Il concerto dei Foo Fighters è nella sua fase centrale. È in corso un francamente non troppo eccitante siparietto che Dave Grohl chiama “solo sections”: ogni membro della band viene presentato e dà l’abbrivio a una cover. Dopo perle inestimabili quali un mash-up tra la musica di “Imagine” di Lennon e il testo di “Jump” dei Van Halen, oltre a rifacimenti più standard di pezzi come “Under pressure” dei Queen e “Blitzkrieg bop” dei Ramones, è il turno del bassista Nate Mendel, che per fortuna fa obiezione di coscienza e si rifiuta di aderire alla sarabanda. Grohl allora domanda se vi sia qualcuno che voglia sostituirlo. Si pensa subito a una delle sue gag, che nelle precedenti date hanno portato sul palco bambini o altri personaggi improbabili. Invece si presenta nientemeno che Duff McKagan dei Guns N’Roses. “Sai fare un assolo di basso?”, gli domanda Grohl. Per tutta risposta, l’allampanato rocker di Seattle attacca il giro di “It’s so easy”. Questione di pochi istanti, e fanno la loro comparsa (da lati opposti del palco, ça va sans dire) anche Axl Rose e Slash, per un esplosivo featuring che segna il momento più significativo di questi quattro giorni, tanto da essere rilanciato su siti musicali e non di tutto il mondo.
Da quando l’autore di questo articolo frequenta i festival estivi italiani (vent’anni), essi a grandi linee si possono così caratterizzare: organizzazione non sempre impeccabile, location non sempre all’altezza e cast musicale quasi sempre di buon livello. La nascita del Firenze Rocks (che d’ora innanzi per amor di semplificazione sarà chiamato “il Rock”) già dalla sua prima edizione lo scorso anno ha cambiato le carte in tavola: organizzazione non sempre impeccabile (questo giro invero un po’ migliorata), location non sempre all’altezza (questo giro invero un po’ migliorata) e cast musicale di scarso livello. Non serve guardare ai festival europei, con i quali il confronto è impietoso. Basta scorrere le card dei vecchi e spesso bistrattati Gods of Metal, Jammin’ Festival, Independent Days e via discorrendo per rendere evidente la mediocrità e la povertà dell’offerta che “il Rock” serve a un pubblico pagante, e non poco, che al di là degli headliner non può che provare sconforto nell’approcciarsi alla kermesse fiorentina.
Per lo sventurato acquirente che a fine 2017 si è salassato per l’abbonamento nel pit a tutte le giornate, allorquando erano stati annunciati solo i quattro nomi principali più altri due, scoprire che a giugno 2018 non è stato aggiunto nulla di nulla fa decisamente scemare l’entusiasmo. Anzi, fa incazzare di brutto! Ad ogni modo, “il Rock” si apre giovedì 14 giugno. La Visarno Arena, in pratica il vecchio ippodromo del galoppo, vede alcune migliorie nell’allestimento di stand e servizi vari, o così almeno narrano le testimonianze raccolte sul campo. Chi scrive infatti ha impiegato la quasi totalità del tempo “recluso” nel pit, senza usufruire di bagni, casse per l’acquisto di cibo e bevande, merchandise e quant’altro. Riportare notizie di seconda mano non è il massimo della vita, dunque avanti con la cronaca. Il tempo d’incolonnarsi per i controlli di rito e, all’ingresso nel pit, i Wolf Alice stanno concludendo il loro concerto, che infrasentito da fuori e poi per pochi minuti effettivi lascia un pur minimo rimpianto per non aver anticipato l’arrivo in loco.
Il rimpianto, ben presto, si acuisce per non aver ritardato ulteriormente l’arrivo in loco. The Kills. Visti nel 2003 al Flippaut Festival di Bologna. Suonavano dopopranzo. A seguire, vi erano nomi del calibro di Turbonegro, The White Stripes, Queens of the Stone Age e Audioslave. Giusto per dare un’idea di cosa offrissero i festival all’epoca. Adesso, “il Rock” li promuove a ridosso degli headliner, senza che in questi tre lustri abbiano accresciuto di chissà quanto la loro notorietà in Italia. Rispetto alla predetta esibizione, hanno raddoppiato tutto quanto (oltre al prezzo del biglietto). Erano in due, sono in quattro, avevano un set di circa mezzora, qui ne hanno uno di sessanta minuti, e la rottura di palle è doppia. Giudizi tranchant a parte, non è questo il contesto ideale per cercare d’apprezzare la musica dell’ex duo. Molto più festival–oriented il circo rock’n’roll inscenato per due ore e mezzo dai Foo Fighters. Il sestetto nordamericano manda in visibilio i sessantamila della Visarno Arena. Il pit ribolle in un tripudio incessante, e presumibilmente anche nelle retrovie ci si diverte (sulla fiducia, essendo visibilità e potenza del segnale audio alquanto chimeriche a quelle distanze). Dave Grohl pare aver superato i problemi alla voce che lo avevano afflitto fino a pochi giorni addietro e dispensa in gran copia i suoi proverbiali strilli. Chitarra a tracolla, corre avanti e indietro e gigioneggia nelle pause tra un pezzo e l’altro, spesso con la complicità del batterista Taylor Hawkins. La scaletta combina una sorta di greatest hits degli oltre vent’anni di carriera del progetto “alieno” di Grohl con diversi estratti dall’ultimo album “Concrete and gold”, eseguiti col supporto di un trio di coriste. Giova sottolineare che un simile live set è perfettamente consona a una formidabile “macchina da singoli” che non sempre ha trovato continuità sulla lunga distanza del disco. La miscela tra hard rock anni Settanta, power pop e indie rock americano, con qualche residua scheggia punk hardcore funziona alla stragrande in sede di concerto, ed è difficile non farsi coinvolgere e negare che i Foo Fighters ricoprano con pieno merito un ruolo di primo piano nel rock di oggidì. Grazie anche, inutile nasconderlo, alla figura di Grohl, che da oscuro comprimario della dolente generazione X del grunge e dintorni ha saputo assurgere a icona, cucendosi addosso il personaggio della rockstar “buonista” che miete consensi tanto tra i fan quanto tra i colleghi. Frizzi e lazzi, finanche rutti, inframmezzano, e talvolta interrompono le varie canzoni, che comunque restano il fulcro dello show. “All my life”, “The pretender”, “Learn to fly”, “Monkey wrench”, “Breakout”, “Best of you” e “Times like these” sono classici ampiamente riconosciuti e celebrati da ovazioni che si levano già sulle note iniziali di ognuno di questi brani. A livello personale, è sempre un’emozione riascoltare, secondo e penultimo pezzo del bis, “This is a call”, che nel 1995 sancì l’incontro con la musica dei Foo Fighters. “Everlong” fa calare il sipario sulla giornata d’esordio del festival. Venerdì 15 giugno, “il Rock” non prevede grossi progressi a livello di midcarding.
Intorno alle 17 sono i Baroness a scaldare i presenti, peraltro già abbastanza grigliati dal sole cocente. Il combo stoner, la cui proposta si può assimilare, nei suoi episodi più immediati e d’impatto, a gruppi coevi quali Red Fang, soffre purtroppo di una resa sonora ai limiti della decenza e risulta pressoché impossibile godersi le rocciose cavalcate che tenta di sciorinare sulla platea. I Baroness senz’altro non si scompongono, avendo vissuto vicissitudini ben più tragiche di un impianto deficitario (qualche anno fa, un grave incidente stradale ha decimato la band e il suo entourage). Va un po’ meglio, con l’audio, ai danesi Volbeat, insigniti dello slot di diretto supporto agli headliner.
E va beh… Positiva l’oretta loro concessa, all’insegna di un rock alternativo che accorpa reminiscenze che si muovono su un asse che dal rockabilly/psychobilly anni Cinquanta si sposta verso il pop bubblegum del decennio successivo, rivisitato secondo i canoni dei suoi figli più degeneri come Ramones e Misfits. In formazione anche l’ex chitarrista degli Anthrax Rob Caggiano, il quale da buon italoamericano si esibisce con coppola in testa. “Italiani sempre rumore, sempre cantare chitarra e mandolino” (cit.). Qui niente mandolino, solo chitarra elettrica per il paisà. Cinque minuti dopo le venti, inizia a rombare una lunghissima intro che condurrà infine sul palco i Guns N’Roses. La rock’n’roll band più famigerata e selvaggia della sua era, e una delle più celebri di sempre, riporta in Italia il suo “Not in this lifetime tour” a un anno di distanza dal concerto di Imola. Di cui è stato scritto su questo blog, pertanto l’invito è a ripescare il report per le considerazioni generali che restano valide anche riguardo questa nuova calata nel belpaese. Rispetto a Imola 2017, da registrare una durata ancor più corposa, circa duecento minuti di concerto. Detta scelta comporta inevitabili risvolti negativi, quali i non sporadici fraseggi interlocutori che creano momenti di stanca non indifferenti. In particolare, un segmento di tre quarti d’ora o giù di lì, che tra cover, assoli, duetti chitarristici, senza contare l’esecuzione dell’interminabile “Coma”, rischia di sfiancare anche il sostenitore più accanito (e chi scrive è estremamente ben disposto nei confronti della band che a fine anni Ottanta lo ha iniziato al rock’n’roll).
Pesa inoltre sul risultato finale la prova canora di un W.Axl Rose pressoché afono, mentre a Imola aveva offerto interpretazioni degne della sua fama. Poco da dire, altresì, sulla qualità del repertorio e dell’esecuzione musicale e sull’efficienza di una band che appare anche un po’ meno “scollata” rispetto alle prime uscite di questa redditizia reunion a ranghi ridotti. Per il resto, da segnalare il ripescaggio di “Shadow of your love”, titolo incluso nel demo degli Hollywood Rose, antesignani di quelli che sarebbero divenuti i Guns, scelto come singolo promozionale della monumentale ristampa per il trentennale di “Appetite for destruction” e, sempre in tema di singoli, la cover di “Slither”, che a inizio millennio funse da apripista al debutto dei Velvet Revolver, supergruppo che includeva Slash e Duff, oltre all’altro ex Guns Matt Sorum, ed era completato dal carneade Dave Kushner e dall’indimenticato Scott Weiland (pure su questi temi trovate materiale nel blog di Riserva Indie).
I botti e i coriandoli di “Paradise City” concludono la festa. Ennesimo bagno di folla per i Gunners, secondo per “il Rock”. Ed è solo l’inizio. Anzi no! È solo metà…
Testo e Foto di Ljubo Ungherelli
Nessun commento:
Posta un commento