Partirei dunque così: sulla vendita standard (dunque non a prezzo ridotto) di una copia di un disco,
il provento per gli autori è poco meno di un euro. Lordo. Se il gruppo è
formato da tre elementi che spartiscono democraticamente, fa poco meno
di un euro diviso tre a cranio. Al giorno d’oggi, a seconda dei periodi,
si può andare in classifica (intendo nei primi tre posti, non nei primi
venti o cinquanta) anche con soli 2500 pezzi venduti (avete letto bene,
non ho dimenticato nessuno zero). Potete fare la moltiplicazione e
rendervi conto del guadagno in termini di royalties. A gruppo e
a cranio. Se poi invece di 2500 capita che siano, per dire, 11.000 la
cosa cambia poco (solo i bombardoni che stanno on air, letteralmente
tanti mesi e sostenuti da tutte le radio e i network, volano più alto.
Ma capite bene quali sono i bombardoni e qual è il tipo di musica a cui
mi riferisco io in questo lungo discorso).
Credo sia triste che un
musicista di successo (quale io parzialmente sono, volenti o nolenti)
si debba ritrovare a scrivere certe cose: ma tant’è… Fra i commenti
letti mi sembra ben chiaro come certe informazioni siano quasi
necessarie. Qualcuno mi ha anche mandato a dire che ero poco onesto nel
non riportare “come stanno veramente le cose”. E allora ecco qua: le
cose stanno come avete letto. (Solo i cosiddetti big, dopo anni in cui
hanno potuto dimostrare di saper mantenere il successo e, per l’appunto,
diventare big, credo possano godere di qualche punto percentuale in
più: conseguenza di una cosa del tutto normale nel mondo del lavoro,
quale la contrattazione)
Conosco la contro-argomentazione: la
solita tiritera contro le multinazionali del disco e le loro vessazioni.
Le multinazionali hanno fatto molti sbagli. Alcuni probabilmente molto
gravi e in malafede. Ma secondo me è pure giusto tenere a mente che con
il senno di poi è sempre un po’ semplice giudicare. Penso sia plausibile
immaginare che l’avvento della tecnologia sia stato massiccio e
subitaneo: e allora si può comprendere la difficoltà di difendersi nel
modo più lungimirante possibile in poco tempo. Il percorso dell’umanità è
pieno di sbagli. Pensiamo allo sbaglio enorme che stiamo compiendo nei
confronti del nostro pianeta terra: avete idea di quanta gente, con
l’avvento delle prossime generazioni, si ritroverà (forse) costretta a
odiare tutti noi, incondizionatamente o quasi, per la nostra incuria e
mancanza di avvedutezza?
(E’ vero: negli anni d’oro le multinazionali
ci hanno guadagnato molto più che il giusto. Ma sarebbero da ricordare
allora, per equanimità, certi contratti in essere a tutt’oggi di cui
godono i big, stipulati in precedenza alla crisi del disco e ora del
tutto fuori mercato. Magari fra essi ci sono anche i beniamini
immacolati di qualcuno fra voi… In ogni caso: sono discorsi che a me
interessano molto poco. Guardo alla mia vita, non a quella degli altri. E
non tifo per le nemesi storiche di poca importanza)
E allora la
contro-argomentazione a questa contro-argomentazione diventa quella di
cui ormai si stanno impadronendo anche coloro che non conoscono la
realtà della musica indipendente: l’auto-produzione. Bene: io ho sempre dichiarato nelle nostre interviste che non mi sento un imprenditore.
Chi decide di auto-prodursi o è uno sprovveduto destinato a perdere un
po’ di soldini (come capita a chi non ha il talento dell’imprenditoria,
in qualsiasi campo. Ma magari, a pensarci bene, con la musica non ci
vive, e magari qualche soldino glielo gira pure papi) o è un
musicista-imprenditore. Allora si sappia che a livello di “immagine” ho
una totale predilezioni per l’artista ingenuo e incantato, il
musicista-musicista, che pensa con la sua testa per aria a come fare una
canzone nel modo più interessante possibile senza far calcoli di un
certo tipo su come confezionarla, rispetto a chi giocoforza creerà le
sue cose con, anche, l’assillo di non far fare una brutta fine ai soldi
che ha messo di tasca propria. Io rispetto totalmente chi ha il coraggio
di buttarsi nell’auto-produzione, ma ne chiedo altrettanto per chi ha
il coraggio di ammettere di non averne le qualità. (Per inciso: con
la auto-produzione le cifre di guadagno a copia credo rimangano
sostanzialmente simili, more or less)
Rientrando dunque nell’alveo
delle cose fatte con una discografica: non sempre si riesce a imporre
un prezzo, come qualcuno crede. Ma sarebbe carino aver la pazienza di
soffermarsi comunque sul dato numerico che ho fornito prima per poter
rendersi conto che in ogni caso la situazione è un po’ patetica.
Chi
dice che non ama farsi fottere senza aver ascoltato prima ciò che
comprerà, e che ora con la rete può farlo, o ha la memoria corta o non
sa che quando esistevano i negozi di dischi un rito piacevolissimo era
prepararsi una fantastica giornata di ascolti e scremature dal
negoziante di fiducia (amante, lui sì, della musica, e in genere ben
felice di far ascoltare condividendo), dopo aver passato giorni a
leggere recensioni sui giornali del cuore… Ecco: tutto ciò è morto. Ne
prendo atto, ma credetemi: era più bello, e i musicisti avevano più
tempo e motivazioni per fare dischi interessanti, non mega compressi e
tutti uguali come ora.
Al riguardo: il nostro ultimo disco di
inediti (“Ricoveri virtuali…”) è stato masterizzato come si faceva una
volta, senza la super compressione di ora. Suona più basso degli altri, e
al loro confronto sembra/è più debole di impatto: ma è più ricco
armonicamente. Ed è più vero. Ma sappiamo bene che questa è una scelta
rischiosa.
Ci sono altri che dicono: “La musica non è la discografia.
E’ la musica in sé, ciò che conta, non chi la fa”. Certo, volendo è
anche vero, ma il novanta per cento di ciò che finora ha riempito il
nostro cuore di un certo tipo di emozioni sono le composizioni col nome e
cognome degli artisti che l’hanno concepita, con la loro faccia e i
loro modi, le loro interviste e dichiarazioni, la loro disponibilità a
raccontare il processo creativo. E con i dischi distribuiti, su cui
leggere le note di copertina e le (in)formazioni. Vorrei divertirmi a
vedere l’umanità dall’oggi al domani invasa da una musica diffusa a
livello globale senza più facce, nomi, note di copertina, foto, una
trama immaginifico-narrativa entro cui far svolazzare i propri pensieri.
Un tutt’uno irriconducibile a nulla se non a essa stessa in quanto
successione di note; un pezzo indistinto dall’altro se non in quanto
pezzo fatto di atmosfere più o meno originali o più o meno simili.
Magari è ciò che accadrà, e la razza umana non avrà alcun problema a
convivere con questo nuovo ambito fatto di musica senza supporti e senza
facce (non è necessario che siano pop-star o icone)… Ma se accadesse
dall’oggi al domani e non nel corso di un processo sufficientemente
lento, come per tutte le rivoluzioni tecnologiche, che desolante
situazione sarebbe per la maggior parte di noi!
Ma dalle reazioni
ho capito quello che in fondo so bene: chi non segue la musica in un
certo modo ha come l’idea che vi siano sostanzialmente due categorie di
esponenti: i grandi nomi e i fancazzisti che ci provano. E dunque: i
grandi nomi sono quelli che guadagnano un sacco di soldi, per cui: di
che cazzo si lamentano? Mentre i fancazzisti… che si mettessero a
cercare un lavoro serio!
Esistono invece, miei cari lettori,
gruppi che danno tantissime emozioni a tanta gente e di cui i media
generalisti (italiani) non si occupano se non, al limite al limite, una
tantum (e che discorso approfondito ci starebbe qua, in paragone a
Inghilterra e America!). E questi musicisti… si fanno un gran culo.
(Chissà se devo sottolineare che noi siamo fra questi… Mi sa di sì)
Ovviamente
c’è chi la musica la segue in tutt’altro modo. Divertente che per molti
di questi i Marlene siano fin troppo famosi; e dunque: “Di che cazzo si
lamenta Godano?”. E’ così beffardamente complesso il mondo…La
vituperata Siae, infine. Se i dischi si vendessero, sarebbe la nostra
unica, modesta pensione. Ma la gente, così dimostrano molti interventi
dei lettori, tifa perché venga abolita…Enpals? Altra domanda, per
favore.
Mi fermo qua. Ho già preso troppo spazio: eppure quante
cose ho dovuto tralasciare! (Lo streaming, ad esempio, il cui concetto
alla base non mi piace e/ma con cui non ho ancora elasticità
intellettuale, per così dire… Mi costringerebbe a entrare nei meandri di
una riflessione laboriosa e lunga per poter immaginare di prevenire o
contemplare ogni prevedibile replica.
Ps1:
nella maggior parte delle rimostranze lette aleggia sinistro e scontato
il fantasma di vecchie ideologie mai dome alle nostre latitudini.
D’altronde siamo il paese che interruppe un concerto di De Gregori al
Palalido a Milano perché cercava di vivere con la sua musica,
guadagnandoci: gli fecero un processo pubblico… Questo mi procura una
tristezza sconfortante. Già: guadagnarsi da vivere con la propria arte.
Che male c’è?
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