Ecco "Se hai fede, non devi preoccuparti d'altro", il settimo capitolo di "Ultimo tour sulla Luna", il nuovo romanzo di Ljubo Ungherelli pubblicato in esclusiva dal blog di Riserva Indie ogni giovedì dal 4 Febbraio. Guy e Vicni prima di dirigersi verso Spoleto, dove li attende un nuovo live, fanno tappa a Firenze per essere intervistati dall'inviato del potente sito Indie Italie. Vi ricordo che potete trovare tutti i capitoli pubblicati anche sulla nostra tab nella home page del blog.
Capitolo 7
Se hai fede, non devi
preoccuparti d’altro
Guy
ancorò la Luna nel parcheggio sotterraneo. Avevamo appuntamento vicino alla
stazione centrale, in un’area che ospitava fiere e convegni. Il luogo di
ritrovo era il piazzale antistante. Non saremmo rimasti a Firenze per più di un
paio d’ore. Il tempo dell’intervista e di mangiare qualcosa, poi ci aspettava
il terzo concerto del tour, a Spoleto. Avevamo studiato un piano per cercare di
sabotare l’intervista e ridicolizzare gli intervistatori e chi ce li aveva
mandati.
“Mi
raccomando, abbiamo fatto salti mortali per avere quest’intervista su Indie
Italie. Lo so che vi stanno sulle balle, ma ognuno deve fare la sua parte. Noi
facciamo la nostra, voi fate la vostra e loro fanno la loro.” Così c’aveva in sintesi
ammoniti la tipa dell’ufficio stampa. C’aveva chiamato in mattinata, appena
ripartiti da Madonna Dell’Acqua. Aveva chiamato Guy. Chiamava sempre Guy. Che mentre
guidava, aveva messo il vivavoce per farmi ascoltare la ramanzina.
“Tutto
sottocontrollo, mia cara”, s’era beato lui, dandomi di gomito con l’intenzione
di non farmi intervenire. “Ho già messo la museruola alla mia collega, che è
notoriamente la metà incazzosa e antipatica del gruppo, e mi palleggerò i
nostri eroi nella maniera migliore. Faremo la figura dei santarellini
dell’indie che ogni mamma vorrebbe vedere maritati al proprio figliolo… O
figliola, sì, certo, a seconda dei casi. Abbi fede!”
“Io
ho fede”, aveva risposto lei. “Però dicevo…”
“E
allora basta! Se hai fede, non devi preoccuparti d’altro, tesoro. Ti faccio
chiamare da Vicni appena ci rimettiamo in cammino. Così ti racconta lei, che
non ha peli sulla lingua. Bacioni forti e chiari!” E aveva troncato la
telefonata, prevenendo eventuali repliche.
Indie
Italie era il male. Negli anni, era diventato il sito musicale italiano più
autorevole del settore. I peggiori trend che dilagavano nel nostro ambiente
erano fomentati sulle sue pagine, imponendo a tutti di fare musica secondo quei
diktat del cazzo. Chi non si adeguava veniva emarginato a colpi di stroncature
o, peggio, di omertà. Non essere menzionati da Indie Italie equivaleva a non
avere rilevanza nel giro. Era addirittura meglio essere stroncati, anche in
modo trasversale, tipo: “Il gruppo x
prende il peggio dalle sonorità del gruppo y
che già fa schifo di suo”. Era perlomeno un segnale d’attenzione.
Il
sistema vagamente mafioso con cui amministravano la musica era accettato da
tutti gli addetti ai lavori, musicisti compresi. Noi in realtà non avevamo
problemi a prestarci a quel meccanismo, Guy in particolare era disposto a
qualunque compromesso in cambio di visibilità, e io mi adeguavo.
Forse
gli attriti, almeno da parte nostra, erano iniziati quando avevamo pubblicato
le prime cose, ricevendo attenzioni dalle principali riviste e webzine di
settore, ad eccezione di Indie Italie. Da allora, loro avevano continuato a
ignorarci e noi, un po’ per ripicca, non avevamo fatto nulla per compiacerli e
trovare spazio sul sito.
A
comandare la baracca c’era Fosco Quiličić, uno dei
personaggi più sgradevoli che avessi mai avuto la disgrazia d’incontrare. Per
fortuna solo di sfuggita in un paio d’occasioni. Era gonfio di boria oltre che
nel fisico, con la faccia da addormentato che però si sente in dovere di spiegarti
la vita. La cosa peggiore era doverlo seguire su Facebook: condivideva ogni
singola cazzata della sua vita, connesso ventiquattrore a raccontare storielle
stupide con protagonisti lui stesso, la compagna e la figlia piccola. Ognuna di
queste perle era accompagnata da foto altrettanto nauseanti, con i medesimi tre
soggetti in campo, e Fosco Quiličić che giganteggiava tra le sue “preziose
creature” (le chiamava così ogni volta) con l’aria da ebete e il viso tagliato
all’altezza della fronte per nascondere la pelata. Ovviamente, nessuno di
questi orrendi post riceveva meno di duecento like. E raffiche di commenti ossequiosi, specie di musicisti, anche
importanti, che gli leccavano spudoratamente il culo.
Con quelle minacciose premesse,
osservammo due tizi che ci venivano incontro a colpo sicuro. Noi, i musicisti
che dovevano essere intervistati, eravamo arrivati con una decina di minuti di
ritardo. Loro, infimi redattori, carne da macello mandataci contro dal subdolo Fosco
Quiličić, si presentarono quasi mezzora dopo l’orario concordato.
Nella peggior tradizione, il tipo
camminava tre passi avanti alla collega. Era agghindato come l’ultima ruota del
carro di una gang di rapper dell’hinterland malfamato di una qualunque
metropoli. Il clima era mite, sicché non aveva la giacca ma solo una felpa di
almeno due taglie più larga e il cappellino con la visiera all’indietro. Sotto,
pantaloni verdi multitasca neanche dovesse andare a pesca dopo l’intervista.
Per il resto, il concetto di nerd gli stava generoso. Aveva gli occhialoni
squadrati tanto in voga tra i giovani, che facevano sembrare cretine persino le
ragazze più interessanti, mentre gli uomini ci facevano tranquillamente la
figura dei babbei. Lui infatti ci faceva tranquillamente la figura del babbeo.
Cercai di distrarmi tramite la
contemplazione della tipa. Mi resi conto che camminava a ruota di quel tordo
perché aveva evidenti difficoltà di movimento. Era impacchettata in un abitino
inguinale giallo canarino dove non sarebbe passato uno spillo, tanto era attillato.
Aveva i capelli corti, nerissimi, con la frangetta, e orecchini che facevano
pendant con la collana. E col vestito. Gli occhi parevano comunicare un misto
di fastidio e disinteresse.
“Bene ragazzi”, esordì Varagano senza
neppure scusarsi per il ritardo. Aveva la voce nasale e un accento
indefinibile, non sembrava toscano. “Indie Italie, per volere del nostro
direttore Fosco Quiličić, ci ha mandato fino a Firenze per intervistarvi e
farvi delle foto per un articolo che uscirà sul sito.”
“Grazie d’averci dedicato un po’ del
vostro tempo, un po’ del vostro spazio, un po’ di voi e un po’ di noi, insomma,
le pari opportunità, le quote rosa”, gli rispose Guy cantilenando. “A
proposito, come se la passa il buon Fosco Quiličić? È da parecchio che non lo
incontro in giro.”
“Sì, benone”, tagliò corto Varagano,
sempre in quel modo loffio che avrebbe reso difficile l’attuazione dinamica del
nostro piano. Di primo acchito, dava l’impressione che se uno gli avesse dato
un cazzotto, avrebbe manifestato la reattività di un sacco da allenamento per
pugili. “Vi faremo un po’ di domande, e nel frattempo vi faremo delle foto, e
poi se ci sarà ancora tempo faremo un breve shooting
qui davanti. Proprio per questo sono venuto insieme a Erbafel, la bravissima
fotografa ufficiale di Indie Italie.”
“Grazie, Varagano”, gli disse lei con
noncuranza, frugando con gli occhi dentro la borsetta, che teneva appesa a una
spalla, mentre l’altra sosteneva la tracolla della borsa con l’attrezzatura
fotografica.
“Grazie, Varagano”, le fece eco Guy.
Pure io mi accodai.
“Abbiamo preso il treno stamattina
presto per essere in tempo qui a Firenze e intervistarvi per Indie Italie”,
tenne a precisare ancora Varagano, forse per farci pesare che s’erano abbassati
a tanto per gente come noi. “Allora, comincio da te, Gài…”
“Ghì!”,
lo corresse immediatamente lui. Per un attimo, calò il gelo. Persino Erbafel
smontò dal piedistallo per assumere un’espressione accigliata.
“Ghì?”,
riuscì infine a domandare Varagano.
“Sì, Ghì.
Non Gài. Il mio nome si pronuncia
alla francese. Ghì”, ripeté un’ultima
volta.
“Pensavo che si pronunciava
all’inglese.”
“Pure io lo pensavo. Per questo canto in
italiano.”
“Certo”, borbottò Varagano. “Erbafel, tu
quando vuoi inizia pure a fare le prime foto, anche a noi tre tutti insieme.”
“Grazie, Varagano.”
“Dicevo, Guy, questo è il vostro secondo
album.”
“Sì, questo”,
rispose Guy, guardandosi attorno per cercare l’oggetto di cui gli veniva
domandato. Non riuscì a trovare il nostro secondo album nei paraggi.
“Che cosa vi ha spinto a registrare un
nuovo disco?”
“Chi
ci ha spinto? Beh, è una lunga storia, sai com’è…”
“Guy, ti ha chiesto che cosa ci ha spinto a registrare un nuovo disco, non chi!”, intervenni io.
“Ma che ne sai tu di chi o cosa ci ha
spinto? Donna!”
“Infatti lo ha chiesto a te, mica a me.
E rispondigli allora!”
“Certo che gli rispondo! Nel nostro
primo disco avevamo esplorato uno spettro sonoro derivante più che altro dalle
nostre precedenti esperienze musicali e dai nostri ascolti di gioventù. Col
passare del tempo, ci siamo resi conto che avevamo la possibilità di arricchire
la nostra musica, non solo grazie alle royalty,
ma anche con influenze non necessariamente riconducibili ai nostri background. ‘Due di coppia’ è nato sotto
questa stella.”
“Ma il primo disco aveva quelle
vibrazioni roots urbane che su questo
mancano completamente”, s’inserì Erbafel. Varagano non fece neppure caso a
quell’uscita senza senso. Guy invece colse l’occasione per ricamarci sopra.
“C’hai sgamato! In realtà, è colpa del
viaggio di tre mesi che Vicni mi ha costretto a fare da una costa all’altra
della Corea del Nord. In quel lasso di tempo, abbiamo sviluppato un nuovo
approccio alla musica, che secondo me è tutto di guadagnato, ma inevitabilmente
qualcosa del vecchio repertorio è stato accantonato in favore del mood che hanno adesso i pezzi di 2
Dualità.”
“Vicni, anche tu credi che questo vostro
viaggio è stato determinante per lo sviluppo della vostra musica?”
“Di sicuro”, gli risposi. “Anche perché
io ho costretto Guy a fare questo viaggio, ma lui da solo. Io sono rimasta a
casa a lavare e stirare, ma soprattutto a scrivere musica e sperimentare nuove
sonorità nel mio home studio. Quando
Guy è finalmente rientrato, la preproduzione era già bella che fatta. Lui ha
aggiunto le melodie, i testi e ha arrangiato qualcosa in modo diverso.
Andammo avanti a giostrarci Varagano con
disinvoltura. Lui non aveva nulla da obiettare alle nostre argomentazioni, per
quanto fossero assurde.
“Noi di Indie Italie siamo venuti fino a
Firenze per intervistarvi anche perché voi siete nel corso di un tour molto
particolare, realizzato tramite una colletta online.”
“Crowdfunding”,
precisai io.
“Certo”, annuì Varagano. “I vostri fan
vi hanno aiutato a realizzare questo tour di poche date, e in cambio hanno
ricevuto delle ricompense…”
“È stata un’esperienza fantastica!”, lo
interruppe Guy, impedendogli di fare la domanda. “I nostri sostenitori hanno
fatto a gara di velocità per aiutarci a tirar su questo ‘Tour sulla Luna’ di
sette date in una settimana. Siamo stati bravi anche noi a fare una campagna
efficace, con ricompense originali.”
“L’idea
della fornitura di cibo per gatti 2 Dualità è un colpo di genio!”
“Infatti
l’ho avuta io. Pensa, nei primi due concerti del tour sono venuti in diversi a
ritirare le scatolette, e si sono portati dietro il gatto, nascosto in uno
zaino per non avere menate all’ingresso. Che teneri! Noi li adoriamo, i gatti!”
“Noi
adoriamo anche gli uomini. E le donne”, dissi io.
“Un
giorno però dovremmo fare un concerto davanti a un pubblico composto
esclusivamente da gatti”, propose Guy.
“Non
sarebbe male. Potrebbe rivelarsi più divertente rispetto ad alcuni concerti che
abbiamo fatto in passato”, mi accodai.
“Ma
le ricompense migliori erano senza dubbio quelle in cui si poteva ricevere in
cambio dei propri soldi un lungo bacio in bocca da uno di noi due!”
“Però
questa cosa dei baci è una roba sessista”, esclamò Erbafel, continuando
peraltro a scattare foto in modo compulsivo.
“Secondo
me c’è differenza tra sesso e sessismo. Così come c’è differenza tra imbecille
e imbelle.”
Il
ragionamento algebrico di Guy non trovò opposizione né in Erbafel, che continuò
a fare la superiore, né in Varagano. Il quale, non avendo più appigli, piazzò
il domandone finale.
“Progetti
futuri?”
“Se
ne avessimo, non saremmo qui a fare i musicisti, vivendo alla giornata tra un
tour e un disco, tra una serata al pub e una riunione tecnica per capire dove
trovare i soldi per l’affitto della sala prove…”
“Guy,
la domanda era sui progetti futuri come gruppo”, lo rimbeccai.
“Certo…
i progetti futuri. Tutta la trafila che abbiamo fatto finora, comprese la
serata al pub e la riunione tecnica per capire dove trovare i soldi per
l’affitto della sala prove. Possibilmente più in grande. E così via. Questa è
la nostra vita, questo vogliamo continuare a fare.”
La
sessione fotografica non durò più di dieci minuti. Erbafel non aveva voglia di
metterci a nostro agio e non ci dava alcuna indicazione. Noi stavamo lì e lei
scattava, in piedi eretta oppure chinandosi e allargando le gambe in modo
robotico ma reso comunque lascivo dalla sua innegabile bellezza.
Quando
ci riavviammo verso la Luna, Guy fece un verso gutturale simile a un conato di
vomito.
“Che
gente brutta”, commentò disgustato quanto lo ero io. “Il ragioniere
dell’hip-hop e la principessa sul pisello del teleobiettivo.”
“Però
li abbiamo cucinati per bene. Il nostro piano è filato liscio!”
“Come
l’olio! Ottimo lavoro, mia sola divinità sconsacrata! Due!”
“Dualità!”,
gridai, facendo rimbombare la mia voce nella struttura tubolare del parcheggio
sotterraneo.
Testo di Ljubo Ungherelli
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