e dire “no questo lo faccio dopo”. Non ho cercato abbastanza, potevo trovarlo. Andavo anche nel posto in cui lavorava ma non mi davano il numero di telefono perché dicevano che non si poteva lasciarlo a sconosciuti e avevano ragione. Adesso che so com’è andata lo vado a trovare al cimitero.
- Tornando all’album, “Emilia Cowboy” è un disco di chitarre e voce in primissimo piano, la produzione mette in risalto il suo essere crudo, diretto. Non è un album di grandi sovraincisioni. E’stato composto di getto o lo avete meditato a lungo?
- Ci abbiamo messo circa un mese per scrivere le canzoni partendo proprio da “La stagione del veleno” e poi ho detto “facciamo un album alla vecchia scuola, in presa diretta”. Quindi c’era l’idea di farlo e ne avevo il tempo. Un altro mese è servito per provare i pezzi e poi tre giorni per registrarli. Fine. Presa diretta, pochissime sovraincisioni. In qualche brano con la cassa la voce è stata sovraincisa, ma tutto il resto è appunto in presa diretta. In realtà tutti i nostri album sono così. Nel senso che se avessimo i soldi per farli subito sarebbero pronti in tre giorni. Se lo facessimo però dovremmo rapinare banche il che è un po’ un problema.
- Invece in “Codardo” come si fa ad accettare un viaggio che ha già un percorso scritto?
- Anche questa canzone ha una storia strana. Mi consigliavano di guardare “Arrival”, un film di Villeneuve. Mi convinco, lo guardo e ci rimango di merda perché un’ora prima avevo scritto “Codardo”. La frase iniziale del brano anche se un po’ modificata è una citazione del film. E allora come si vive sapendo che il percorso è già scritto? E’accettazione, non crediamo nelle favole. Se sai già come va a finire non trattenerti perché tanto la tutela dal dolore è un processo inutile, nel senso che non è che se tuteli dal dolore non soffri. Durante i live dico che oggi i mass media fanno passare questo messaggio per cui se non dici la verità non va bene. In realtà la verità non va sempre detta, questo è il senso di “Codardo”, empatizzare. Tu sei pronto per sentire la verità? Non lo so se lo sei, però io sono pronto a tenermi le mie porcate dentro e a fare i conti con i miei peccati. Anche questo si lega all’eterno ritorno nel senso che tu sai dove stai andando, sai quello che fai nel bene e nel male, basta solo guardarsi dentro e empatizzare.
- Negli ultimi due pezzi dell’album “Fulmini” e “Prendimi e portami via” un bagliore di luce entra in una stanza buia, si sente che c’è un eco di amore. I due pezzi mi sembrano due facciate di una lettera d’amore. E’il sentimento per cui vale la pena vivere?
- No. In realtà non vorrei rispondere a questa domanda perché vorrei che il lettore traesse lui le sue conclusioni. L’amore in realtà è un percorso, un processo, cambia, varia, evolve ed è molto complicato. Non è come la morte in cui muori e ricominci. Diciamo che le ultime due canzoni sono, come dici tu, una luce che fa da guida. Chi ascolta l’album rinasce.
- Nell’ultima canzone in particolare c’è una tastiera che dà un tocco di leggerezza finale e risolleva lo spirito alla fine del viaggio. In questo pezzo si intravvede il cielo dietro la nebbia?
- Il concetto è quello lì e succede una cosa alla fine della canzone a livello compositivo che riassume l’album, ovvero proprio il concetto dell’eterno ritorno. La tastiera è suonata dal nostro fonico e anche qui c’è una storia incredibile. Nel 2018 ci chiama Giovanni Sala, che faceva il produttore, per un incontro. Noi andiamo e gli proponiamo il secondo disco “Raccolgo la notte” e lui ci dice “Guardate ragazzi io butterei via tutto quello che avete fatto”. Io sono rimasto colpito. Mentre tutti ci dicevano “io saprei come fare” lui ci ha detto “tornate quando siete pronti”. E lì ho capito che in un mondo di squali lui ci ha mandato a quel paese. E’stato onesto. Siamo diventati amici, passano gli anni e con “Emilia Cowboy” abbiamo fatto l’album insieme. Dal dolore è nato un fiore.
- Cioè lo ha prodotto lui?
- No il produttore sono io, la produzione artistica è interamente mia, lui ha fatto il fonico, ha mixato e masterizzato. Io sono un tipo un po’ particolare, ho le mie idee e faccio fatica a spostarmi ma poi, in realtà, ho ascoltato molto i suoi consigli. Abbiamo registrato appunto in presa diretta e ogni volta che lui diceva “va bene” sapevo che andava bene per davvero. Mi ha dato la forza, l’input di farlo. Essendo un po’ particolare decido io però ascolto molto i consigli degli altri. La figura del fonico è molto importante, deve empatizzare con te. Per suggellare il nostro rapporto abbiamo fatto l’album con Giovanni Sala come fonico, ma ho anche un ottimo rapporto con Daniele Mandelli, fonico storico da quando ho iniziato a suonare, che non lascerei per niente al mondo e con cui stiamo facendo un altro album.
Vita e morte sono l’essenza di “Emilia Cowboy” e il messaggio è chiaro, dobbiamo bere senza risparmio ogni attimo fino all’ultima goccia, perché non sappiamo cosa ci riserva il domani e rinunciare a godere di quello che abbiamo oggi è come abbandonare la nostra anima al vento.


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