Torna il Romanzo d'Appendice sulle pagine del blog di Riserva Indie e lo fa con il nuovo libro di Ljubo Ungherelli, "Ultimo tour sulla Luna". Il romanzo è una grande satira del mondo indie italiano visto attraverso le vicende di una band, 2 Dualità, e del loro tour realizzato attraverso una campagna di crowdfunding. Qui sotto, sul player di Mixcloud, potete riascoltare la presentazione del romanzo di Ljubo nella puntata di Riserva Indie di Lunedì 1 Febbraio e, a seguire, tutti capitoli. Per scaricare in free download tutto il romanzo cliccate qui.
Capitolo 1
L’ebbrezza di viaggiare sulla
Luna
Con la coda dell’occhio la vidi che
armeggiava sullo smartphone. Fu quasi
un riflesso condizionato. Si era zittita di colpo da un paio di minuti,
interrompendo un monologo sullo stile architettonico a suo dire fumettistico
delle fabbriche che costeggiavano quel tratto d’autostrada. Prima ancora, stava
ammorbando l’abitacolo con l’ennesima sigaretta.
“Dicono qualcosa di noi?”, le domandai,
annoiato dallo scenario. Nel giro di qualche decina di chilometri, boschi,
montagne e gallerie avrebbero rimpiazzato in larga parte ciminiere, loghi di
cartiere e cementifici e campi incolti.
“Veramente ora stavo controllando altre
cose”, mi rispose lei sovrappensiero. Ma si riscosse all’istante. “Tu invece
cosa stai controllando? La strada o le smagliature del mio collant?”
“Tutti uguali voi uomini”, la imitai io,
canzonandola con uno dei suoi cavalli di battaglia che, a ben pensarci, poco le
si addiceva.
“Guida, Guy”, mi esortò con
indifferenza, prima di tornare a concentrarsi sullo schermo del telefono.
Alzai il volume dello stereo. I Violent
Femmes minacciavano di pubblicare un nuovo disco. Il repertorio classico aveva
sempre il suo fascino, però. Quando si chiudeva in sé stessa, non c’era che da
attendere che le passasse. Finché non decideva di estraniarsi dal suo
estraniamento, Vicni ed io eravamo due strade parallele. Due pianeti che
ruotavano attorno alla Luna. Due dualità a distanza di sicurezza.Gettai
uno sguardo al sedile accanto al mio. Ebbi l’impressione si fosse
smaterializzata. Era in realtà sprofondata; già era piccolina e in quelle
circostanze lo era ancor di più.
“Gioia,
tutto ok?”, mi azzardai a domandare.
“Carrie…
Dawson… I miei batuffoli di pelo. Chissà come staranno adesso. Tutti questi
giorni senza di me…”
“Li
hai lasciati a tua mamma, no? Se ne occuperà lei.”
“La
mamma non è stata in grado di occuparsi di non far andare via papà con
un’altra! Me li farà finire schiacciati sotto un camion! Accidenti a quando non
li ho affidati a qualcuno meno irresponsabile.”
“Non
devi preoccuparti, dai retta a me. O perlomeno, se ti preoccupi tu, io dovrei
avere attacchi di panico ogni cinque minuti se penso alla mia Sheena.”
“Sheena
è la regina della giungla?”
“No,
Sheena è una punk rocker. Oltre che una micia adorabile. E ho dovuto
alloggiarla a casa di mia sorella più grande, e soprattutto di quel bestione
del suo fidanzato. Io ti farei vedere il soggetto. Un bomber patentato che a
trent’anni passa ancora le giornate ai giardinetti insieme ai suoi degni amici.
Mia sorella non poteva che cedere al suo irresistibile fascino da avanzo di
galera. Povera Sheena. Il tempo di abbassare la guardia mezzo minuto e quello
me la scuoia viva e la vende a tranci ai cinesi.”
Si
accese un’altra sigaretta.
“Se
già il primo giorno fumi a nastro, tra una settimana qua dentro l’aria si sarà
solidificata. I tizi della Luna ci faranno un cazziatone quando gliela
riportiamo esalante nicotina anche dalle guarnizioni.”
“Quelli
là ci devono solo ringraziare”, sentenziò Vicni con la vocina pedante che
sfoderava per impartirmi grandi lezioni di vita. “Un gruppo famoso va a giro
sul loro pidocchioso minivan, su e giù per le strade di tutta Italia a
sbandierare la sigla ‘Autonoleggio La Luna’ che quei megalomani hanno
appiccicato davanti, dietro e su tutt’e due le fiancate, insomma gli facciamo
un casino di pubblicità, e vorrebbero aver da ridire per un paio di sigarette?”
“Fatina,
non credo la loro concezione di gruppo
famoso vada molto più lontano dei Pooh.”
“Problemi
loro. Facciano una ricerca su Google. Dovrebbero ringraziarci in ginocchio se
ci spostiamo a bordo di uno dei loro catorci”, insisté.
“Ci
spostiamo a bordo di uno dei loro catorci perché non ci possiamo permettere
nulla di meglio”, le feci notare, cozzando contro le sue sparate sul gruppo famoso. “E poi io ci sono
affezionato alla Luna. Si lascia guidare, ci puoi caricare tutto l’occorrente e
ci rimane un sacco di spazio vitale. Senza contare l’ebbrezza di viaggiare
sulla Luna!”
“Ma
quale ebbrezza. Io sono affezionata a quello che stiamo portando avanti
insieme. Ai risultati che abbiamo ottenuto finora. A chi sta credendo in tutto
questo.”
“Ci
stanno credendo perché tutte le cose che hai appena elencato funzionano. Perché
ne vale la pena. Perché nessuno ha mai osato proporsi con questa convinzione
come la risposta italiana ai White Stripes.”
“Anche
se noi con i White Stripes non c’entriamo un accidente!“Appunto.
Ma nessuno ci fa caso. I White Stripes sono finiti da secoli. La gente qui da
noi si ricorda il coretto, i mondiali di calcio, l’uomo e la donna. Il resto
sono dettagli. Il genere musicale, la strumentazione… dettagli, banalissimi
dettagli di nessun peso. Un paio d’ingredienti vagamente simili e puoi
convincere chiunque!”
Vicni
abbozzò un sorriso, per quanto non convintissimo. Con la sua testa corvina e le
stimmate dark disseminate in un corpo esile e minuto, piuttosto che la metà
femminile dei White Stripes, pareva una Christina Ricci poco più che
adolescente. Certe volte dubitavo avesse realmente ventisei anni.
“Beato
te che credi ciecamente in queste trovate di marketing da strapazzo”, aggiunse
poi, increspando il sorriso fino a trasformarlo in un broncio.
“I
fatti ci danno ragione. L’importante è dare al pubblico due o tre cosine di cui
parlare, su cui costruire un minimo d’immaginario. I White Stripes, nel nostro
caso, erano il punto di partenza. Da lì abbiamo tirato su il nostro universo,
restando in quella scia ma riuscendo a distinguerci. Tu per esempio suoni molto
meglio di Meg White. Io invece sono molto meno figo
di Jack White; però in compenso sono molto più scarso di lui come chitarrista. E poi…”
“E
poi essendo in due ci risulta molto più semplice trovare ingaggi per i live”,
cantilenò lei, interrompendomi. Di solito mi rinfacciava questa mia uscita nei
periodi di ristagno dell’attività concertistica.
“Preciso.
Al momento, la situazione dei locali italiani dove si suona dal vivo si
commenta da sé. Un gruppo come il nostro lo puoi proporre tranquillamente nelle
più svariate situazioni. Dal centro sociale al locale pseudofighetto in orario
da aperitivo. Due è il numero perfetto!”
“Però se tutti ragionassero così,
dovrebbe esserci molta più concorrenza. Fai conto che una band di quattro
elementi si sciolga. Dalle ceneri della band nascono un duo e un solista, e
mettiamo pure che il quarto si dedica ad altro. Se da ogni gruppo vengono fuori
altri due o tre progetti, sarà il caos più totale!”
“Eh? Cos’è, l’albero genealogico dei
falliti dell’indie italiano?! Di questo passo, il prossimo tour lo faccio con
una street band di otto elementi anziché con un’aspirante prof di matematica!”
Intanto,
la cartellonistica autostradale e il navigatore segnalavano che ci stavamo
avvicinando alla nostra destinazione. Il cielo era scuro e il clima aspro, ma i
nostri cuori battevano forte in previsione di ciò che ci attendeva.
“Questo
tour sarà radicale distruttivo!”, esclamai, vedendo un numero di chilometri
inferiore ai dieci sotto il nome dell’uscita che dovevamo imboccare.
“Mi
piace!”, fece lei di rimando. Era il suo grido di battaglia da stacanovista dei
social network. Alzò il pollice per
ribadire. Il suo smalto nero non rendeva l’idea del ditone celeste di Facebook,
ma per me andava bene.
Adoravo
quella ragazza. Le sue diecimila complicanze non m’impedivano di adorarla.
Quella storia dei White Stripes italiani, sì, era una forzatura, buttata lì per
farci pubblicità, per creare hype. Ma
io mi ero ormai convinto che potessimo in qualche modo ripercorrere le loro
orme, con le debite proporzioni all’interno di quel microcosmo musicale
ristretto di numeri e di vedute che era l’indie italiano.
E
chissà com’erano le tournée dei White Stripes agli esordi. Chissà di cosa
parlavano Meg e Jack durante gli spostamenti in furgone da una città all’altra.
Chissà se erano davvero (ex) marito e (ex) moglie che facevano finta d’essere
fratello e sorella, stratagemma che anche noi cercavamo di portare avanti.
Chissà se invece erano tali e quali a noi due.
Il
motore della Luna a pieno carico fece qualche rumore non granché rassicurante,
mentre scalavo le marce per uscire dall’autostrada e pagare il casello. Feci un
gran sorriso al tipo dietro lo sportello, che si guardò bene dal ricambiare.
Prese i soldi, mi dette gli spiccioli di resto e tirò su la sbarra. Tutto senza
dire una parola né degnarmi d’uno sguardo. Vicni non protestò perché avevo
scelto di perder tempo da quello zombi anziché usare la carta di credito in una
delle tante casse automatiche con l’ingresso a strisce blu sull’asfalto. Anche
lei sentiva l’adrenalina entrare in circolo. Il gioco stava per iniziare.
La
prima data del minitour italiano di 2 Dualità era in programma quel giovedì
sera a Genova.
Capitolo 2
Conoscendoti sarà una lunga serie
La
Luna approdò nello spiazzo buio e acquitrinoso che era il parcheggio sul retro
del Sandy’s, locale genovese che avrebbe ospitato il primo dei loro sette
concerti.
“Fermo
lì!”, intimò Vicni a Guy, il quale, sceso dal minivan, si apprestava a
dirigersi dentro. “Dobbiamo farci una foto di trionfo annunciato da condividere
su Instagram, Facebook e Twitter per ricordare al nostro pubblico che esistiamo
e stiamo per dare il via a un supertour!”
“Nemmeno
il tempo di sgranchirmi le gambe, che sono già chiamato al primo shooting di quella che conoscendoti sarà
una lunga serie?”
“Non
è il primo, sciocchino. Una foto l’ho
già condivisa un paio d’ore fa, cosa credi? Un bello scorcio di cavalli al
pascolo sul lato dell’autostrada. Bello ma sfocato. Ora prendi per l’orecchio
quel tipo appena uscito ciondolante dal locale, ficcagli in mano il mio smartphone e digli di farci una foto qui
davanti al furgone. E mettiamoci in modo da coprire quel cavolo di logo della
Luna!”
“Certo
sei proprio una professionista dello spam! E a livelli ossessivi!”
“A
ognuno il suo. D’altronde, voi uomini siete interessati più
che altro alla virilità. A me invece interessa la viralità!”
Erano quattro anni che il progetto 2
Dualità era in piedi. Guy all’epoca era appena diciannovenne ma, cresciuto in
un ambiente familiare con più musicisti che parenti, si era avvicinato
giovanissimo alle sette note e poteva già vantare una notevole esperienza in
vari gruppi di zona.
Una sera era stato invitato a provare
con una band di amici fresca di separazione dal bassista. Lui, che si dilettava
con diversi strumenti a corda, aveva accettato, e al momento di tornarsene a
casa era un membro effettivo del quartetto. Suonavano un indie folk che era
abbastanza in auge, e per questo nutrivano l’ambizione di emanciparsi dalla
loro nicchia provinciale, che gli consentiva comunque di suonare parecchio nel
circondario.
Fatto sta che quel gruppo, quattro anni
più tardi, era ufficialmente ancora attivo, benché i tentativi di allargare il
giro fossero stati vani e all’orizzonte non vi fosse null’altro se non un paio
di concerti al mese nei soliti posti dove si esibivano da sempre.
Viceversa, la sezione ritmica,
riscontrata un’intesa musicale e personale, aveva dato vita a quello che
inizialmente era un progetto parallelo “da cameretta”, che permettesse alla
percussionista e al nuovo bassista di sperimentare sonorità alternative a
quelle della band in cui militavano.
Guy e Vicni avevano così iniziato a
incontrarsi nella medesima sala prove del gruppo madre. Parlavano di gatti,
della frustrazione per l’inconcludenza del gruppo, di ciò che avrebbero
desiderato fare “da grandi” (ossia di lì a pochi mesi). E soprattutto
suonavano, alla ricerca di un’identità che li definisse.
Tante
erano le cose che li univano, quante quelle che li dividevano. Lei era umorale,
cinica, talvolta intrattabile per quanto sapesse essere dolce e comprensiva.
Lui cercava in modo finanche eccessivo di apparire cazzone, di non prendersi
sul serio, nonché di mantenere un contegno equilibrato, che però tradiva una
vivacità che, sovreccitata dall’alcol, tendeva a renderlo arrembante.
Il
nome che si erano scelti, 2 Dualità, ne inquadrava bene affinità e
contraddizioni. Lavorando tanto sulla musica quanto sui loro personaggi, erano
riusciti ad abbattere qualche barriera che all’altro loro gruppo appariva
insormontabile, in primis farsi conoscere fuori dalle mura cittadine. Pervasi
da una costante tensione emotiva, intellettuale e artistica, si erano evoluti
da piacevole passatempo ad attività primaria.
I
primi singoli, “La luna di ieri” e il lentone “Continua”, non erano passati
inosservati. Alcune webzine li avevano elogiati in sede di recensione, e una di
esse li aveva addirittura chiamati a suonare (seppure in uno slot di rincalzo) in una rassegna che
patrocinava ogni estate con discreto clamore mediatico.
I
due ragazzi, colti sulle prime alla sprovvista, avevano poi cavalcato l’onda
con disinvoltura. Concerti, interviste, la realizzazione dell’omonimo album
d’esordio, autoprodotto ma patrocinato dalla struttura che nel frattempo li
aveva presi in cura, e fungeva con i rispettivi referenti da etichetta
discografica, ufficio stampa e booking. Si trattava pur sempre di numeri esigui
in termini di vendite, ma erano numeri in crescita, e gli stavano procurando
una certa credibilità nell’ambiente cosiddetto indie. Credibilità rincarata da
un’assidua presenza live e social, col pubblico reale e virtuale tenuto sulla
corda dalla pubblicazione dell’EP didascalicamente intitolato “Gioco esteso”,
che raccoglieva i primi quattro singoli, “Asma cardiaca” e “Mangiatori di loto”
oltre a “La luna di ieri” e “Continua”.
L’imberbe
cantautore western con le pistole giocattolo legate alla vita e la camicia
sbottonata per metà, e al suo fianco la presunta sorella–amante, una psicotica
dark lady che univa a una scabrosa sensualità il talento di polistrumentista
non convenzionale. Funzionava, con buona pace dei pretestuosi accostamenti con
i White Stripes, peraltro fomentati da loro stessi.
Con
la pubblicazione del secondo disco, “Due di coppia”, il duo aveva deciso di
alzare ulteriormente l’asticella. Mentre fioccavano recensioni entusiastiche,
spesso manovrate dall’ufficio stampa, che a colpi di conflitti d’interesse
s’insinuava nelle redazioni per ottenere voti elevati ed elogi da critici
compiacenti, e i concerti erano numerosi, sia nei locali in primavera, sia in
sagre e festival estivi, 2 Dualità avevano lanciato una curiosa iniziativa: una
campagna di crowdfunding per portare
la band in tour per una settimana filata. Al bando i tautologici live del
weekend, baldoria venerdì e sabato e mortorio gli altri giorni: loro avrebbero
suonato ogni sera!
Come
prima mossa, i fan erano stati chiamati a votare via Facebook e Twitter il
luogo dove avrebbero voluto assistere a un’esibizione del gruppo, così da
localizzare sette zone d’Italia dove 2 Dualità avrebbero avuto terreno più
fertile per organizzare i concerti. A quel punto, era partito il crowdfunding vero e proprio: erano stati
creati sette “gruppi d’interesse locale”, ossia dei fan club virtuali nelle cui
casse era possibile donare i soldi necessari all’ingaggio della band in una
delle aree votate tramite il sondaggio sui social
network. Se anche una sola delle sette collette non avesse raggiunto il
100%, l’intero tour non avrebbe avuto luogo. Ma trattandosi di cifre non
esorbitanti, e orchestrando un efficace battage online, 2 Dualità erano
riusciti a raggiungere e superare l’obiettivo, coprendo in massima parte le
spese che avrebbero dovuto sostenere, incluso il loro cachet.
Naturalmente,
coloro che avevano finanziato il tour avrebbero ricevuto in cambio svariate
ricompense a seconda di quanto avevano versato. C’erano i premi più scontati e
banali, dischi, magliette e altri gadget, così come ingressi omaggio ai
concerti, fino alla cena assieme alla band prima del live. Non mancavano
neppure retribuzioni più originali, quali la possibilità d’essere riportati a
casa dopo il concerto a bordo della Luna (purché in un raggio di 20 chilometri
dal locale), o quella di salire sul palco per una non ben precisata
“performance estemporanea”. Gli amici degli animali potevano poi scegliere di
ricevere a domicilio una fornitura di cibo per gatti griffata 2 Dualità, il cui
logo veniva apposto su normalissime scatolette da discount.
Infine,
per cifre astronomiche, ai fan di sesso maschile era concessa l’opportunità di
godere di un lungo bacio in bocca con la lingua da parte di Guy. Allo stesso
prezzo, le fan di sesso femminile potevano ricevere analogo trattamento da
parte di Vicni.
A
domandare di chi fosse stata l’idea, ogni membro del gruppo e del suo entourage
ne avrebbe rivendicato la paternità: in realtà, il piano era stato messo a
punto in maniera progressiva col contributo di tutti. Vicni aveva apposto la
prima pietra, sostenendo che per il livello che avevano raggiunto, era il
momento giusto per giocarsi la carta del crowdfunding,
divenuto strumento basilare di sopravvivenza per gli artisti indipendenti,
privi del supporto di una discografia estinta al pari dei dinosauri e della
capigliatura mullet.
Il
“Tour sulla Luna”, com’era stato ribattezzato, partiva da Genova e doveva rivelarsi un successo. Dalle
riunioni che avevano tenuto nell’ufficio del management, era emerso che quel
breve giro di concerti aveva maggior rilievo rispetto al cruciale terzo disco,
che pure avrebbe dovuto rappresentare la loro consacrazione e al quale
avrebbero iniziato a lavorare nei mesi successivi.
Intanto,
là fuori era soprattutto un senso di desolazione ad avvolgere lo scenario. Guy
si riscosse al pensiero che di lì a qualche ora l’atmosfera sarebbe stata calda
e frenetica. La musica, la gente che ballava e beveva, le ragazze, e i ragazzi.
Vicni era invece assorta nella digitazione sul touch screen del suo prezioso cellulare.
Guy
le accarezzò la testa, com’era uso fare con la sua gatta Sheena. Distolta dallo
smartphone, fu pronta ad aiutarlo a
scaricare strumenti e quant’altro e portare tutto nel locale per montare il
palco.
“Due!”,
gridò, lanciando in aria la custodia della chitarra e riprendendola al volo con
studiata leggiadria.
“Dualità!”,
fece di rimando lei, e gettò in avanti il trolley
a guisa di palla da bowling. Quello, percorso qualche metro in linea nemmeno
troppo retta, si accasciò al suolo, in attesa che la proprietaria lo
raggiungesse e lo conducesse al sicuro in camerino.
Capitolo 3
L’imminente chiamata alle armi
Vicni
era alle prese col caffè. Per fortuna il bar del Sandy’s era in funzione. Non
di rado, si erano presentati in orario in locali dove non c’era neppure il
fonico al loro arrivo.
“Ciao!”,
si sentì gridare all’orecchio sinistro. Non c’era musica di sottofondo né altri
rumori, perciò quel tono era del tutto ingiustificato. Voltandosi in direzione
del seccatore, inquadrò un ragazzetto all’apparenza poco più che ventenne,
sorridente, rosso, lentigginoso, lo sguardo stralunato e una plateale faccia da
schiaffi. Vicni sapeva che fino a un certo limite doveva essere condiscendente
con gli addetti ai lavori. E uno che alle sette di sera imperversava in posto
lugubre e semivuoto, o lo era, o non aveva un cazzo da fare nella vita. O
entrambe le cose: una non escludeva l’altra.
“Piacere,
Vicni”, gli disse, accompagnandosi con una debole stretta di mano.
“Vicky?”,
domandò Vuligno, con gli occhi ancor più sgranati.
“No. Vicni”, ripeté lei.
“Certo,
Vicni. Io sono il direttore artistico del Sandy’s, faccio la programmazione
delle serate, quest’anno sicuramente…”
“Hai
partecipato anche alla campagna di crowdfunding”,
lo interruppe con voce neutra. Sospettava che quello lì non avesse la benché
minima idea di chi fossero 2 Dualità. La data, in effetti, era stata chiusa con
la semplicità con cui un gruppo abbastanza noto si propone senza richiedere un
compenso, pagato in anticipo dai fan tramite l’azionariato popolare. A lui,
invece, si doveva senz’altro la brillante pensata di un coheadlining con un gruppo della città. Infatti non mancò di
ascriversene i meriti.
“Sì,
sì…”, cincischiò, salvo poi risollevarsi grazie alla parlantina da
teleimbonitore sotto anfetamine. “Stasera mi piaceva l’idea di abbinare colori
diversi, sfumature diverse. Per questo ho chiamato gli Agnelli Tonnati,
sicuramente li conoscerai, almeno di nome, sono tra i migliori nel pop
d’autore, quello che si rifà alla famosa scuola genovese. Ancora non sono
riusciti a farsi conoscere a livello nazionale, ma qui sono sicuramente dei
campioni!”
“Tu
invece non sei di qui”, lo interruppe ancora Vicni. Le sue
chiose glaciali non avevano però il potere di smontare Vuligno, che proseguì
con l’impeto di un fiume in piena.
“Si
sente dall’accento, vero? Vengo dalle Marche, dall’entroterra marchigiano. Non
ti sto nemmeno a dire il nome del paesino dove sono nato, non l’avrai mai
sentito prima d’ora. Ma non sono il classico studente fuorisede come puoi
pensare.”
E
Vuligno prese a descriverle le vicissitudini che l’avevano portato a
trasferirsi a Genova. Avrebbe potuto riassumere all’osso dichiarando che aveva
seguito una ragazza conosciuta in vacanza sul litorale marchigiano e, non
volendosi lei giustamente andare a rinchiudere in un borgo sperduto tra
Macerata e il deserto dei tartari, era stato lui a doversi spostare. Ma preferì
prenderla larghissima, partendo dai suoi nonni, contadini illuminati che
quand’era piccolo lo portavano tutta l’estate al mare, in una zona che a suo
dire non aveva nulla da invidiare alla più celebrata riviera romagnola.
Nel
frattempo, Guy aveva trasbordato la strumentazione sottopalco e stava
parlottando col fonico. Vicni invocò dentro di sé l’imminente chiamata alle
armi, cioè al soundcheck, ma nulla si muoveva e rimase in balia del logorroico
promoter. Oltre alla stucchevole abitudine di fare le domande e darsi le
risposte da solo, Vuligno assalì Vicni con una miriade di profferte. La
benedizione sopraggiunse con l’entrata in scena degli Agnelli Tonnati, che alla
spicciolata fecero la loro apparizione nella sala concerti. Vuligno si fiondò
al loro capezzale, non prima d’aver ripetuto per la ventinovesima volta che se
Vicni abbisognava di qualcosa, bastava chiedesse a lui.
“Così
di primo acchito, il fonico non promette nulla di buono”, le sussurrò Guy,
avvicinandola mentre il resto del Sandy’s era dedito a stendere ponti d’oro al
passaggio degli Agnelli Tonnati.
“Tossico?
Alcolizzato? Sessuofobico?”, domandò Vicni.
“La
due e la tre, molto probabili. Il problema più grosso, però, è che non pare
granché collaborativo.”
“Non
ha voglia di fare un cazzo”, tradusse lei.
“Ho
paura di sì. È il classico ligure sfavato, con addosso tanta di quella
rassegnazione al destino che nulla può smuoverlo. Il ricciolino, che dice?”
“Troppe
cose, e nessuna interessante. Appena i fenomeni avranno portato dentro la loro
roba, noi potremmo iniziare il check, così poi ce ne andiamo a cena. Abbiamo
due dei nostri fan che hanno scelto come ricompensa il pacchetto ‘cd
autografato+ingresso omaggio a un concerto+cena preconcerto insieme alla
band’.”
“Solo
due? Sbaglio o ce n’erano di più?”, si stupì Guy, che demandava in massima
parte le pubbliche relazioni telematiche alla collega.
“Sarebbero
stati cinque. Ho provato a contattare gli altri tre. Una non ha risposto, un
altro ha detto che non ce la fa per cena ma arriva direttamente per il
concerto, il terzo non può venire perché è malato e ci fa gli auguri.”
“Ci
fa gli auguri di ammalarci anche noi? Grazie tante! Io mi tocco… A che ora gli
hai detto di venire a quei due della cena?”
“Le
otto e mezzo… ma gli ho consigliato di prendersela comoda.”
“Mi
sai che hai fatto bene, tesoruccio. Sì?”
Furono
convocati a rapporto da Vuligno. Si radunarono più o meno in cerchio. Oltre al
giovane direttore artistico, c’erano il fonico, che sprigionava l’entusiasmo di
una larva dentro un sarcofago, e i quattro componenti degli Agnelli Tonnati.
Sbrigate in fretta le presentazioni, Vuligno venne al dunque.
“Bene
ragazzi, ci sarebbe da decidere chi suona per primo.”
“Mi
sembrava che fosse stato deciso da un pezzo”, disse con la massima calma Vicni.
Seguirono alcuni istanti di imbarazzato silenzio.
“Sì,
cioè…”, riprese Vuligno, per una volta non sostenuto dalla sua irruenza
retorica. “Gli Agnelli Tonnati pensavano che sarebbe meglio se loro suonano
dopo di voi.”
Con
abilità da medaglia olimpica nello sport nazionalpopolare dello scaricabarile,
Vuligno aveva mollato la patata bollente in mano ad altri. Fu diabolicamente
abile a sfilarsi dal resto del conciliabolo.
“E
perché?”, si limitò a chiedere Guy.
“Belìn, noi qui a Genova siamo gli
animatori della festa, ogni concerto è un’esperienza mistica. E mitica. E il
nostro pubblico è una parte importante della festa, non se la perde mai. Belandi, se suonate prima di noi, ci
sarà tutto il nostro pubblico a vedervi. Invece, se apriamo noi, c’è il rischio
che il nostro pubblico poi va via e non rimane quando tocca a voi suonare. Per
questo abbiamo pensato questa cosa.”
Ezio
Dell’Ultimo, in arte Ulvezio, era il cantante, frontman e leader degli Agnelli
Tonnati. Per essere un animatore di feste, era sfavato quasi al livello del
fonico. Portava gli occhiali, era tarchiato e aveva una fisionomia anonima,
dozzinale, benché cercasse di atteggiarsi a bel tenebroso. Si era sfilato la
giacca e la teneva sottobraccio, scoprendo così una spiegazzata camicia da viveur che, c’era da giurarci, sarebbe
stata la sua divisa da concerto.
“Sai
che non hai tutti i torti? Però se suoniamo prima di voi, c’è il rischio che
tutta la gente inorridita scappi via e non rimanga nessuno quando tocca a voi
suonare”, se la rise Guy, fingendo di voler sdrammatizzare. In realtà,
preferiva parlare lui, sapendo che un’uscita fumantina di Vicni era dietro
l’angolo e avrebbe solo aggravato la situazione.
“No,
macché, siete bravissimi voi, lo sappiamo…”, balbettò Ulvezio, colto alla
sprovvista dal basso profilo tenuto dal cantante del gruppo cui voleva far le
scarpe. Quest’ultimo ne approfittò per colpire di rimessa e stroncare le
flebili argomentazioni del rivale.
“Noi
andiamo a fare il check”, concluse asciutto Guy, allontanandosi assieme a
Vicni. Nessuno tentò di controbattere. Primo round vinto.
Come
paventato, il soundcheck fu un martirio. Ogni richiesta al fonico pareva
un’offesa personale, atta a ledere il suo indefesso fancazzismo. Impiegarono
un’ora prima di lasciare il campo agli Agnelli Tonnati, che in quanto gruppo
d’apertura erano di prassi gli ultimi a fare il soundcheck.
Il
pop rock degli Agnelli Tonnati era contraddistinto, oltre che da sonorità
leggere da canzonetta dell’estate, da una vena ironica nei testi, che erano
sostanzialmente storie d’amore descritte in chiave adolescenziale e nostalgica,
sempre appunto con quel pizzico di leggerezza che ricercava con insistenza il
tormentone. Ricerca che proseguiva, dato che per il momento la band genovese
non pareva avere in repertorio una sola canzone che potesse assurgere a
singolo. Tutto era piatto, dai giri armonici ai ritornelli, fino alla voce di
Ulvezio. Se ne sentivano a decine, di cantanti impostati in quel modo, col tono
basso da crooner che si apriva, ma
non più di tanto, durante i refrain.
“Guy,
sono arrivati i ragazzi della cena”, annunciò Vicni, ricomparendo al suo fianco
dopo un buon quarto d’ora.
“Arrivo!”,
esclamò sollevato lui, ponendo fine all’ascolto delle prove degli Agnelli
Tonnati. Già le canzoni erano tutt’altro che memorabili. Seguirli che facevano
i suoni rasentava il masochismo.
Guy
sorrise andando incontro ai due ragazzi, che evidentemente si conoscevano tra
loro. I loro nickname sulla
piattaforma di crowdfunding erano “Il
custode del faro” e “Il custode del faraone”. Si presentarono altresì come
Ormezio e Urmezio. Erano entrambi gracili e macilenti, sebbene millantassero di
lavorare come portuali. Amici e colleghi, nonché fan di 2 Dualità. Vicni, che
era la regina della comunicazione social,
lasciò che fosse Guy a tener banco.
“Belli!
Fatevi dare un bacio!”, esordì sfoderando il suo fascino di aspirante rockstar
con un’innata fiducia nei propri mezzi.
“Allora,
si mangia?”, incalzò ancora, rivolto però a Vicni.
“Se
ero la tua cuoca personale, mi ero licenziata prima ancora di mettere i coperti
in tavola”, ribatté lei.
“Se
eri la mia cuoca personale, ero ricoverato in ospedale con seri principi
d’avvelenamento”, sparò lui per offrire una battuta a effetto ai nuovi
arrivati.
Richiamati
dall’odore del sugo di pomodoro, lo seguirono fino a una sottospecie di privè. La qualità del cibo era giusto di
poco superiore a quella delle mense militari o degli ospedali. Guy tergiversò a
lungo, muovendo la forchetta a vuoto sopra il piatto, e perché non molto
stimolato da ciò che vi era dentro, e per chiacchierare con i fan.
Guy
e Vicni se la svignarono non appena gli Agnelli Tonnati fecero capolino.
Ormezio e Urmezio rimasero imbambolati, indecisi sul da farsi. Infine seguirono
i musicisti nell’area fumatori. Mancava ancora tantissimo tempo prima
dell’inizio della serata. Guy era di buonumore, merito anche dell’alcol
ingollato durante il pasto.
“Sarà
un concerto radicale distruttivo, ve lo promettiamo! Grazie di esserci,
ragazzi, il vostro sostegno è la nostra linfa vitale!”
E
li strinse a sé, ciascuno con un braccio. Il tutt’altro che corpulento Guy
pareva un colosso in confronto a quegli scriccioli sedicenti scaricatori di
porto.
Capitolo 4
Nella bolgia dei nuovi idoli
adolescenziali
“Hanno
finito, grazie al cielo in terra.”
Il
sollievo di Vicni era comunque distratto dalla contemplazione compulsiva dello smartphone.
“Duecentododici
partecipanti confermati”, mormorò scorrendo la pagina dell’evento su Facebook.
“Quanta gente ci sarà stata in sala mentre suonavano gli Agnelli Tonnati? Una
sessantina?”
“Più
o meno”, concordò Guy. “E una ventina fuori a fumare. E quelli che devono
ancora arrivare. E quelli che arriveranno dopo che avremo finito.”
Si
erano rintanati in camerino dopo aver seguito metà abbondante del concerto
degli Agnelli Tonnati. Il Sandy’s non era enorme, cosicché il colpo d’occhio
era lusinghiero anche con un’affluenza non da tutto esaurito.
Ulvezio,
come prevedibile, si era esibito con la medesima camicia che aveva a inizio
serata. Solo gli occhiali erano spariti. Per il resto, cercava di gigioneggiare
tra un brano e l’altro, raccontando storielle sconnesse dalle canzoni che
precedevano e seguivano i suoi monologhi. L’esecuzione di tutta la band,
invece, era piuttosto formale e didascalica.
Il
problema degli Agnelli Tonnati era l’esasperato adeguamento ai dogmi dell’indie
tricolore: suonavano, cantavano e somigliavano ad altri triliardi di gruppi e,
cosa peggiore, non avevano nulla che li facesse spiccare. Facevano bene il loro
compitino, intrattenevano il pubblico e fine.
2
Dualità, paradossalmente, soffrivano del problema opposto. La loro miscela
d’influenze era fin troppo eclettica, tanto che il management spingeva perché
definissero il sound in una direzione meglio delineata. E tale direzione avrebbe
preferibilmente dovuto esser più confacente agli ascolti basilari del pubblico
indie.
Partendo
dal garage rock’n’roll più essenziale, Guy e Vicni avevano iniziato ad arricchire
le composizioni con uno spruzzo di folk danzereccio che tanto andava nelle
feste universitarie, rivestito da una patina electro, grazie alle tastierine
synth lo-fi e ai campioni che Vicni manovrava unitamente alle bacchette della
batteria.
A
decretare la loro maggior fortuna, tuttavia, era stato senz’altro l’innesto di
furbeschi ritornelli melodici, retaggio della migliore o peggiore tradizione
del pop italiano da classifica. Guy si divertiva un sacco a scrivere in quel
modo, gli riusciva facile e non aveva remore nell’esplorare un mondo che né lui
né nessuno nella sua famiglia o nel suo giro aveva mai apprezzato più di tanto.
Non
a caso, le recensioni si focalizzavano su quell’aspetto: due righe sulle
sonorità sgangherate e vagamente vintage,
sugli intrecci di voci maschile e femminile, quindi partiva il florilegio sul
potenziale “da classifica” di alcuni pezzi, uno su tutti “Quasi uguali quasi
diversi”, che aveva beneficiato di svariati passaggi radiofonici e figurava in
qualche dj set alternativo.
Spesso
veniva adombrato il ragionamento secondo cui, con i debiti aggiustamenti e una
produzione di un certo tipo, 2 Dualità avrebbero potuto lanciarsi a capofitto
nella bolgia dei nuovi idoli adolescenziali che si davano il cambio ogni tot
mesi. Quella strada, in Italia, passava soprattutto per i talent show. Ne avevano discusso, non escludendo nulla. La
barzelletta dell’indie italiano era proprio l’essere underground per necessità
e non per convinzione, pronti a tutto per saltare sul carrozzone qualora ve ne
fosse l’opportunità.
Il
riflusso che dai tardi Ottanta alla prima metà dei Novanta aveva condotto alla
situazione degli anni Dieci del nuovo millennio era impressionante: in Italia,
il sottobosco musicale era dominato da gente che suonava tale e quale a chi
stava nel mainstream. Quasi nessuno si azzardava a proporre sonorità meno
standard, e chi lo faceva, era bacchettato come anacronistico e bisognoso di un
rapido svecchiamento per destare l’interesse del pubblico. Gli unici in grado
di sopravvivere erano i nomi già affermati da anni, il cui status gli
consentiva di campare di rendita delle glorie passate. Se viceversa mettevi su
una band nel 2016, o facevi indie o cantautorato o avevi le gambe segate.
“Per
sempre! O finché dura!”, esclamò Guy. Erano pronti a salire sul palco. Già da
qualche ora vi avevano apposto il loro fondale, un drappo nero col nome del
gruppo scritto in caratteri dorati. Alle estremità stavano le teste di due
gatti, ciascuno di profilo rivolto verso l’interno, con le fauci spalancate,
come fossero in procinto di papparsi 2 Dualità in un sol boccone.
Proseguendo
nel rituale, porse entrambe le mani a Vicni, che gliele strinse, quindi ne
lasciò libera una. Mano nella mano, senza quasi rendersene conto si ritrovarono
di fronte al pubblico.
“Ehi!”,
esordì Guy a mo’ di prova microfono. Quindi imbracciò la chitarra e senza
ulteriori cerimonie si girò verso Vicni e attese che lei battesse il tempo con
i quattro canonici colpi di bacchetta.
La
lunga permanenza in camerino gli era servita anche per cambiarsi e indossare i
vestiti di scena. Guy si era portato dietro una camicia diversa per ognuno dei
sette concerti. Al Sandy’s di Genova ne sfoggiò una di seta rossa, con solo il
bottone più in basso attaccato, di modo da scoprire il torace rifinito e
bianco. A ventitré anni era glabro come un dodicenne. Il suo look da uomo
vissuto intrappolato nel corpo di un ragazzino piaceva alle ragazze, e la sua
posizione di frontman lo avrebbe senz’altro agevolato in tal senso.
In
testa aveva un improbabile cappello da cowboy, calato stretto sulla fronte
temendo gli cadesse mentre suonava. Sotto, pantaloni neri di pelle attillati.
Ne aveva visti portare di simili a Jon Spencer e Courtney Love.
Vicni,
che sedeva alla sua sinistra, per il debutto aveva optato per uno dei tre look
che avrebbe alternato durante il tour. Nient’altro che una corta sottoveste
nera; spalle, gambe e decolleté erano ben in vista. Le scarpe col tacco non
erano il massimo per suonare la batteria, ma ormai c’era abituata. Il trucco
era abbastanza ordinario, nero intorno agli occhi e rosso fuoco sulle labbra.
Suonarono
tre pezzi senza soluzione di continuità, quindi fecero una pausa. Guy si tolse
il cappello, facendo al contempo un inchino al pubblico che li stava
applaudendo, quindi si rassettò i capelli con la mano. Vicni si alzò dal suo
sgabello e lanciò degli sguardi conturbanti in direzione delle prime file, che
pure si tenevano a distanza di tre–quattro metri dal palco.
Riattaccarono
con intensità ancora superiore. Avevano impostato la scaletta di modo che i
cinquanta minuti di concerto fossero un ottovolante di ritmi e atmosfere. Con i
primi due brani erano andati in crescendo, pigiando sul lato più rock’n’roll,
per poi piazzare un ballabile elettronico e, a seguire, un episodio più smaccatamente
pop e una disorganica ballata lo-fi, “Asma cardiaca”, dove la vocina squillante
di Vicni si elevava a cantante principale, mentre il comparto strumentale era
costituito da ukulele, tastiera e un quasi impercettibile loop di batteria
elettronica.
Come
ovvia logica commerciale, avevano proposto canzoni per lo più da “Due di
coppia”, concedendo meno spazio al disco d’esordio.
I
presenti avevano applaudito, con compostezza, restandosene per lo più fermi, a
parte chi andava e veniva da bar e/o area fumatori. Ordinaria amministrazione
in situazioni del genere.
“Quasi uguali quasi diversi” era posizionata
al terzultimo posto, una sorta di chiusura del set regolare prima dell’uscita e
del ritorno per il bis. Guy aveva prolungato la coda strumentale in stile anni
Settanta. Vicni l’aveva seguito in quella sorta di jam, fino al dissonante
feedback conclusivo. A quel punto, anziché salutare e tornare dietro le quinte,
2 Dualità avevano proseguito con ciò che restava della scaletta.
“Continua”,
una ballata piano e voce che mostrava il lato più romantico del Guy
compositore, era sfumata nei power chord
del pezzo che portava il loro nome. Vicni doveva frettolosamente suonare le
ultime note di “Continua” e rimettersi in posizione per quell’ultima, poderosa
cavalcata. “2 Dualità” rappresentava l’impeto del progetto agli esordi, la
rabbia quasi violenta per demarcare le differenze col loro gruppo indie folk.
Eppure, già in quell’embrione deflagrava la sagacia di Guy nell’inzuppare un
brano punk in una melodia cristallina.
Con
Vicni di nuovo in piedi, sexy e ammiccante, e Guy che sorrideva con candore,
tenendo la chitarra dritta parallela al corpo, 2 Dualità incassarono l’ultimo
applauso. Ogni volta la botta d’adrenalina era micidiale. Rincularono nel
camerino barcollando, accaldati e stanchi. Si scambiarono uno sguardo d’intesa,
soddisfatti e pronti a ciò che rimaneva della serata.
Il
tempo di darsi una rinfrescata, che uscirono per allestire il banchetto del
merchandising e incontrare i fan. Al solito, fu Guy ad andare in avanscoperta,
mentre Vicni si attardava sempre qualche minuto in più nel backstage.
Lo
raggiunse nell’anticamera del Sandy’s dove, con una buona illuminazione e il dj
set ovattato, birra alla mano, era già dietro al tavolino imbandito con dischi,
magliette, spille, adesivi e scatolette di cibo per gatti.
Prima
di lei, però, si precipitò un ragazzo ad approcciarlo.
“Grande Gài, complimenti!”, gli disse il tipo, porgendogli la mano.
“Ghì”,
replicò compostamente, ricambiando la stretta di mano, “alla francese, come Guy
Pardies, hai presente?”
“Gerard Guypardies”, chiosò Vicni, incombendo alle spalle del fan con quel calembour privo di senso.
“Eh?”, fece quello, girandosi in
direzione della ragazza.
“Poppa”, poté leggere lei sulle labbra
di Guy. Sorrise, e il tipo, ignaro di tutto, credette forse fosse rivolto a
lui.
“Seratona!”, riprese Guy con entusiasmo,
catturando di nuovo l’attenzione del ragazzo, “e come si suol dire, è solo
l’inizio! Dimmi un po’, sei di Genova o arrivi da fuori?”
Capitolo 5
Gridava al culto dell’oscurità
Il
Down By Law di Madonna dell’Acqua, un paesino sperduto nei dintorni di Pisa,
era il classico posto che più lo cerchi, meno riesci a trovarlo. Invisibile
dalla strada, ci si arrivava prendendo una viuzza sterrata che pareva portare a
un terreno agricolo, mentre finiva davanti all’edificio solitario che era la
nostra destinazione. Non male come scenario del nostro secondo concerto. Con
gran sorpresa, dato che non avevamo mai suonato da quelle parti, Pisa era stata
tra le zone più votate dai nostri fan per essere inserita nel tour sulla Luna.
E infatti, al momento di trovare la location, c’eravamo resi conto del perché
non avessimo mai suonato da quelle parti: le situazioni adatte erano
pochissime.
Il
mio amuleto portafortuna, il mio fratellino Guy scese dalla Luna saltellando
tutto contento. Era un contrasto buffo, pareva un bambino appena sbarcato al
parco divertimenti, piuttosto che un ragazzo indiscutibilmente maturo arrivato
a suonare in uno scenario lugubre a dir poco.
“Fo-to! Fo-to!”, cominciò a canticchiare,
dato che ancora non avevo ordinato l’autoscatto da condividere sui social network come primo promemoria del
concerto che avremmo fatto di lì a poche ore.
“Troppo
buio qui. Facciamone una dentro. Sperando ci siano delle luci. Vista da fuori
pare una casa disabitata da secoli.”
Se
da fuori esprimeva tetraggine, l’interno del Down By Law gridava al culto
dell’oscurità. La stanza d’ingresso aveva i muri color rosso sangue. In un
angolo, un unico lume diffondeva una luce fioca, incastonato in una specie di
tabernacolo profano, incorniciato d’oro e delimitato da due statuette che
raffiguravano delle streghe o comunque delle creature fantasy maligne. Iniziavo
a pensare che, nel bene e nel male, ci trovavamo in un locale fuori dagli
schemi triti e asettici dell’indie.
“Ricorda
il nostro logo”, suggerì Guy, avvicinandosi alla luminaria. “Le streghe al
posto dei gatti, la luce dove c’è il nome…”
“Il
top sarebbe sradicarlo e metterlo stasera sul palco!”
“Buonasera”,
c’interruppe una voce maschile proveniente dalle nostre spalle. L’uomo appena
entrato era meno caratteristico del posto di cui ci disse essere il capo. Anzi,
più che un impiegato del catasto non avrebbe potuto apparire. Era tozzo, col
cavallo basso e il torace sformato. Calvo, con pochi capelli grigi intorno alle
orecchie e sopra il collo. Non si faceva la barba da qualche giorno, a
giudicare dall’ispida peluria bianca che gli era cresciuta sul viso. Una
quarantina d’anni portata maluccio. Aveva un odore strano, pungente, e parlava
mangiandosi le parole, piegando la bocca verso destra come in un tic.
Seguimmo
Lamporecchioni oltre la porta sistemata perpendicolare a sinistra rispetto a
quella donde eravamo entrati. Facemmo qualche metro in un cunicolo
completamente buio prima d’entrare in una nuova stanza, illuminata con dei neon
molto potenti, simili a luci d’emergenza. C’erano tavolini, sedie e divani,
tutto in nero. Sui divani erano sedute quattro ragazze, scosciate e vestite
provocanti. Avevano poggiato borsette, pacchetti di sigarette e telefoni sui
tavolini. Non calcolarono nessuno di noi tre. Guy, che camminava dietro il
gestore e davanti a me, si voltò e alzò il sopracciglio. Non capii se fosse un
verso ironico, meravigliato o di preoccupazione.
“Per
quella porta là in fondo si sale di sopra”, ci spiegò Lamporecchioni, indicando
un passaggio fatto con una volta in muratura del tutto stridente col design
moderno del salotto del Down By Law. “Potete usare la vostra camera come
camerino perché un camerino vero non c’è. Il bagno è sul piano, e durante la
serata lo può usare anche il personale.”
“Grazie,
andiamo subito a prendere la nostra roba in furgone, la portiamo su e poi
iniziamo a montare il palco”, disse Guy, ordinando il dietrofront.
Lasciando
aperta la portiera, si sedette sul bordo del posto del conducente, imitando la
posa di una delle ragazze che c’erano nella stanza. Gambe accavallate, testa
reclinata di tre quarti all’indietro, mani intrecciate, sguardo enigmatico e
lingua che andava avanti e indietro lungo le labbra.
“Escort
d’alto bordo?”, gli domandai.
“Alto
non direi proprio. Avranno una tariffa standard. Il che comunque significa che
stasera guadagneranno più di qualunque gruppo indie in un mese di concerti ogni
venerdì e sabato.”
“Ma…”,
non mi venne nulla da aggiungere. Lui capì e tradusse.
“Cosa
ci fanno qui? Probabilmente l’ominide vuole unire l’utile al dilettevole. Anche
se non sembra, è un appassionato di club
culture e tendenze musicali alternative, che però non gli garantiscono
entrate sufficienti, sicché ha messo su un giro di troie per arrotondare e
tenere alto il vessillo dei concerti e delle discoteche più emancipate!”
“A
me sembra più un pappone che usa il locale e la musica come copertura per la
sua attività principale.”
“Sei
sempre la solita malpensante. Quello è un insospettabile cultore di new wave,
techno pop, dub, e poi EDM, EBM, CGIL, ANAS, AIDS… Le ragazze fanno parte del
suo piano di rilancio culturale. Ed io sono orgoglioso di contribuire a questo
rilancio! Guarda, ora aggiorno il mio status su Facebook: ‘Stasera 2 Dualità in
concerto al Down By Law di Madonna dell’Acqua. Seconda data del nostro tour
sulla Luna. E chi non viene, ha sicuramente più possibilità d’andare in bianco
rispetto a chi viene!’ Quello là si merita un monumento nella piazza del
paese!”
“Quello
là entro fine serata cercherà di strofinarmi le palle sulla batteria, per
vedere se tra un colpo e l’altro avanza qualcosa pure per lui, altro che.”
“Se
ci prova, gli strofino io qualcosa su quel muso di ciuco”, s’incupì
all’improvviso con tutta la serietà che gli riusciva di racimolare.
“Guy,
non sei credibile come maschio possessivo. Torna a sederti nella posa da
escort.”
“A
proposito di escort: pensa che bello, stanotte dormiremo stretti stretti in un
romantico letto a baldacchino dove di solito i più lerci puttanieri si sfogano
con quelle valchirie del sesso a pagamento che il buon Lamporecchioni gli mette
a disposizione!”
“Io
non dormivo stretta stretta nemmeno coi peluche da bambina, Guy.”
“E
non a caso sei diventata quel che sei diventata…”
Sbrigammo
il check abbastanza agili, tanto che eravamo una ventina di minuti in anticipo
sull’orario previsto per la cena. Eravamo quindi liberi fino al momento del
concerto. Liberi al punto che, nemmeno il tempo di bere una cosa al bar, mi
voltai e vidi che Guy era stato abbordato da una delle lavoratrici del Down By
Law.
Mi
appoggiai al bancone per seguire la scena. Guy era troppo preso nella sua parte
di ambasciatore di 2 Dualità per liquidarla. Quando suonavamo in giro, cercava
di prestare attenzione a qualunque persona lo approcciasse. Raccontava storie,
s’interessava dei suoi interlocutori, faceva domande, e sorrideva di continuo.
E del resto, non aveva motivo di star lì in attesa che lei gli proponesse le
sue prestazioni. Decisi dunque d’entrare in azione. Li raggiunsi facendo un
largo giro, fino a mettere una mano sulla spalla di Guy.
“Il
capo dice che vuol parlare d’affari con te. Ho provato a spiegargli che in
quanto più anziana, nel gruppo sono io che porto i pantaloni, ma ha detto che
lui con le donne di queste faccende non ci parla. Dice che gli affari è roba da
uomini, e che le donne servono per altri scopi”, raccontai strategicamente.
“Vado”,
obbedì lui, e sparì in fretta dalla zona delle operazioni. Ci capivamo al volo
su certe cose. Quella invece era rimasta lì interdetta. La bloccai prima che
avesse modo di ritirarsi.
“Piacere,
Vicni”, mi presentai dandole la mano.
“Vicky?”
“No. Vicni. E tu come ti chiami?”
Capii
che si chiamava Andrea. Andrea De Accm, o qualcosa del genere. Era una stangona
di un metro e ottanta più tacchi. Fisico da fotomodella insomma. Il look invece
era più consono al marciapiede che alla passerella. Un top laminato in argento,
minigonna con cintura ornata di perline taroccate e stivaloni che le arrivavano
al polpaccio. In testa, una parrucca esageratamente posticcia, una lunghissima
cascata di capelli biondi appartenuti a chissà chi. Aveva un brillantino
all’ombelico, al centro di una pancia più che piatta, seppure a giudicare
dall’alito non disdegnasse l’alcol.
“Sei
dell’est?”, le domandai ancora.
“Ucraina”,
dopo di che aggiunse una parola incomprensibile che doveva essere il nome della
città da cui proveniva.
Le
feci qualche altra domanda. Scoprii che aveva ventidue anni ed era in Italia da
tre. Che abitava in paese insieme alle altre ragazze del Down By Law, dividendosi
un appartamento di proprietà di Lamporecchioni, che tra l’affitto e la
percentuale che s’intascava sui loro servigi al locale, le sfruttava per
benino. Ad Andrea De Accm quella vita andava a genio perché la considerava un
grosso miglioramento rispetto a come se la passava in Ucraina. Durante la
giornata aveva un po’ di tempo libero e poteva andare a fare shopping a Pisa o
a volte a Firenze, oppure al mare.
“È
bello il mare. E quando vai in spiaggia ti togli tutto?”
“No!”,
sbottò lei, come l’avessi svegliata di soprassalto. “Con costume. Con costume
bagno.”
“Certo.
Sarai sicuramente uno schianto anche in costume. Gli uomini ti faranno mille
complimenti.”
“Sì”,
concesse lei, restando sulla difensiva. “Uomini passano e guardano. E vengono
qua, tanti. E fanno complimenti.”
“E
le donne? Non vengono a dirti quanto sei bella?”
“No.
Donne non lo dicono.”
“Le
donne sono invidiose di te, questa è la verità. Ti vedono come una minaccia,
una loro nemica. Hanno paura che i loro uomini non le guardino più dopo che
hanno visto te. Per questo sei segregata qui dentro. Gli uomini si godono la
tua bellezza e tornano dalle loro donne facendo finta di nulla. È nobile da
parte tua dare un po’ di gioia a questa gente triste, e farlo in segreto così
che nessuno passi dei guai, no?”
Non
rispose.
“Sei
mai stata con una donna?”
Di
sicuro non si aspettava avance così
dirette. La sua aggressività di adescatrice si era del tutto sgonfiata. Peccato
che da me non avrebbe ricevuto un centesimo per fare sesso, e anche se avesse
accettato di appartarsi, c’era il rischio che Lamporecchioni non prendesse con
sportività quella distrazione dal lavoro. L’arrivo della cena in tavola mi
aiutò a spegnere l’interruttore e mettere da parte quei pensieri. Mi allontanai
a malincuore da Andrea De Accm per andarmi a sedere accanto a Guy.
Le
ore trascorsero lentamente, d’altronde non avremmo iniziato a suonare prima di
mezzanotte. L’ultima mezzora ci ritirammo di sopra per prepararci.
“Nulla
di fatto con la zozzona finta bionda?”, mi domandò Guy mentre s’infilava la sua
divisa da concerto: a parte il cappello, quella sera era in total black. Il suo profilo su Facebook
era pieno di foto in cui era taggato da ragazzine che l’avevano immortalato
mentre cantava, o si facevano il selfie
con lui dopo il concerto. Il suo segreto era la consapevolezza del suo fascino,
la sicurezza di riuscire a piacere agli altri. Io quella consapevolezza non ce
l’avevo mai avuta. Mi sembrava sempre ci fosse qualcosa che non andava in me.
“Le
ho proposto di mulinarle la lingua in mezzo alle gambe meglio di una mazza di
venti centimetri. E soprattutto meglio dei cazzettini flaccidi dei suoi
clienti. Ma giustamente voleva esser pagata e ci siamo lasciate da amiche.”
“Gran
professionista, massimo rispetto”, declamò lui col tono aulico che gli piaceva
usare quando diceva frasi fatte.
Anch’io,
come d’altronde quasi sempre, ero per lo più in nero. A parte la camicia
bianca, sopra avevo un gilet aperto e, sotto, gonnellino e collant. Tacco alto
e makeup pure quelli di prassi.
Scendemmo
le scale mano nella mano; nella semioscurità della sala concerti del Down By
Law avanzammo rapidamente, e senza dare a nessuno il tempo di identificarci
apparimmo sul palco. La musica di sottofondo si ammutolì e dopo qualche istante
di assestamento attaccammo a suonare.
Capitolo 6
Un po’ slang anni Ottanta
Armeggiando
nelle tasche dei pantaloni, che aveva appallottolato ai piedi del letto per
mettere quelli da concerto, recuperò i tre buoni consumazione rimastigli. Era determinato
a non lasciarne inevaso neppure uno.
Ridiscese
per primo, mentre la sua collega, sfilatasi la camicetta, si lamentava che quel
reggiseno la strizzava troppo durante il live.
“C’è
la fila là fuori per vedere i tuoi capezzoli, gioia. Tienilo presente per i
prossimi concerti”, le fece di rimando Guy, uscendo di gran carriera per
dedicarsi ai suoi passatempi postconcerto: bere, curare le pubbliche relazioni
e cercare di “vendere” il brand 2
Dualità.
Lui,
invece, faceva di tutto per non vederli. Benché il loro rapporto fosse sempre
stato improntato a una totale intimità, e soprattutto scevro da pulsioni
sessuali, su quell’aspetto aveva mantenuto un pudore finanche eccessivo. Non si
era mai spogliato completamente di fronte a lei, e quando lei con naturalezza
accennava a denudarsi in sua presenza, si voltava di scatto in direzione
opposta, o usciva dalla stanza.
Ad
ogni modo, Vicni decise di dargli retta. Si tolse il reggiseno, mostrando allo
specchio le sue curve appena accennate e i capezzoli che apparivano ancora più
scuri, contornati dalla sua pelle lattea. Quindi si mise addosso una canotta
elasticizzata, che usava spesso quando col suo gruppo di amiche e amici
frequentava in incognito le feste gay organizzate nella loro zona, si coprì
ulteriormente con la sua giacchetta di pelle e, cambiata da capo a piedi,
attese ancora qualche minuto prima di ridiscendere nel locale.
Guy
era intanto alle prese con tre ragazzi e due ragazze, tutti sostenitori del crowdfunding. Aveva smistato le
ricompense, confrontando le mail stampate a mo’ di ricevuta con i dati in suo
possesso e garantito un paio di volte che Vicni li avrebbe raggiunti a breve.
Quelli
là erano alquanto smorti, e sembrava non vedessero l’ora di piantarlo in asso,
sebbene nessuno accennasse ad andarsene. A un certo punto, al capannello
creatosi nei pressi del banchetto merchandise si aggiunse un uomo. Guy lo aveva
notato a inizio serata, intento a confabulare con una delle prostitute. A
giudicare dalla fisionomia, doveva essere un cliente abituale, che poche altre
occasioni avrebbe avuto di scopare una figa di quel rango senza un esborso
economico. Era alto e scheletrico, tanto da sembrare un malato terminale
piuttosto che un ultracinquantenne male in arnese. Indossava un logoro giaccone
imbottito e un cappellino con visiera. Fin quasi a metà schiena gli scendeva un’avvizzita
coda di cavallo.
Il
dj set rimbombava in pista, mentre il cosiddetto salotto consentiva alla
combriccola di discutere con tranquillità. Guy perciò si chetò e alzò gli
occhi, ritenendo che Normanno gli si stesse rivolgendo. In realtà, parlava da
solo a voce alta. Stava inoltre armeggiando sul telefono, un apparecchio
antidiluviano col display a cristalli liquidi in bianco e nero che consentiva a
malapena di leggere gli sms. E nel digitare, proseguendo nel suo monologo,
faceva risaltare una miriade di tic facciali.
“Una
serata di revival slang”, disse
ancora Normanno, accentuando la sua parlata meridionale e avvicinandosi dopo
aver rimesso in tasca il cellulare.
“Slang”, ripeté Guy, perplesso ma
sorridente verso il nuovo arrivato.
“Io
ne ho visti di concerti in vita mia. Ci vengo spesso in questo posto, e anche
in altri posti qui in zona dove fanno concerti. Non vi conoscevo, vi ho visto
stasera. Fate cose un po’ slang anni
Ottanta.”
“Più
o meno”, si schermì Guy, restio a contraddire quell’argomentazione di cui gli
sfuggiva il significato.
“Suonavo
anch’io giù al mio paese, nel sud della Campania. Poi venticinque anni fa sono
emigrato qui e non ho più trovato persone per suonare.”
“Peccato.
Come mai, non sei riuscito a trovare la gente giusta, qui?”
“I
gruppi giovani gli manca quel modo di fare, nella musica dico”, cambiò
repentinamente argomento Normanno, muovendo la testa in modo convulso tra un
tic e l’altro. “Quel modo slang di
fare le cose, tipo come le fate voi, ecco, si sente e non si sente, dipende dal
gruppo che sta suonando…”
Andò
avanti per un bel pezzo a imperversare con le sue sconnesse teorie musicali.
Vicni nel frattempo si era presa in carico i ragazzi del crowdfunding, facendosi fotografare assieme a loro e riciclando
l’invito del suo socio affinché pubblicassero gli scatti sui vari social network. Se col più esuberante
Guy, l’atteggiamento dei fan era stato all’insegna di un timoroso riserbo, con
Vicni, che non si sforzava granché di mostrarsi espansiva, si rasentava il film
muto. Persino le foto apparivano più scure con lei in campo.
Il
petulante e saccente Normanno infine se ne andò. Stava pontificando su pregi e
difetti di un non ben specificato genere musicale, a meno di non voler
considerare tale lo slang, quando
senza alcun motivo apparente troncò la dissertazione e si congedò in modo
sbrigativo. Guy lo seguì con lo sguardo, fino a vederlo sfilarsi per un attimo
il cappello e mostrare che il codino era ciò che restava dei suoi capelli, dato
che in testa era completamente calvo.
Cercò
quindi di ravvivare il clima da bocciofila creatosi attorno a Vicni, ma di lì a
poco i fan se ne andarono alla spicciolata. Guy e Vicni si ritrovarono soli.
Disfecero il banchetto e tornarono in sala. La pista era animata da una ventina
di persone che ballava o stava semplicemente lì ad ascoltare la musica.
Lui
teneva sottocontrollo il tasso alcolico nel sangue e non era troppo
sbalestrato. Scrutava gli avventori, ammiccando a chi passava nei paraggi,
escluse le escort che ancora si aggiravano alla ricerca di tiratardi da
spennare per qualche minuto di lascivo su e giù. Lei invece appariva un po’
immalinconita, e gli stava appresso come a utilizzarlo a guisa di stampella che
la sorreggesse.
Risalirono
soltanto a fine serata. Lo fecero su suggerimento di Guy, cosicché
Lamporecchioni gli dicesse ciò che doveva, gli augurasse la buonanotte e
soprattutto non venisse su lui. Il piano si rivelò vincente, giacché non lo
rividero più. L’indomani, con calma, sarebbero usciti dalla scala esterna,
simile a quelle antincendio degli appartamenti negli Stati Uniti, avrebbero
lasciato la chiave nella cassetta della posta e sarebbero ripartiti.
“Ti
confesso, mia bella statuina, che sono un pochino stanco. Ma contemporaneamente
ti prometto che al mio risveglio sarò di nuovo in forma campionato, pronto per
un altro concerto radicale distruttivo!”
“Io
mi sento già meno stanca al pensiero che al tuo risveglio toccherà a te guidare
fino a Spoleto”, sospirò Vicni, che si era struccata e cambiata e, in pigiama,
si stava sdraiando sotto le lenzuola.
“Il
karma è una ruota che gira. Allo stesso modo, girano i nostri turni alla guida
della Luna. Oggi a me, domani a te.”
“E
dopodomani di nuovo a te.”
Guy
era seduto sul suo letto. Sembrava si fosse improvvisamente ritrovato un
macigno sullo stomaco e avesse urgente necessità di scostarlo da sé.
“Non
so se sia peggio essere imbroccati dalle ragazzine che vengono ai nostri
concerti oppure dalle escort”, disse poi.
“Sicuramente
dalle escort. Le ragazzine almeno te la darebbero gratis.”
“Sì
ma non me la darebbero in ogni caso. Quelle dopo che si sono stropicciate due
secondi a favore di smartphone, poi
battono subito in ritirata. Certo, il fatto che io non collabori minimamente ha
il suo peso, non lo nego…”
“Dura
la vita dello sciupafemmine omosessuale”, lo sbeffeggiò Vicni. “Sempre col
colpo in canna che non può essere sparato nel giusto canale.”
“Che
gli devo dire, a quelle? Siete tanto carine ma non posso cacciarvi la lingua e
poi il cazzo in bocca perché già a sedici anni ho realizzato e accettato
d’essere gay, quindi al limite presentatemi i vostri fratelli? E non posso
nemmeno usarti come scusa, dire che sei la mia fidanzata, giacché ufficialmente
siamo due persone in una relazione non ben precisata che fanno finta d’esser
fratello e sorella. Voi donne non capite proprio un accidente! È pieno di
uomini che ve lo piallerebbero da ogni parte e perdete tempo con i gay.”
“Per
tua fortuna tu fai impazzire le donne ma piaci anche agli uomini. Io invece
alle donne incuto timore, si ritirano nel loro guscio ogni volta che tento di
avvicinarmi.”
“Però
gli uomini ti sbavano dietro. E non è vero che spaventi le persone. Le donne,
proprio no. Se provassi a stare un’intera serata nel bel mondo che sono gli
ambienti dove suoniamo, anziché far la spola tra il banchino e la tua cripta da
vampira, otterresti più attenzioni di me, che pure sono il cantante. Ti sei
creata un’immagine che dà un pizzico di soggezione.”
“Sai,
Guy, mi capita spesso di odiarmi perché sono così complicata. Certi giorni
vorrei essere tutto fuorché ciò che sono. Non vorrei essere donna, non vorrei
essere lesbica, non vorrei essere musicista. Bassa, mora, pallida, le tette
piccole… Non ti dico per sempre, ma almeno per qualche ora vorrei essere un’altra
persona. Magari una persona più normale, tra virgolette.”
“Io
penso che se fossimo tutt’e due più normali, tra virgolette, forse avremmo avuto una vita più semplice, ma di
sicuro non ci saremmo mai trovati e non avremmo messo su quest’esperienza che si
chiama 2 Dualità. Magari io sarei più assiduo e coscienzioso all’università,
starei insieme a una mia compagna di corso e tirerei avanti la relativa routine. Tu avresti decine di uomini
d’ogni estrazione sociale a farti la corte, potresti scegliere il miglior
partito e campare alle sue spalle. Anche potendo, non farei mai a cambio con
quello che sto vivendo, che stiamo vivendo adesso!”
“Grazie
Guy, ti voglio bene, buonanotte. Svegliami al momento che dobbiamo ripartire.
Ti assicuro che non ci metterò una vita e mezzo a prepararmi.”
Spensero
le luci. Nel giro di qualche ora, sarebbe sorto un nuovo giorno a illuminare il
loro cammino. Ognuno pensava alla propria controparte, a un legame consolidato
da un amore viscerale per la musica e da un’intesa che sapeva abbattere le
barriere erte da due personalità tanto imponenti quanto divergenti e in un moto
perpetuo di tensione e irrequietudine. E a come sarebbe stato doloroso il
momento in cui tutto fosse finito.
“Dualità!”, gridai, facendo rimbombare la mia voce nella struttura tubolare del parcheggio sotterraneo.
Capitolo 7
Se hai fede, non devi
preoccuparti d’altro
Guy
ancorò la Luna nel parcheggio sotterraneo. Avevamo appuntamento vicino alla
stazione centrale, in un’area che ospitava fiere e convegni. Il luogo di
ritrovo era il piazzale antistante. Non saremmo rimasti a Firenze per più di un
paio d’ore. Il tempo dell’intervista e di mangiare qualcosa, poi ci aspettava
il terzo concerto del tour, a Spoleto. Avevamo studiato un piano per cercare di
sabotare l’intervista e ridicolizzare gli intervistatori e chi ce li aveva
mandati.
“Mi
raccomando, abbiamo fatto salti mortali per avere quest’intervista su Indie
Italie. Lo so che vi stanno sulle balle, ma ognuno deve fare la sua parte. Noi
facciamo la nostra, voi fate la vostra e loro fanno la loro.” Così c’aveva in sintesi
ammoniti la tipa dell’ufficio stampa. C’aveva chiamato in mattinata, appena
ripartiti da Madonna Dell’Acqua. Aveva chiamato Guy. Chiamava sempre Guy. Che mentre
guidava, aveva messo il vivavoce per farmi ascoltare la ramanzina.
“Tutto
sottocontrollo, mia cara”, s’era beato lui, dandomi di gomito con l’intenzione
di non farmi intervenire. “Ho già messo la museruola alla mia collega, che è
notoriamente la metà incazzosa e antipatica del gruppo, e mi palleggerò i
nostri eroi nella maniera migliore. Faremo la figura dei santarellini
dell’indie che ogni mamma vorrebbe vedere maritati al proprio figliolo… O
figliola, sì, certo, a seconda dei casi. Abbi fede!”
“Io
ho fede”, aveva risposto lei. “Però dicevo…”
“E
allora basta! Se hai fede, non devi preoccuparti d’altro, tesoro. Ti faccio
chiamare da Vicni appena ci rimettiamo in cammino. Così ti racconta lei, che
non ha peli sulla lingua. Bacioni forti e chiari!” E aveva troncato la
telefonata, prevenendo eventuali repliche.
Indie
Italie era il male. Negli anni, era diventato il sito musicale italiano più
autorevole del settore. I peggiori trend che dilagavano nel nostro ambiente
erano fomentati sulle sue pagine, imponendo a tutti di fare musica secondo quei
diktat del cazzo. Chi non si adeguava veniva emarginato a colpi di stroncature
o, peggio, di omertà. Non essere menzionati da Indie Italie equivaleva a non
avere rilevanza nel giro. Era addirittura meglio essere stroncati, anche in
modo trasversale, tipo: “Il gruppo x
prende il peggio dalle sonorità del gruppo y
che già fa schifo di suo”. Era perlomeno un segnale d’attenzione.
Il
sistema vagamente mafioso con cui amministravano la musica era accettato da
tutti gli addetti ai lavori, musicisti compresi. Noi in realtà non avevamo
problemi a prestarci a quel meccanismo, Guy in particolare era disposto a
qualunque compromesso in cambio di visibilità, e io mi adeguavo.
Forse
gli attriti, almeno da parte nostra, erano iniziati quando avevamo pubblicato
le prime cose, ricevendo attenzioni dalle principali riviste e webzine di
settore, ad eccezione di Indie Italie. Da allora, loro avevano continuato a
ignorarci e noi, un po’ per ripicca, non avevamo fatto nulla per compiacerli e
trovare spazio sul sito.
A
comandare la baracca c’era Fosco Quiličić, uno dei
personaggi più sgradevoli che avessi mai avuto la disgrazia d’incontrare. Per
fortuna solo di sfuggita in un paio d’occasioni. Era gonfio di boria oltre che
nel fisico, con la faccia da addormentato che però si sente in dovere di spiegarti
la vita. La cosa peggiore era doverlo seguire su Facebook: condivideva ogni
singola cazzata della sua vita, connesso ventiquattrore a raccontare storielle
stupide con protagonisti lui stesso, la compagna e la figlia piccola. Ognuna di
queste perle era accompagnata da foto altrettanto nauseanti, con i medesimi tre
soggetti in campo, e Fosco Quiličić che giganteggiava tra le sue “preziose
creature” (le chiamava così ogni volta) con l’aria da ebete e il viso tagliato
all’altezza della fronte per nascondere la pelata. Ovviamente, nessuno di
questi orrendi post riceveva meno di duecento like. E raffiche di commenti ossequiosi, specie di musicisti, anche
importanti, che gli leccavano spudoratamente il culo.
Con quelle minacciose premesse,
osservammo due tizi che ci venivano incontro a colpo sicuro. Noi, i musicisti
che dovevano essere intervistati, eravamo arrivati con una decina di minuti di
ritardo. Loro, infimi redattori, carne da macello mandataci contro dal subdolo Fosco
Quiličić, si presentarono quasi mezzora dopo l’orario concordato.
Nella peggior tradizione, il tipo
camminava tre passi avanti alla collega. Era agghindato come l’ultima ruota del
carro di una gang di rapper dell’hinterland malfamato di una qualunque
metropoli. Il clima era mite, sicché non aveva la giacca ma solo una felpa di
almeno due taglie più larga e il cappellino con la visiera all’indietro. Sotto,
pantaloni verdi multitasca neanche dovesse andare a pesca dopo l’intervista.
Per il resto, il concetto di nerd gli stava generoso. Aveva gli occhialoni
squadrati tanto in voga tra i giovani, che facevano sembrare cretine persino le
ragazze più interessanti, mentre gli uomini ci facevano tranquillamente la
figura dei babbei. Lui infatti ci faceva tranquillamente la figura del babbeo.
Cercai di distrarmi tramite la
contemplazione della tipa. Mi resi conto che camminava a ruota di quel tordo
perché aveva evidenti difficoltà di movimento. Era impacchettata in un abitino
inguinale giallo canarino dove non sarebbe passato uno spillo, tanto era attillato.
Aveva i capelli corti, nerissimi, con la frangetta, e orecchini che facevano
pendant con la collana. E col vestito. Gli occhi parevano comunicare un misto
di fastidio e disinteresse.
“Bene ragazzi”, esordì Varagano senza
neppure scusarsi per il ritardo. Aveva la voce nasale e un accento
indefinibile, non sembrava toscano. “Indie Italie, per volere del nostro
direttore Fosco Quiličić, ci ha mandato fino a Firenze per intervistarvi e
farvi delle foto per un articolo che uscirà sul sito.”
“Grazie d’averci dedicato un po’ del
vostro tempo, un po’ del vostro spazio, un po’ di voi e un po’ di noi, insomma,
le pari opportunità, le quote rosa”, gli rispose Guy cantilenando. “A
proposito, come se la passa il buon Fosco Quiličić? È da parecchio che non lo
incontro in giro.”
“Sì, benone”, tagliò corto Varagano,
sempre in quel modo loffio che avrebbe reso difficile l’attuazione dinamica del
nostro piano. Di primo acchito, dava l’impressione che se uno gli avesse dato
un cazzotto, avrebbe manifestato la reattività di un sacco da allenamento per
pugili. “Vi faremo un po’ di domande, e nel frattempo vi faremo delle foto, e
poi se ci sarà ancora tempo faremo un breve shooting
qui davanti. Proprio per questo sono venuto insieme a Erbafel, la bravissima
fotografa ufficiale di Indie Italie.”
“Grazie, Varagano”, gli disse lei con
noncuranza, frugando con gli occhi dentro la borsetta, che teneva appesa a una
spalla, mentre l’altra sosteneva la tracolla della borsa con l’attrezzatura
fotografica.
“Grazie, Varagano”, le fece eco Guy.
Pure io mi accodai.
“Abbiamo preso il treno stamattina
presto per essere in tempo qui a Firenze e intervistarvi per Indie Italie”,
tenne a precisare ancora Varagano, forse per farci pesare che s’erano abbassati
a tanto per gente come noi. “Allora, comincio da te, Gài…”
“Ghì!”,
lo corresse immediatamente lui. Per un attimo, calò il gelo. Persino Erbafel
smontò dal piedistallo per assumere un’espressione accigliata.
“Ghì?”,
riuscì infine a domandare Varagano.
“Sì, Ghì.
Non Gài. Il mio nome si pronuncia
alla francese. Ghì”, ripeté un’ultima
volta.
“Pensavo che si pronunciava
all’inglese.”
“Pure io lo pensavo. Per questo canto in
italiano.”
“Certo”, borbottò Varagano. “Erbafel, tu
quando vuoi inizia pure a fare le prime foto, anche a noi tre tutti insieme.”
“Grazie, Varagano.”
“Dicevo, Guy, questo è il vostro secondo
album.”
“Sì, questo”,
rispose Guy, guardandosi attorno per cercare l’oggetto di cui gli veniva
domandato. Non riuscì a trovare il nostro secondo album nei paraggi.
“Che cosa vi ha spinto a registrare un
nuovo disco?”
“Chi
ci ha spinto? Beh, è una lunga storia, sai com’è…”
“Guy, ti ha chiesto che cosa ci ha spinto a registrare un nuovo disco, non chi!”, intervenni io.
“Ma che ne sai tu di chi o cosa ci ha
spinto? Donna!”
“Infatti lo ha chiesto a te, mica a me.
E rispondigli allora!”
“Certo che gli rispondo! Nel nostro
primo disco avevamo esplorato uno spettro sonoro derivante più che altro dalle
nostre precedenti esperienze musicali e dai nostri ascolti di gioventù. Col
passare del tempo, ci siamo resi conto che avevamo la possibilità di arricchire
la nostra musica, non solo grazie alle royalty,
ma anche con influenze non necessariamente riconducibili ai nostri background. ‘Due di coppia’ è nato sotto
questa stella.”
“Ma il primo disco aveva quelle
vibrazioni roots urbane che su questo
mancano completamente”, s’inserì Erbafel. Varagano non fece neppure caso a
quell’uscita senza senso. Guy invece colse l’occasione per ricamarci sopra.
“C’hai sgamato! In realtà, è colpa del
viaggio di tre mesi che Vicni mi ha costretto a fare da una costa all’altra
della Corea del Nord. In quel lasso di tempo, abbiamo sviluppato un nuovo
approccio alla musica, che secondo me è tutto di guadagnato, ma inevitabilmente
qualcosa del vecchio repertorio è stato accantonato in favore del mood che hanno adesso i pezzi di 2
Dualità.”
“Vicni, anche tu credi che questo vostro
viaggio è stato determinante per lo sviluppo della vostra musica?”
“Di sicuro”, gli risposi. “Anche perché
io ho costretto Guy a fare questo viaggio, ma lui da solo. Io sono rimasta a
casa a lavare e stirare, ma soprattutto a scrivere musica e sperimentare nuove
sonorità nel mio home studio. Quando
Guy è finalmente rientrato, la preproduzione era già bella che fatta. Lui ha
aggiunto le melodie, i testi e ha arrangiato qualcosa in modo diverso.”
Andammo avanti a giostrarci Varagano con
disinvoltura. Lui non aveva nulla da obiettare alle nostre argomentazioni, per
quanto fossero assurde.
“Noi di Indie Italie siamo venuti fino a
Firenze per intervistarvi anche perché voi siete nel corso di un tour molto
particolare, realizzato tramite una colletta online.”
“Crowdfunding”,
precisai io.
“Certo”, annuì Varagano. “I vostri fan
vi hanno aiutato a realizzare questo tour di poche date, e in cambio hanno
ricevuto delle ricompense…”
“È stata un’esperienza fantastica!”, lo
interruppe Guy, impedendogli di fare la domanda. “I nostri sostenitori hanno
fatto a gara di velocità per aiutarci a tirar su questo ‘Tour sulla Luna’ di
sette date in una settimana. Siamo stati bravi anche noi a fare una campagna
efficace, con ricompense originali.”
“L’idea
della fornitura di cibo per gatti 2 Dualità è un colpo di genio!”
“Infatti
l’ho avuta io. Pensa, nei primi due concerti del tour sono venuti in diversi a
ritirare le scatolette, e si sono portati dietro il gatto, nascosto in uno
zaino per non avere menate all’ingresso. Che teneri! Noi li adoriamo, i gatti!”
“Noi
adoriamo anche gli uomini. E le donne”, dissi io.
“Un
giorno però dovremmo fare un concerto davanti a un pubblico composto
esclusivamente da gatti”, propose Guy.
“Non
sarebbe male. Potrebbe rivelarsi più divertente rispetto ad alcuni concerti che
abbiamo fatto in passato”, mi accodai.
“Ma
le ricompense migliori erano senza dubbio quelle in cui si poteva ricevere in
cambio dei propri soldi un lungo bacio in bocca da uno di noi due!”
“Però
questa cosa dei baci è una roba sessista”, esclamò Erbafel, continuando
peraltro a scattare foto in modo compulsivo.
“Secondo
me c’è differenza tra sesso e sessismo. Così come c’è differenza tra imbecille
e imbelle.”
Il
ragionamento algebrico di Guy non trovò opposizione né in Erbafel, che continuò
a fare la superiore, né in Varagano. Il quale, non avendo più appigli, piazzò
il domandone finale.
“Progetti
futuri?”
“Se
ne avessimo, non saremmo qui a fare i musicisti, vivendo alla giornata tra un
tour e un disco, tra una serata al pub e una riunione tecnica per capire dove
trovare i soldi per l’affitto della sala prove…”
“Guy,
la domanda era sui progetti futuri come gruppo”, lo rimbeccai.
“Certo…
i progetti futuri. Tutta la trafila che abbiamo fatto finora, comprese la
serata al pub e la riunione tecnica per capire dove trovare i soldi per
l’affitto della sala prove. Possibilmente più in grande. E così via. Questa è
la nostra vita, questo vogliamo continuare a fare.”
La
sessione fotografica non durò più di dieci minuti. Erbafel non aveva voglia di
metterci a nostro agio e non ci dava alcuna indicazione. Noi stavamo lì e lei
scattava, in piedi eretta oppure chinandosi e allargando le gambe in modo
robotico ma reso comunque lascivo dalla sua innegabile bellezza.
Quando
ci riavviammo verso la Luna, Guy fece un verso gutturale simile a un conato di
vomito.
“Che
gente brutta”, commentò disgustato quanto lo ero io. “Il ragioniere
dell’hip-hop e la principessa sul pisello del teleobiettivo.”
“Però
li abbiamo cucinati per bene. Il nostro piano è filato liscio!”
“Come
l’olio! Ottimo lavoro, mia sola divinità sconsacrata! Due!”
“Dualità!”, gridai, facendo rimbombare la mia voce nella struttura tubolare del parcheggio sotterraneo.
Capitolo 8
Lo straniero conquistatore
armato di chitarra
C’era
poca gente. Le porte erano state aperte da una quarantina di minuti e, pur
essendo sabato sera, la clientela del Bencivenga di Spoleto, come d’altronde
quella di qualsiasi posto del genere sparso lungo lo stivale, se la pigliava
assai comoda.
Guy
e Vicni, sapendo di non doversi esibire prima di un’ora e mezzo a dir bene,
stazionavano nei pressi del bar, attorniati da alcuni finanziatori del crowdfunding. C’era Armendio, spilungone
dall’aria goffa e impacciata, il cui amorfo maglione a bande orizzontali grigie
e verdi era l’elemento di spicco della sua personalità. Accanto a lui, una tipa
apparentemente giovanissima e apparentemente sordomuta, che se ne stava lì
senza spiccicar parola. Poi due ragazze sui vent’anni, che pendevano dalle
labbra di Guy come da un oracolo del nuovo millennio. Infine, Slisković666,
così si faceva chiamare sul suo profilo, pure lui alto e dinoccolato ma più
reattivo rispetto ad Armendio.
“Questa zona non è male a livello di
movimento”, gli stava spiegando, scambiando al contempo cenni di saluto con chi
transitava in quel momento lì vicino. Pareva conoscesse chiunque. “Ci stanno i
posti per suonare, le feste, anche d’estate ci sta roba. Ci stanno i posti, ci
stanno le cose da fare. Però la gente è chiusa, provinciale, ancora col dna del
contadino. Se sta a lamentare che non ci sta mai nulla e non muove mai il culo
da casa.”
“Questo è un problema un po’ da tutte le
parti, caro mio”, intervenne Guy dandosi arie da uomo vissuto, ondeggiando la
mano destra quasi in faccia a Slisković666. Lo straniero conquistatore armato
di chitarra aveva un margine di vantaggio non indifferente sull’autoctono,
bastava scrutare i volti e gli occhi delle due ragazzine. Slisković666 tentava
di ergersi a guida illuminata della scena spoletina, forse anche nel tentativo
di far colpo sulle suddette. Ma bastava un sorriso finanche abbozzato di Guy
per precipitarlo in fondo alla pista.
Vicni, al solito, lasciava a Guy onori e
oneri in simili situazioni. E lui era ben felice di salire al proscenio. Per
inciso, non aveva alcuna intenzione di ridimensionare Slisković666, che anzi
gli era moderatamente simpatico e soprattutto lo trovava attraente. Gli veniva
semplicemente naturale comportarsi così in mezzo alle persone. A maggior
ragione se già a inizio serata c’aveva dato dentro con la bottiglia.
“Io esco a fumare”, disse Vicni,
apprestandosi a lasciare il capannello sotto la sapiente guida del suo compagno
di giochi musicali.
“Sì, andiamo”, propose invece di slancio
Slisković666, e partì lancia in resta, sicuro che tutti l’avrebbero seguito. Fuori,
si accese tranquillamente un cannone, facendolo girare. Guy fece giusto un
tiro, Vicni aveva la sigaretta in bocca e passò. Spuntò pure, imboscato chissà dove,
un boccione di vino.
“Radicale distruttivo!”, proclamò Guy,
dando una gozzata e alzando subito dopo la bottiglia a mo’ di brindisi.
“Non si direbbe che persone di
corporatura piccola possano reggere così bene l’alcol, vero? Sapete come
funzionano certe cose, quando si è giovani si guarda tutto attraverso
prospettive più immediate, e questo ti permette di subire meno i contraccolpi
negativi”, disse ancora Guy, facendo le domande e rispondendosi da sé. Il
malcapitato Slisković666 era stato oscurato come durante un’eclissi. A parziale
consolazione, Guy si rivolgeva per lo più verso di lui, lisciandogli in
continuazione la spalla a corredo dei propri discorsi. Inoltre, la sua serata
sarebbe proseguita in connessione con la band: dopo il concerto, avrebbe infatti
incassato la sua ricompensa, consistente nell’essere riaccompagnato a casa a
bordo della Luna.
Dopo un bel po’ di salotto, Vicni esortò
Guy a tornar dentro per cambiarsi in vista del concerto. Il rituale della
vestizione era molto importante per loro. Li estraniava dal casino, dai volumi
alti della sala, dalla gente che andava e veniva. Quasi come fare yoga, come
Piero Pelù, o stretching, come Henry Rollins, o spararsi una sega, come Eminem.
Guy
aveva tolto di valigia una camicia argentata con i risvolti ricamati, oltre ai
capi d’abbigliamento di sempre. Per Vicni, nella girandola di vestiti che
avrebbe avvicendato durante il tour, toccava al terzo e ultimo travestimento:
un completo tailleur più pantalone, rigorosamente nero, da perfetta lesbica in
carriera. Erano pronti a darsi al pubblico accorso quel sabato a vederli.
Diversamente
dalla maggior parte dei locali italiani, dove bisognava sgomitare per
appoggiare la schiena alla transenna del mixer di sala ma sotto il palco
c’erano praterie, al Bencivenga poterono contare su un certo calore dei
presenti. In particolare, i ragazzi del crowdfunding
si erano schierati in una prima fila credibile a poca distanza dai musicisti.
Sul loro esempio, altri erano avanzati, garantendo in tal modo di evitare la
surreale sensazione di sentire applausi preregistrati stile sitcom americana tra un pezzo e l’altro.
Spesso succedeva davvero: dal palco non vedevano nessuno, però a ogni pausa
udivano battimani più o meno intensi.
Slisković666 troneggiava nel mezzo,
scuotendo il capo e battendo il piede in terra. E anche gli altri erano
coinvolti, persino Armendio e consorte azzardavano qualche passo di danza sul
posto al ritmo dei brani più sostenuti macinati da Guy e Vicni.
I
reiterati sorrisi di Guy ricordavano quelli di Billy Zoom, chitarrista degli
storici rocker californiani X. Difficile che qualche loro fan cogliesse il
riferimento, pertanto se n’era appropriato dopo che un suo cugino più grande
l’aveva introdotto alle meraviglie del punk americano anni Ottanta.
Vicni,
austera nel suo abito di scena, fu però più scalmanata del solito, specie nei
cori in cui quasi sovrastava la voce principale. Guy, sentendosi sparare nel
monitor le urla stridule della batterista, credette fosse un problema di
bilanciamento suoni sul palco e fece chiari cenni al fonico affinché gli
abbassasse il microfono di lei in spia. Di fatto, con quella mossa per una sera
perse inconsapevolmente il ruolo di cantante: almeno nei ritornelli, in sala
arrivava soltanto la voce di Vicni.
“Quasi
uguali quasi diversi” venne davvero bene. La band aveva ingranato le marce
alte, il pubblico era dalla loro parte ed era il momento di calare gli assi.
Vedere tutti là sotto cantare la canzone, dalle due smaliziate ragazzine alla
torpida coppia, fino ad altre persone che si stavano facendo avanti,
riconoscendo le note di quella piccola hit, fu emozionante. Come il primo
giorno di prove, come la prima canzone che avevano scritto assieme, come il
primo concerto di 2 Dualità. Come la prima volta che s’erano incontrati. Quel
tipo di emozione, non semplicemente l’entusiasmo della novità, ma qualcosa di
più profondo, il sentore di un respiro più ampio, di un tragitto che può
condurre lontano. Oppure verso il nulla.
“Spoleto
ci ama!”, si beò Guy a fine serata. Slisković666
annuiva compiaciuto. Oltre ai fan del crowdfunding,
se n’erano presentati parecchi altri. Guy e Vicni avevano venduto dischi e
gadget, firmato autografi e posato per foto, dispensando strette di mano e
abbracci. Quel surrogato di rock’n’roll
lifestyle non era così frequente: gli capitava non di rado di essere
bellamente ignorati prima, durante e dopo il concerto.
“Tra
un po’ si va a nanna, mio caro”, disse ancora Guy all’allampanato fan. “Ti
senti capace di andare sulla Luna?”
“Grande”,
confermò Slisković666. Vicni, col progressivo
diradarsi di chi le stava attorno, era ridiventata laconica ed estranea ai
lazzi che il suo collega perdurava a regalare a un uditorio ormai ridotto
all’osso.
Arrivò infine il momento di ricaricare
la strumentazione e dirigersi all’albergo, con tappa intermedia a casa di Slisković666.
“Taxi Luna in partenza. Via! Via! Via!
Via! Via!”, disse Guy. Slisković666 sedeva davanti, su uno dei posti
passeggero, appiccicando Vicni al finestrino. “Io non accendo il navigatore,
guidami tu. Dove devo andare?”
“Io sto in una frazione appena fuori
Spoleto. Prendi subito la strada come per tornare indietro da dove siete
arrivati.”
“Ecco,
appunto, mi son già perso! E non siamo ancora usciti dal parcheggio del
Bencivenga… Destra o sinistra?”
“Di
là”, spiegò Slisković666. Guy, che guardava il buio
della strada, non fu in grado d’interpretare l’indicazione.
“Destra”, tradusse Vicni.
In poco più di cinque minuti, nonostante
le pessime doti di navigatore di Slisković666, svoltarono in direzione di uno
sbiadito cartello blu e giunsero in un vialetto campagnolo poco illuminato ma
sufficientemente per mostrare una serie di case e ville tipiche di una certa
aristocrazia contadina.
“Wow!”,
esclamò Guy, accostando dinanzi alla villetta su due piani indicatagli da Slisković666.
“Ci abiti con i tuoi genitori?”, domandò
Vicni. Aveva avuto il sospetto di aver a che fare col classico finto
alternativo campato dai soldi di famiglia.
“Sì”, replicò lui senza imbarazzo. Anzi,
rilanciò. “Ma la casa in pratica sta divisa in due, e io ho uno spazio tutto
mio; ho anche un ingresso indipendente! Perché non entrate un minuto? Magari
potete restare a dormire qui, volendo…”
“Perché no?”, acconsentì subito Guy,
anticipando le proteste di Vicni. Che comunque non si fecero attendere.
“Guy, non mi sembra il caso di lasciare
la Luna qui fuori, tutta la notte.”
“Potete lasciarla nello spiazzo del
giardino”, la smontò Slisković666. “Chiudiamo il cancello e state più al sicuro
che al centro de Spoleto!”
“A proposito di centro di Spoleto”,
insisté ancora a opporsi Vicni, “in teoria avremmo un albergo prenotato.”
“Li chiamo io per sfissare”, finì di
disarmarla Guy. “A quest’ora tanto non risponderà nessuno.”
Vicni si arrese. Credeva d’aver capito
dove voleva andare a parare Guy. Slisković666 fece loro strada all’interno,
prima spalancando il cancello alla maniera di un Mosè testimonial della ditta
FAAC, poi precedendoli sull’ingresso nel retro, che tramite una scala conduceva
di sopra.
“Voi potete dormire di qua”, disse Slisković666,
indicando camera sua. “Il letto è a una piazza e mezzo. Ci dovreste stare
tranquillamente.”
“E
tu?”, gli domandò Guy mostrando stupefazione.
“Io
dormo sulla poltrona che sta in salotto. È una specie de divano letto.”
“Capito,
Vicni?”, esclamò teatrale Guy. “Vedi come sono i nostri fan?”
“Sono i fan più fan che esistano”,
ripeté lei, a pappagallo e senza convinzione, lo slogan coniato in occasione
della campagna di crowdfunding.
“Farebbero qualunque cosa per 2 Dualità.
Svuoterebbero il loro piatto per riempire il nostro, se noi non avessimo nulla
da mangiare. Ci cederebbero il loro letto, andandosi a rincalcare su una
poltrona. Quando penso a queste cose, quasi non mi sembra vero! Però non lo
posso permettere, mio caro. Sapere di averti relegato di là non mi farebbe
dormire!”
“E allora che se fa?”, domandò Slisković666,
disorientato dagli arzigogoli di Guy, che nemmeno a tarda ora rinunciava a dare
spettacolo.
“Semplice: dormiamo tutti e tre
insieme!”
Slisković666 rimase esterrefatto. Vicni,
già da un pezzo rassegnata all’ineluttabile, si limitò a incenerirlo con lo
sguardo. Però non disse nulla.
Nel più profondo imbarazzo di due terzi
dei presenti, andarono a letto. Vicni scivolò sotto le lenzuola e si sfilò di
dosso il minimo indispensabile, restando con una maglietta da notte molto lunga
che la copriva fin quasi a metà coscia. Il pimpante e disinvolto Slisković666,
re senza corona del Bencivenga, adesso legnoso all’inverosimile, si sdraiò
completamente vestito sul ciglio.
“Altolà!”, gli intimò un Guy ormai a
proprio agio meglio che a casa sua. “Quello è l’unico lato dove riesco a
dormire sul fianco. Lì mi ci metto io. Tu stai nel mezzo.”
Al buio, tutti sottomessi alle
capricciose direttive del frontman di 2 Dualità, rigidi si strinsero in quel
letto che faticava a contenerli.
Fu
Vicni a fare la prima, involontaria mossa che spianò la strada a Guy.
Rigirandosi in un agitato dormiveglia, si adagiò addosso a Slisković666,
che fermo come una sardina in scatola, con le braccia inchiodate parallele al
corpo, non sapeva cosa fare, se provare a scostarla, col rischio di svegliarla,
o che altro. Nel dubbio, rimase impalato.
All’altra estremità del letto, cioè
pochi centimetri più in là, Guy emetteva profondi respiri come fosse
pesantemente addormentato.
Perciò, quando poco dopo si sentì
solleticare le parti basse, Slisković666 non ebbe dubbi che la ragazza gli
stesse strofinando la mano sul cazzo, che gli si rizzò all’istante. Sentì quasi
in sordina lo scorrere verso il basso della zip dei pantaloni, con quella
stessa mano che aveva assunto il pieno ed eccitante controllo del suo uccello.
Raggiunse in fretta l’orgasmo. Una
poltiglia appiccicaticcia e calda gli si posò sul bassoventre. Si era
senz’altro macchiato maglia e pantaloni. Pace, pensò Slisković666 mentre la
tensione si scioglieva nei suoi muscoli e prendeva sonno con la stessa rapidità
con cui lo sperma era schizzato pochi istanti prima. Erano bastati pochi,
sapienti movimenti di quella mano a farlo godere.
Trascorsero
ancora parecchi minuti prima che Guy, che era sempre rimasto sveglio, passasse
al contrattacco. Facendosi vicino a Slisković666,
proprio come aveva fatto Vicni nel sonno, gli premette l’uccello
sull’avambraccio, muovendosi su e giù simulando un coito. Fu una manovra
estremamente piacevole. Fece appena in tempo a scendere fino alla mano di Slisković666,
che accolse la sborrata, quasi fosse stata lei a condurre fin lì quel cazzo
impertinente che aveva sfruttato il corpo inerme del fan addormentato per il
proprio piacere.
Nessuno fece più movimenti sospetti. La
notte, che pure stava per volgere all’alba, inghiottì il terzetto,
concedendogli finalmente il meritato riposo.
Capitolo 9
I tipi che fanno strage di
fica nel nostro ambiente
Per
farsi perdonare la “scappatella”, aveva assunto il posto di guida per la
seconda volta di seguito. Il cielo era fuligginoso, il motore della Luna pure.
Al
risveglio, nessuno aveva fatto la minima allusione a quanto accaduto
nottetempo. Nonostante avessero dormito rattrappiti in uno spazio angusto,
erano di buonumore. Persino la scontrosa Vicni di poche ore addietro, piegatasi
di malavoglia ad assecondare le voglie di Guy, appariva distesa in volto, e
aveva conversato a lungo con
Slisković666 quando, quasi all’ora di pranzo,
s’erano ridestati. Lei, in realtà, non aveva idea di cosa fosse capitato sotto
le coperte tra i due maschi, pur essendo certa che Guy fosse riuscito a
soddisfare in qualche modo i propri istinti. Però l’essersi svegliata riposata
e senza alcun sintomo di malessere aveva obliato ogni fastidio.
Congedato il fan, tanto felice d’aver
ricevuto quell’ingannevole souvenir notturno da offrirgli la colazione e
lasciarli ripartire senza ammorbarli con ulteriori richieste, 2 Dualità si
ritrovarono di nuovo per strada.
“Tesoro, mica avrai lasciato lo smartphone a casa del nostro gentile
ospite?”, domandò Guy, sbirciando sulla destra e vedendo la ragazza,
infagottata in un maglione da badante moldava e col volto nascosto dagli enormi
occhiali da sole alla Bono Vox epoca “Achtung baby”, scrutare il nulla dal
finestrino.
“Eh? Dove?”, si riscosse lei. Presa da
un’improvvisa isteria confinante col panico, si avventò sulla borsetta, rovistò
con l’istinto tattile di un cieco che legge il braille e dopo pochi secondi estrasse l’oggetto del desiderio.
“Eccolo, cazzo. Perché mi fai prendere questi spaventi, Guy?”
“Semplicemente mi faceva strano non
vedertelo in mano da quando ci siamo svegliati. Eravamo sempre in tempo a
tornare indietro a recuperarlo.”
“E sì. Guarda che alla luce del sole,
sarà molto più difficile. Non cercare scuse per rituffarti sulla tua preda.
Piuttosto: ma stanotte?”
“Radicale distruttivo!”, proclamò Guy.
“E devo ancora finire di ringraziarti per essere stata tanto preziosa in
quest’occasione.”
“Va beh, che potevo fare? Mica potevo
boicottarti e costringerti ad andare all’albergo. Ormai eravamo lì…”
“Non hai capito, stellina. Il tuo assist
è stato fondamentale per la piena riuscita del mio safari notturno!”
E le spiegò gli eventi succedutisi
mentre lei dormiva. Vicni rabbrividì. Però era contenta per l’exploit del suo adorato socio.
D’altronde, condividevano quel segreto, represso per meglio conciliare le
istanze moralistiche imperanti nella scena. Inutile illudersi che non fosse
così: l’omosessualità era ancora un marchio d’infamia in Italia. Con una
carriera musicale in rampa di lancio, si erano detti che era meglio non uscire
allo scoperto.
“Novità?”, disse Guy, notando la
ricomparsa dello smartphone di Vicni.
“Indie Italie ancora non ha pubblicato
nulla. Quel pezzente laido prima di mandare online la nostra intervista ci farà
rosolare sullo spiedo. Vediamo Instagram, gli hashtag… Niente. YouTube… Zero. Twitter sulla fiducia non lo
controllo nemmeno, aggiorno più tardi lo status e fine. Facebook… Tre nuovi mi piace sulla pagina.”
“Successone!”
“Commenti
vari con complimenti sotto la nostra foto seduti sul palco del Bencivenga,
soprattutto di gente che non è venuta
al concerto. Ah, ecco: un tipo, o una tipa, non si capisce né dal nome né
dall’immagine profilo, ci ha postato sulla pagina quattro foto di noi durante
il concerto. Di te durante il concerto, a dire il vero.”
“Metti
mi piace su tutt’e quattro!”
“E
il cuoricino”, aggiunse Vicni. “Nell’ultima foto s’intravede una mia bacchetta.
Mi taggo?”
“Sai
bellezza, c’è una sola cosa che mi dà fastidio in questo tour che di per sé è
impensabile persino ora che siamo praticamente a metà.”
“Il
concerto più importante siamo costretti a farlo a Roma”, indovinò lei.
“Che
schifo. Perché non vengono seppelliti tutti da un’immensa colata di merda?
Gentaccia viscida che ti guarda dall’alto in basso. Non ci libereremo mai delle
loro facce da fessi, della loro arroganza, della loro ignoranza da coatti, dei
loro immondi maneggi, della loro violenza camuffata da goliardia…”
“…delle
loro cazzo di battute omofobe…”, aggiunse Vicni.
“Sono
la razza più ignobile che esista”, riprese a infierire Guy, irrorato di
autentico disgusto nelle sue parole. “E quel che peggio, comandano da tutte le
parti. Hanno mandato in cancrena ogni cosa bella in Italia. E stasera vado lì e
sono costretto a essere tutto sorrisi e amicizia con quei cavernicoli da
osteria!”
Nemmeno
il contegno sempre benevolo e accomodante di Guy resisteva sotto la spinta
dell’odio che entrambi provavano verso Roma, i romani e la romanità. Ritenevano
che tutta la feccia sparsasi nel mondo, e più nel dettaglio nel loro mondo, fosse originata da lì. Dal
ventre infetto di quella sudicia lupa che aveva appestato il pianeta
riempiendolo coi romani.
Il
loro livore si spostò quindi di poco, andandosi a focalizzare sul frontman del
gruppo cui avrebbero fatto da spalla quella sera.
“Lo
spacciano per un gran sex symbol”, disse Guy, sempre in tono sprezzante. “Dalle
foto e dai video, mi pare più che altro un cinghiale.”
“A me sembra Ricky Memphis”, osservò
Vicni, “hai presente?”
“Come no. La quintessenza del romanaccio
cine-televisivo. In effetti in qualcosa ci somiglia. Che schifo…”, ripeté con
ripugnanza.
“Giusto un po’ meno gonfio”, proseguì
lei. “Insomma, il classico burino che piace alle femmine.”
“Infatti. Quello che non mi spiego,
però, è come possa piacere alle femmine che seguono l’indie. I tipi che fanno
strage di fica nel nostro ambiente sono completamente diversi. Sono più…”
“Sono più come te, eh?”, lo interruppe
Vicni. “T’ho beccato! Altro che l’odio per i romani. La tua è invidia, caro il
mio Guy!”
“Sciocchina”, ribatté Guy, affettando
esageratamente l’eloquio alla maniera dello stereotipo del gay effeminato.
“Dicevo che sono più del genere universitario fuoricorso fancazzista, lo sai.
Poco sangue nelle vene, quella è la chiave. Io sono tutt’altra tipologia di
maschio. Che per nostra fortuna è comunque apprezzata dalle tipe. Invece, quell’altro…”
“Sì, sì, colpito e affondato!”, insisté
lei, divertendosi a punzecchiarlo.
“Che poi”, riprese Guy, imponendosi di
non sputare più veleno sui romanacci, almeno per una decina di minuti, “tutta la
faccenda di me cantante–imbroccatore etero subirebbe un altolà non appena
decidessimo di dire la verità e chiudere con la pantomima dei White Stripes
italiani, ex mariti, ex mogli, ex fratelli… Passerei in un nanosecondo da
seduttore incallito a ominide col fascino di una sedia da campeggio!”
“Perché non facciamo questo ultimo tour
sulla Luna”, propose a bruciapelo Vicni, “e quando abbiamo finito, riveliamo a
tutti chi siamo realmente?”
“Tesoro, non dici mica sul serio,
vero?”, le domandò Guy, allarmato da quell’uscita perentoria. “E poi? E 2
Dualità? Smettiamo proprio ora che incominciavo a divertirmi?”
“Siamo in giro ininterrottamente da
quattro anni”, ribatté lei con un tono fattosi stanco, come accusando d’un
tratto il peso di quell’arco temporale. “Due dischi, un ep e quattro singoli
digitali, trenta-quaranta concerti l’anno… Magari ci prendiamo una pausa, che
so, un anno o giù di lì, dove ognuno di noi avrà tempo per fare le sue cose.”
“Ma quali
cose? Le mie cose sono le nostre. Sono il gruppo, tutte le mie cose ruotano
intorno a questo, a noi due. Credevo fosse così anche per te.”
“Lo è. Proprio per questo te ne sto
parlando. Non abbiamo nulla al di fuori di questo progetto. E non so se sia la
cosa migliore.”
Guy iniziava a essere in difficoltà nel
guidare, ragionare, ascoltare e parlare allo stesso tempo. Dato che non poteva
accostare la Luna nella corsia d’emergenza, e zittirsi gli avrebbe oltremodo
appesantito il cuore, smise d’ascoltare e di ragionare e riprese a parlare
secondo il suo filo conduttore.
“E quando torneremo in pista, se torneremo, si saranno tutti
dimenticati di noi”, prese a lamentarsi, immalinconito dalla piega inattesa
data da colei che reputava la sua inseparabile metà musicale.
“Ma soprattutto, si saranno dimenticati
delle rivelazioni sulla nostra relazione e sulla nostra sessualità e non avremo
perso credito presso fan e stampa”, cercò di sdrammatizzare Vicni.
Guy
non trovò parole adatte per proseguire. Cercò di parlar d’altro, coinvolgendo
anche Vicni come se nulla fosse. Le chiese di rifargli il punto della
situazione sui finanziatori del crowdfunding
che avevano dato conferma della loro presenza quella sera. Da principio,
faticava ad assimilare il senso delle risposte della ragazza. Poi fu più
presente a sé stesso.
Pian
piano si rianimò. Recuperò un certo spirito combattivo con l’approssimarsi
dell’uscita dall’autostrada e il conseguente ingresso nel mefitico grande
raccordo anulare. Inveire contro quei bastardi aveva un effetto catartico. Al
primo imbottigliamento nel traffico capitolino somigliava nuovamente al Guy di
sempre.
Capitolo 10
C’è assenza di gravità su
questo pianeta
Mi
faceva sempre quell’effetto lì. Terribilmente sgradevole. Un moto interiore
paragonabile al venire sbatacchiato per la stiva di una nave col mare in
tempesta. Metter piede sul suolo romano era ogni volta un immane supplizio.
Avevo superato parecchi ostacoli nella mia vita. E parecchie fisime. Ma l’esser
costretto a rapportarmi con quegli individui spregevoli, e doverli assecondare
nella loro strafottente boria, era la parte deteriore di un’attività musicale
che andava espandendosi, e le opportunità offerte dalla capitale non potevano
essere ignorate per mere ragioni di legittima discriminazione territoriale.
Non
ricordavo il momento in cui il mio odio verso i romani era divenuto viscerale.
Forse durante quella gita alle medie, o per i vicini di ombrellone quando da
piccolo i miei mi portavano al mare all’Argentario. O forse a furia di sentire
quelle vociacce, in tv, al cinema, e averci a che fare ai concerti.
Quella
domenica, mi attendeva una condotta irreprensibile all’And Vedy Tea Oh, uno dei
luoghi trendy dell’indie capitolino. La quarta data del nostro tour eravamo
riusciti a piazzarla in un posto senz’altro appetibile; per di più, avremmo
aperto ai Solarium & Omicidi, gruppo giovane ma già abbastanza noto a
livello nazionale, e nella loro rivoltante patria erano assurti al rango di
divi. Tirando le somme, ci sarebbe stato un pienone.
Condividemmo
online una foto in cui eravamo di spalle, appiccicati alla fiancata della Luna
tipo uomo e donna ragno. La didascalia recitava: “Sbarcati dalla Luna sull’And
Vedy Tea Oh di Roma! C’è assenza di gravità su questo pianeta. Speriamo di
riuscire a piantare nel terreno la nostra bandierina: se ce la facciamo, vi
aspettiamo stasera per un concerto galattico! Dopo di noi, Solarium &
Omicidi.” Il messaggio subliminale era: “Preferiremmo restare così tutta la
sera piuttosto che rischiare la lebbra staccandoci di qui e mischiandoci tra la
merda romana. Vi odiamo e vi auguriamo le peggiori sofferenze.”
“Dai
che tra diciotto, massimo venti ore saremo fuori da questo inferno”, mi disse
Vicni mentre iniziavamo a scaricare la nostra roba.
“Mi
sei sempre di gran consolazione, fatina nera.”
“Recito
il mio ruolo di trista mietitrice. Tu sei quello easy e superpositivo, io la bastiancontraria per antonomasia.”
“Io
più che superpositivo diventerò sieropositivo se sto troppo a contatto con
questi lazzaroni.”
Feci
un respiro e indossai la maschera. Non quella da palombaro, con le bombole e la
muta, che pure mi sarebbe tornata comoda per restare sott’acqua, così da
scansare ogni contatto, ma quella da ineffabile cantante dispensatore di
sorrisi empatici e vagonate d’allegria.
Zavorrati
della prima mandata di bagaglio musicale, facemmo il nostro ingresso nell’And
Vedy Tea Oh. Feci un saluto convinto e generalizzato alla dozzina di persone
già presente e ci trascinammo in zona palco per accatastare la strumentazione
in attesa di istruzioni.
Il
tempo di sdraiare la custodia della chitarra e di ripartire assieme a Vicni per
il secondo round, ci venne incontro un tipo tutto scoordinato, ingobbito nel
suo metro e novanta abbondante, secco e inguainato in un piumino blu
abbottonato fino al mento. Camminava barcollando, col testone riccioluto che
ondeggiava in balia dei suoi squilibri psicomotori.
“Aò
ciao a regà, piacere, io me chiamo Cecchia”, esordì l’appendiabiti, dell’età
apparente di venticinque anni mal portati. Aveva gli occhiali e la faccia da
addormentato, col labbro pendulo e la bocca semiaperta.
“Guy.
E Vicni. Anche se potrebbe non sembrare”, buttai lì. Cecchia non abbandonò
l’attitudine da baccalà, ma purtroppo nemmeno la conversazione.
“Piacere
regà”, ribadì Cecchia, che se avesse mangiato pastasciutta con la stessa foga
con cui si mangiava le parole, sarebbe stato meno scheletrico, “io sto in fissa
p’a’ vostra musica, er disco de coppia
è ’na robba da paura!”
“Grazie,
ne eravamo convinti anche noi”, gli
risposi.
“Aò,
io stavo a fare er cronfanting, ma me
stava a scadé la carta de credito, poi ’na storia c’a’ banca, nun ve sto a raccontà,
poi aspettavo che venivate a Roma così me compravo anche er primo disco, che
quello de coppia già ce l’ho. M’a’ha
portato un amico mio che ve stava a vedé quest’estate, lui stava ar mare dove
suonavate voi, forse che v’o’o ricordate…” Biascicò un nome incomprensibile.
Feci di sì con la testa.
“Spero
che c’a’avete anche er primo disco da vende stasera, così m’o’o compro, perché
quello de coppia già ce l’ho”, ripeté
ostinato nella sua romanesca ottusità.
“Sì,
certo, tranquillo, abbiamo portato tutto, finiamo di scaricare poi
apparecchiamo il banchetto del merchandising”, gli disse sbrigativamente Vicni
per togliersi almeno per qualche minuto il suo fiato fetido dal collo.
“Qua
ce sta coso, lì, j’o’ho detto io de voi”, tartagliò ancora Cecchia, per nulla intenzionato
a mollare la presa. “Quando ho saputo che stavate a organizzà er tour co’na
data a Roma, e questi se staveno a rosicà. Aò, se ce stava er modo, penso che
era questo qua. Poi ce staveno pure li Solarium & Omicidi, che so’ li mejo
d’a’ scena romana. Erimo qui tutti insieme ’na sera, e io j’o’ho detto: famolo
’sto concerto!”
“Grazie
caro. È per merito di persone come te che 2 Dualità stanno vivendo questo
momento così speciale, di totale condivisione e scambio alla pari tra band e
pubblico. Torniamo tra un attimo”, riuscii a dirgli, dopo di che ripartimmo
spediti verso la Luna.
“Se
ho capito bene, ha detto che il concerto ce l’ha organizzato lui.” La voce di
Vicni era un misto di sbigottimento e disprezzo.
Il
successivo viaggio all’interno del locale ci regalò un piacevole scambio di
battute col promoter. Sempre col molesto Cecchia che si aggirava come un
avvoltoio intorno a noi, vedemmo apparire un manzo sulla quarantina, con pochi
capelli ingrigiti sulla testa ma allungati dietro, lo sguardo assente e un
costume di Halloween da conte Dracula come uniforme di lavoro.
“Uè
ragazzi, benvenuti all’And Vedy Tea Oh.” Parlava con accento milanese e la voce
piatta da annunciatore di stazione ferroviaria dell’hinterland padano. “Vi
hanno avvisato dei cambiamenti di programma?”
“Tipo?”,
domandò Vicni, pronta a immolarsi sulla sua inespugnabile barricata difensiva.
“I
Solarium & Omicidi arrivano dopo. Sapete, no, questa è una data speciale,
fuori dal loro tour promozionale, è la data di casa, quindi hanno accettato
volentieri di suonare, non gratis ci mancherebbe, con un rimborsino, non c’è
l’albergo, la benzina, il viaggio, gli basta un rimborsino, te capì? Però,
figa, loro arrivano dopo.”
“E
quindi?”, lo incalzò Vicni.
“E
quindi”, spiegò Rimborsino, “o fate il soundcheck adesso e quando arrivano i
Solarium fanno il loro e poi suonate voi, ed è un po’ un bel casino, oppure,
uè, è la soluzione migliore, voi montate la vostra roba senza fare il
soundcheck e lo fanno solo loro, così si evitano menate per il fonico piuttosto
che problemi tecnici durante il concerto.”
“Ma
almeno cinque minuti di linecheck
prima del concerto li possiamo fare?” Feci quella domanda cercando di non farla
sembrare una supplica. Avremmo potuto impuntarci e minacciare che non avremmo suonato
a quelle condizioni ridicole. Ma ci avrebbero probabilmente indicato la porta.
Avrebbero comunque fatto cassa coi Solarium & Omicidi, che forti del loro
massiccio seguito si atteggiavano a star a spese nostre, presentandosi all’ora
che gli pareva e costringendoci a suonare in situazione quasi emergenziale.
“Figa,
certo che potete, anzi dovete, siamo tutti qui per lavorare per il successo
della serata”, proclamò Rimborsino col portamento del miliardario che lascia
dieci euro d’obolo a un galà di beneficenza. La sua spudorata paraculaggine
dimostrava come si fosse perfettamente integrato nel tessuto sociale della
città dove s’era trasferito, assorbendo le peggiori iniquità della razza
romana.
A
tal proposito, tornammo ben presto in balia dell’insopportabilmente invadente
Cecchia, che sproloquiò su un gruppo che a suo parere aveva dei punti di
contatto col nostro. Questi tizi, diceva, erano una versione più acustica e più
elettronica di 2 Dualità, e avevano addirittura avuto il privilegio di
sentirselo confermare da Cecchia in persona, che incontrandoli prima di un
concerto li aveva accostati a noi. Naturalmente, nel suo parlottio
indecifrabile non riuscii nemmeno a intuire a quale accidenti di gruppo si
riferisse.
A
un certo punto, mi alzai. Avevo visto entrare delle persone e decisi di andargli
incontro. Erano i Solarium & Omicidi e presumibilmente gente del loro
entourage. Porsi cavallerescamente la mano a Vicni, che la prese e si alzò a
sua volta. Cecchia continuò a parlare ancora per qualche secondo, quindi, a
scoppio ritardato, tacque.
“Eccotelo,
il tuo cinghiale”, mi sussurrò all’orecchio Vicni. La comitiva avanzava
compatta su due file, come uno squadrone della morte della musica. Tazio
Bautista detto il fornicatore, l’aitante e concupito leader della band, era al
centro del raggruppamento posteriore. Era prestante, alto e robusto, un macho
come se ne vedevano davvero pochi nell’indie italiano. Aveva le sembianze di un
attore di film d’azione più che di un cantante. I capelli corti e dritti sopra,
il viso squadrato dalle mascelle agli zigomi e permeato da una barbetta
marroncina sfatta d’un paio di giorni, lo sguardo di sfida. Portava un
giubbotto di pelle, aperto su una maglia a righine bianche e azzurre, che
faceva intravedere pettorali e addominali da palestrato.
“Aò,
ce stava er traffico der ritorno d’a’a partita, amo fatto un po’ tardi, io
j’a’avevo detto a’j’artri che se sbrigassero”, venne a dirci Tazio Bautista,
staccandosi dal codazzo. Voleva perorare la sua causa, forse per stemperare
l’incazzatura che, a ragione, riteneva potessimo avere. Ci strinse la mano con
apparente affabilità. “Noi semo tifosi avvelenati e c’avemo l’abbonamento in
curva, ma sticazzi, stasera ce semo detti: annamo all’And Vedy Tea Oh e famo un
po’ de caciara come ce riesce a noi!”
“Avete
vinto?”, domandai. Quei luridi bifolchi avevano sforato l’orario del check per
andare allo stadio a fare gli ultrà. I musicisti calciofili erano una tipologia
umana che faticavo a comprendere.
“Mecojoni!”,
mi spiegò Bautista. “Sti fiji de ’na mignotta nun ce staveno a capì ’na ceppa,
li mortacci loro! J’avemo fatto ’n abbonamento premium perché annassero a vedé
la lega pro! Stanno ancora addobbati negli spogliatoi!”
“Avete
vinto”, provai a tradurre.
“Quattro
a uno, anvedi! Ma nun te crede che stamo a penzà che ce sta solo er calcio,
n’a’a vita nostra. E sticazzi, stasera s’a’a divertimo!”
Il
fornicatore, pingue di vanagloria calcistica, mi prese poi in disparte.
“Aò,
nun j’o’o dire alla donna tua, con tutto ’r rispetto: stasera ce staranno certi
pezzi de sorca che nun l’hai mai visti tutti insieme sotto ar palco. Abbello,
stamme a sentì: io e gli amici mia, er chitarrista e tutti i Solarium &
Omicidi c’avemo er diritto de prelazione. Nun te immagini quante de ’ste
bocchinare come se scateneno ner backstage. Aò, noi finimo er concerto, se damo
’na rinfrescata e famo entrà ’ste affamate de cazzo. Massimo quaranta minuti,
je damo da magnà un po’ de sborra e poi ce n’annamo a casa. A quer punto ce ne
stanno tante altre da sfamà. Basta che annate de dietro dopo che amo fatto noi,
e te la puoi spassà con una de ’ste zoccole de prima fascia!”
“Terrò
presente, grazie caro, apprezzo molto questo genere di ospitalità.”
“Che
t’ha confessato Ricky Memphis?”, mi chiese Vicni non appena Tazio Bautista, sbraitando
a destra e a manca, si avviò al check.
“Ha
detto che dopo il concerto posso cornificarti facendomi il cazzo a punta con
una delle ragazze che non scoperanno
lui e quegli altri subumani. Dice che ne vale la pena.”
“Mi
sembri possibilista.”
“Sul
cornificarti? Siamo una coppia aperta noi due, tesorino, lo sai. Tu invece, non
mi tradiresti con uno così?”
“Con
Tazio Bautista detto il fornicatore?”, si schifò Vicni.
“No,
parlavo del nostro amato fan Cecchia. Rieccolo che torna alla carica. Facciamo
pari o dispari per chi se lo deve sciroppare?”
Capitolo 11
Solo moine da decerebrati
“Guy,
ma non possiamo restare qui dentro un altro po’?” Guardai in alto, incrociando
gli occhi, verdi e profondi, del mio cavaliere oscuro, che mi stava davanti,
benevolo ma irremovibile.
“Dobbiamo
sloggiare entro cinque minuti”, mi spiegò finendo di riabbottonarsi l’ennesima
camicia del tour. “Il manager dei Solarium & Omicidi è stato chiaro. Devono
allestire l’alcova per il dopoconcerto. Coraggio bellezza, è ora. Se poi esci
di qui ancora in sottoveste, abbiamo ottime probabilità di raddoppiare le
vendite del merch!”
Ero
sempre riluttante a uscire dal camerino subito dopo il concerto. Stavolta di
più, al pensiero di ritrovarmi assediata da quei vermi striscianti. Rimasi un
ultimo istante ripiegata sulla poltroncina, col capo chino. Guy mi prese
dolcemente la testa con tutt’e due le mani e se la poggiò sulla coscia. Fosse
entrato qualcuno, vedendolo in piedi di spalle addosso a me seduta, avrebbe
pensato a tutt’altro. In realtà Guy non stava reclamando un pompino. Mi fece un
po’ di coccole, poi sempre con delicatezza mi mise le mani sulle spalle. Era un
chiaro segnale per rompere gli indugi e andarcene. Per fortuna, i tecnici del
locale e quelli a libro paga dei Solarium & Omicidi avevano già levato la
nostra roba dal palco. Dovevamo soltanto recuperare gli effetti personali e
filare.
Accolsi
per metà il suggerimento di Guy: indossai il giubbotto di pelle senza cambiarmi
la sottoveste con un abito più comodo. Lui tramite un fischio interpretò alla
sua maniera l’opinione del maschio standard.
“Stanotte
la più marcia gioventù de Roma avrà
le vertigini ripensando al tuo clamoroso sex appeal!”, rincarò. “E impotenti e
frustrati si disferanno di seghe sognando di possedere il tuo corpo!”
“Sei
l’unico uomo che potrei degnare di considerazione nel raggio di mille
chilometri”, avrei voluto rispondergli. Ma tenni fede al mio ruolo.
“E
invece proprio come farai tu, si accontenteranno degli scarti lasciati sulla
tavola dai Solarium”, replicai.
Lui
non controbatté, né mollò la presa, che era soffice ma salda. Uscimmo mano
nella mano dal camerino. Due scagnozzi dei Solarium & Omicidi ci
aspettavano, pronti a fare irruzione casomai ci fossimo attardati. Superammo i
secondini tirando a diritto. Dalla porta sul retro stavano rientrando i membri
della band. Tazio Bautista detto il fornicatore ci salutò col gesto del pollice
in su prima di sparire in camerino con gli altri. Guy ricambiò sorridendo.
“Con
una sola occhiata t’ha fatto la radiografia, quel maiale da monta”, mi disse
all’orecchio.
“Non
che ci voglia molto. Sono già praticamente mezza nuda.”
“Però
lo fai per ragion di stato, indi per cui è una nobile causa a volerti così
irresistibilmente sexy!”
“Proprio.
Chissà perché tra le ricompense del crowdfunding
non c’è venuto in mente di mettere il calendario hot di Vicni”, commentai polemicamente.
“Non
ci fai una bella figura quando sminuisci il tuo fascino”, disse Guy serio. “Chi
ti vede così provocante e poi ti sente dire queste sciocchezze penserà tu sia
in malafede. Testolina matta…” Mi sfiorò un angolo della fronte con le labbra.
Era quanto di più vicino a un bacio potessi ricevere da lui.
Facendoci
strada in un And Vedy Tea Oh gremito, raggiungemmo la zona deputata al
merchandising. Avevamo allestito il banchetto prima del concerto, accanto a
quello più sfarzoso dei Solarium & Omicidi, che in una botta di altruismo c’avevano
permesso di stare lì e non relegati a distanza dal cuore degli affari. Guy si
avvicinò al tipo che gestiva lo stand di quegli altri.
“Abbiamo
già venduto un cd!”, mi annunciò tornandomi vicino, sfoderando la sua aria
trionfalistica di facciata. “Ora però dobbiamo mettere le marce alte. Chi
rimane qui fisso?”
“Tranquillo
Guy, ci sto io. Tu però promettimi di ripassare spesso e di tenere sottocontrollo
il telefono perché in questo bordello potrei aver bisogno di te e in fretta.
Tipo per andare in bagno o a bere al bar o fuori a fumare.”
“Puoi
contare su di me, principessa delle tenebre!”, mi rassicurò prima di
allontanarsi. Era una delle poche certezze della mia vita: la costante presenza
di Guy al mio fianco. Mi salì un groppo in gola a quel pensiero. Mi prese
l’impulso irrazionale di richiamarlo immediatamente. Riuscii a resistere e pian
piano a calmare i nervi.
Dopo
qualche minuto, mi girai in direzione della sala, richiamata dal boato del
pubblico. I Solarium & Omicidi erano saliti sul palco. Batterista,
bassista, che aveva davanti a sé anche vari trabiccoli elettronici, tastiera e
campionatore, e chitarrista. Si schierarono a ventaglio, lasciando un vuoto nel
mezzo. I fan continuavano a vociare. Le urla d’acclamazione furono presto
sommerse da una valanga di suoni sintetici che scatenarono il delirio.
Un
minuto di musica ed ecco apparire il cantante. E le ovazioni tornarono a
coprire i suoni che uscivano dalle casse. La silhouette del fornicatore
dominava la scena. I musicisti facevano la figura della backing band di un artista solista, impalati e tenuti in disparte
dalla debordante personalità del leader. Poi però, almeno a sentire quello che
Tazio Bautista aveva detto a Guy, avevano tutti quanti il loro momento di
gloria dietro le quinte.
Rividi
il mio socio all’inizio della terza canzone del set dei Solarium. Mi venne
accanto, sorridente ma taciturno nel marasma sonoro. Alla fine della terza
canzone decisi di provare a fare un giro. Il locale era completamente
impacchettato, era impossibile muoversi in libertà. La capienza era sui
trecento spettatori, ma l’impressione era che ce ne fosse un migliaio. Non
andai oltre il bancone del bar. Presi da bere e mi misi a guardare. E anche a
riflettere.
Già
durante il nostro concerto, l’And Vedy Tea Oh era abbastanza pieno e, romani a
parte, era esaltante esibirsi in quelle condizioni. E non era un evento così
frequente per un gruppo come il nostro.
Finito
il nostro live e partito quello dei Solarium & Omicidi, la partecipazione
era divenuta isteria collettiva. La sala, illuminata soltanto dalle luci di
palco, era un magma di teste e mani che si agitavano senza sosta. Oltre ai
display dei telefonini, che andavano su e giù da una parte all’altra.
Tutto
ciò che accadeva sul palco era riconducibile alla figura di Tazio Bautista
detto il fornicatore. Il quale alternava balletti sincopati da epilettico a
pose statuarie, di certo per consentire alle sue fan di ammirargli il fisico e
magari immortalarlo senza che le foto risultassero mosse.
Ogni
dettaglio della sua performance era evidentemente ben studiato: dal modo in cui
arringava la folla, al far ciondolare la mano che non teneva il microfono sotto
il naso delle ragazze della prima fila, finché una di loro non gli si
aggrappava e lui a mo’ di ancora di salvataggio restava lì incurvato,
continuando a cantare nel tripudio generale.
Ecco,
se a livello d’intrattenimento non gli potevo dir nulla, musicalmente i Solarium
& Omicidi erano poca cosa, un gruppetto amatoriale che solo nel triste
guscio dell’indie italiano poteva raccogliere un simile successo. Suonavano un
banale techno pop romantico inglese anni Ottanta, però schematizzato nei canoni
in voga da noi, cioè niente strofe e ritornelli immediati: al loro posto,
l’indolente andazzo da cantautori leggeri ma allo stesso tempo pallosi alla
morte, che si sentivano in dovere di sputarti in faccia le loro filosofie di
vita, che poi erano seghe mentali, però messe giù con un tono intellettuale,
così da far contenti i nostalgici della vecchia canzone italiana e i sapientoni
delle nuove tendenze indie che arrivavano da noi dopo che nel resto del mondo
erano già sfiorite da secoli.
Girai
i tacchi, non prima che Tazio Bautista detto il fornicatore approfittasse di un
break strumentale per lasciarsi cadere in braccio alle prime file e fare surf
sulla testa della gente, che in estasi lo faceva fluttuare avanti e indietro,
fino al ritorno sul palco. Fosse stato inghiottito dalle sue allupate fan,
sarebbe stato un gran finale di concerto e soprattutto di carriera. Ma era
riemerso e ce lo saremmo ritrovati tra le palle chissà per quanto. Avevo visto
tutto quel che c’era da vedere. Tornai da Guy.
“La
gente si beve proprio di tutto.”
“Io
pure”, mi rispose. “Per sopportare questa tonnara ho perso il conto di quante
consumazioni ho fatto fuori.”
“Questi
schifosi poi non verranno a comprarci nemmeno una spilla.”
“Invece
conto che qualcosa riusciamo a vendere. I Solarium giocano in casa, molta gente
la loro roba già ce l’avrà. Noi per molti siamo una novità.”
“Una
novità che non s’inculeranno di striscio.”
“Che
linguaggio inappropriato a una signora”, rise Guy.
“Signora?
Non vedo signore nei paraggi. La più elegante di queste troiette ti spara un
bel rutto mentre sta per prendere in bocca il cazzo del suo tipo.”
“Tesoro,
sei mitica quando parli da lesbica incazzata con le donne di bassa morale!”
“Perché
mi sono allenata bene. Ce ne sono fin troppe di queste cretine su cui
impratichirsi nel tiro al bersaglio. E non solo a Roma.”
“Non
che con gli uomini stiamo messi meglio. Stiamo per avere visite, a quanto
pare.”
Con
manifesto disinteresse verso i bassi istinti dei fan dei Solarium &
Omicidi, due individui si presentarono al banchino.
Uno
era Nero Giardini, e faceva parte dei Brazilian Equinotio, famoso collettivo di
area progressive. Così famoso che per me era un perfetto sconosciuto, ma ce la
menò in maniera talmente ossessiva che in cinque minuti avevo imparato a
memoria il suo curriculum.
Esteticamente
era un sunto delle peggiori caratteristiche di hipster, intellettuali bohemien e residuati degli anni
Settanta: capelli arruffati, baffetti, basco, occhiali per darsi un tono,
sgargiante camicia vintage e
pantaloni di velluto altrettanto stagionati, che per comprare quei vestiti
dovevi essere un ricco figlio di papà che giocava a far l’artista. Era bolso e
tarchiato, senza collo.
L’altro,
con Nero Giardini che ragionava di stronzate con Guy, aveva approfittato per
appiccicarmisi addosso come una ventosa. Tommaso Inattesa lo avevo sentito
nominare, era uno dei tanti cantautori della nuova scuola romana. Se già la
vecchia scuola era penosa, questi rampolli facevano addirittura rivalutare i
loro inutili predecessori.
Mi
faceva ribrezzo. Era dinoccolato e spigoloso, con un paio di ridicoli baffetti
da sparviero su quella faccia priva d’interesse. Era vestito di tutto punto,
giacca e cravatta. Cercando d’ignorare il ridicolo cappello a tesa larga che lo
faceva sembrare ancor più insignificante di quanto già non fosse.
Faceva
il galante, e siccome io gli avevo dato spago, nel senso che da principio ero
stata ad ascoltarlo, e quindi secondo lui era un invito a insistere, mi mise
alle corde con una mistura di cazzi suoi raccontati senza ritegno e domande
puerili alla sottoscritta. Ero perduta, non potevo nemmeno invocare l’aiuto di
Guy, sempre in balia di Nero Giardini.
“Me
perdonassero er francesismo se ce stanno li francesi qua in giro, io c’ho pure
stato a Parigi, ma penso che qui te fai ’na bella rottura de cojoni! Perché nun
annamo a farse du’ giri de vino de li castelli all’osteria qua de fronte, ce
sta un amico mio a servì a li tavoli.”
“Dobbiamo
restare a controllare il banchetto.”
“Aò
e ce lo so, stavo a scherzà! Però dopo, magari, anziché far chiusura co’sta
banda de sciamannati… Io sto a fa’ un concerto domani. È ’na robba informale,
ce stanno un po’ de amici, un po’ de vino e un po’ de chitare. Tanto uno er
lunedì nun c’ha mai ’n cazzo da fa’, così se semo inventati ’ste serate tutti i
lunedì. Me farebbe piacere se passi.”
“Dobbiamo
ripartire presto domani.” Rispondevo come una macchinetta, ma quello seguitava.
“Mai
’na gioia in ’sta vita, a regazzì… C’a’a musica e c’a’a scrittura. Io si nun
avrei avuto successo c’a’a musica c’a’avrei fatta c’a’a scrittura. Mo’ sto a
scrive ’r nuovo racconto mio, ’na storia de un ragazzo colle pezze ar culo che
però ebbe successo n’a’a musica e se sposa c’a’a ragazza dei suoi sogni. E come
lo finisco lo mando a li amici miei che lavoreno da un editore. E je dicessero
all’editore di pubblicarme sinnò me incazzo!”
“Anche
il mio gatto fa lo scrittore.”
“Ahahah,
anvedi, bella ’sta battuta, mo m’a’a segno, sei gajarda te! C’hai lo spleen, come se dice. Me fanno impazzì
le donne così.”
Fui
salvata dalla fine del concerto. Vedendo la fiumana che si stava per riversare
fuori, Nero Giardini e Tommaso Inattesa fuggirono per non dovervisi mischiare.
Non erano tra i finanziatori del crowdfunding
e non ci supportarono acquistando qualcosa al banchetto. Solo moine da
decerebrati per farsi belli, noi qui noi là noi su noi giù. Tommaso Inattesa,
nemmeno se gliel’avessi data avrebbe speso qualche spicciolo per un cd o una
maglia.
“Sono
sempre più vicina all’esaurimento nervoso.”
“Credevo
fossi vicina all’imbrocco del pennellone.”
“Guy,
abbi pietà di me.”
“Nessuna
pietà! Anzi, adesso ti calamito qui qualche altro fenomeno da baraccone che ci
svolterà la serata! Dal banchetto dei Solarium & Omicidi, con un prodigioso
processo di telecinesi, li devierò qui da noi. Guarda se non succede. Al mio
tre. Uno… Due…”
Capitolo 12
Simbolicamente piazzata sopra
la tazza del cesso
Rimasero
finalmente soli. Erano le ore notturne al confine con l’alba. Da fuori si
udivano tenui pigolii di uccellini e un più sostanzioso sferragliare di mezzi
motorizzati. Avevano una stanza con letto a castello, ma solo una lampada
funzionante, quella di sotto, sicché lei si ritrovò al buio non appena spenta
la luce grande. S’erano portati in camera più cose che potevano, anche
strumenti. Le cronache di furgoni di musicisti scassinati e depredati d’ogni
bene erano purtroppo assai frequenti. In quella città del cazzo, poi, nemmeno
un accendino usato avrebbero avuto l’azzardo di lasciare incustodito.
Impossibilitati
a parcheggiare la Luna in un luogo sicuro, avevano compiuto l’ennesimo scarico,
già stremati dalla serata. Pareva di stare in un ripostiglio stipato
all’inverosimile. Persino in bagno, tra spazzolini, flaconi di shampoo e creme
struccanti, facevano capolino pezzi di batteria e vari cavi di alimentazione,
mentre la valigetta con la pedaliera degli effetti di chitarra era stata
simbolicamente piazzata sopra la tazza del cesso.
“Quante
ore di sonno abbiamo all’incirca?”, domandò Vicni, terrorizzata dal guardare
l’orologio.
“Dipende
quando decidiamo di alzarci. Alle undici e trenta abbiamo l’intervista negli
studi di Radio Fregola.”
“Più
a ridosso possibile! Metti la sveglia alle dieci e venticinque.”
“Sì
dai, ce la facciamo in un’oretta, la radio è in zona.”
“Io
sono a pezzi, fratellino. E lo sarò anche quando mi sveglierò. Facciamo questa
benedetta intervista, ci godiamo il day
off lontani dall’inferno romano e l’indomani ci svegliamo pimpanti per il
prossimo concerto.”
Guy,
da sotto, confermò con la testa. Non potendolo vedere, Vicni lo interpretò come
silenzio–assenso e divenne meno apprensiva al pensiero di non addormentarsi in
tempi brevi. Anzi, la conversazione riprese quota.
“Comunque
al di là di tutto il sudiciume”, osservò lui, “il milanese romanizzato, quella
mandria di musicanti da strapazzo, quell’altra mandria informe dei loro fan
eccetera, per noi è stata una bella vetrina. Abbiamo venduto più merchandising
che nelle prime tre date del tour messe assieme!”
“Secondo
me alcuni volevano comprare la roba dei Solarium e nel casino hanno preso per
sbaglio la nostra.”
“Non
lo escludo. Prendi il quoziente intellettivo di quelli che sono transitati al
banchetto, fai la somma e verrà fuori una specie estinta di ornitorinco.”
“Ù ù ù ù ù”, fece Vicni, col gesto della
banana a corredo dell’equiparazione tra romani e primati. Si disimpegnò poi a
inveire ai danni di quell’ignorantone di Tommaso Inattesa e dei suoi patetici
tentativi d’imbrocco.
“Reginetta
di bellezza, sappi che a me è andata molto peggio”, confessò Guy, quindi le
raccontò l’esperienza avuta nell’ultima sortita fuori dal banchetto
merchandising, appena concluso l’assalto postconcerto dei fan.
Vagando
nei paraggi del camerino, momentaneamente off
limits in quanto appaltato alle voglie lubriche dei Solarium & Omicidi
e delle loro assatanate seguaci, si era imbattuto in una ragazza che,
rimbalzata dall’harem, non si dava pace per l’impossibilità di accogliere in sé
il cazzo di uno dei musicisti.
A
ben vedere, appariva ragionevole che le fossero state preferite altre femmine
per soddisfare gli appetiti dei musicisti. Era una buzzicona di proverbiale
rozzezza, con un cesto di riccioli biondi a sovrastare il viso gonfio ed
esageratamente imbevuto di fondotinta e il fisico sfatto come nemmeno dopo sei
gravidanze. I jeans xl mettevano in risalto un culo altrettanto abbondante, e
le braccia, scoperte da una maglietta con le maniche tagliate di traverso,
erano poderosi rotoli di adipe.
“Nun
me fanno entrà ’sti fiji de buona donna”, s’era lamentata, non si capiva se
parlando da sola a voce alta o rivolta al nuovo arrivato.
“Si
vede che sono al completo. I camerini sono molto più piccoli di come sembrano
da fuori”, aveva risposto un sorridente ma cauto Guy. Leggeva la fame negli
occhi di Arputeglia, e presumeva d’essere un potenziale obiettivo per il suo cenone.
“Pure
tu stavi sur palco”, aveva argomentato, confermando i suoi sospetti.
“2
Dualità. Abbiamo aperto il concerto ai Solarium & Omicidi. Siamo in tour
grazie a una campagna di crowdfunding
che in questi giorni ci sta portando a suonare varie parti d’Italia…”
Nel
tentativo di distrarla, aveva fatto un po’ di promozione, ma aveva ottenuto
l’unico effetto di ingrifare ulteriormente la ragazza, che aveva preso a
chiamarlo Guido con un’immaginifica assonanza interpretata a suo modo.
“A
me i musicisti so’ er top”, aveva proclamato Arputeglia, che nel parlare non
lesinava palpeggiamenti alle braccia e al petto di Guy.
“E
beh.” Rara occasione in cui Guy non sapeva cosa dire, e soprattutto non sapeva
cosa fare. L’istinto primario, quello di sopravvivenza, gli suggeriva di
dileguarsi nel giro di trenta secondi. Invece era rimasto alla mercé di
Arputeglia, la quale, dopo avergli fatto altri complimenti, sempre nel suo
stile non proprio da fine dicitrice, s’era infine sollevata la maglietta,
mostrandogli due tette faticosamente contenute da un reggiseno bianco,
trasparente in alcuni punti e ricamato nella zona dei capezzoli. Finanche nella
semioscurità di quell’anfratto dell’And Vedy Tea Oh, ai confini del backstage e
a un tiro di schioppo dalla perdizione, il seno ingombrante di Arputeglia si
stagliava come un totem che, rianimatosi d’un tratto, era pronto a schiudersi e
schiacciare ogni forma di vita presente nei paraggi.
“A
Guido, dimme la verità, n’n’a’hai mai viste du’ zinne come le mie. Mett’e’mani
qua!”
“Gliele
hai toccate?”, domandò Vicni, ascoltando dell’aspirante groupie all’assalto del
suo ometto così ligio alle proprie tendenze omosessuali.
“No! Cioè, lei mi ha preso le mani e me
la pigiate sulle poppe. Poi è passata al livello successivo, strusciandomi la
passera sul pacco. Ti giuro che riuscivo a sentire lo sfrigolio delle cerniere
lampo che si scontravano. Era totalmente andata! Per questo sono riuscito a
liberarmi e battere in ritirata. Mi sono scollato dicendo che se mi vedeva la
mia fidanzata, tu nella fattispecie, era la fine. Non credo abbia afferrato
appieno, ma almeno non m’ha inseguito. Fosse successo a ruoli invertiti, sarei
finito ar gabbio per molestie
sessuali!”
Fuggito
dalle profferte di Arputeglia, s’era rifiondato di gran carriera al
merchandising, risalendo dalla brace nella padella, giacché era in corso un
vertice di raffinati intellettuali, capitanati da un Cecchia scatenato.
“Aò
a regà, da paura!”, stava strepitando, cercando di coinvolgere nella sua foia
l’intero circondario. “Quando stavate a fa’ ‘Così lontani così diversi’ pareva che staveno a tremà li muri. Io
ce sto in fissa c’a’a canzone lì, me possino cecarme, hai capito come?”
“Ho
capito, ho capito, so’ capiente”, gli aveva risposto un altro romanaccio, senza
che peraltro la domanda retorica di Cecchia fosse indirizzata a lui. Questi,
peraltro, aveva proseguito a furoreggiare.
“Io
me penzo che voi siete ’r futuro d’a’a musica italiana n’a’a direzione der pop
de qualità, quello che sta contaminato co’e’e nuove tendenze de oltremanica, de
oltreoceano, de oltrecortina, me capite?”
“T’o’ho
già detto, so’ capiente”, s’inserì ancora quello. Capiente era uno dei
finanziatori del crowdfunding, venuto
a incassare la ricompensa. Era un individuo cristallinamente anonimo, fatta
eccezione per la proterva romanità. Ribadendo a più riprese d’esser capiente,
Capiente faceva da spalla comica a Cecchia in una curiosa rivisitazione del
classico duo da avanspettacolo. Nel loro caso, lo stordito che propende al
vaniloquio e il doddo che non capisce una mazza ma cerca di restare al passo,
entrando di continuo a sproposito nei discorsi dell’altro. Il sorriso di Guy
era tirato come quello di una diva del cinema in là con gli anni che s’è tolta
le rughe e rifatta le labbra dal chirurgo plastico. A un certo momento, Cecchia
se n’era andato. S’era congedato continuando a sbrodolare elogi senza costrutto
e riproponendo la confusa tiritera secondo cui quel concerto era stato
patrocinato anche da lui.
Risolta
quell’ingombrante e fastidiosa presenza, Guy e Vicni si erano dovuti cibare i
finanziatori, otto tra ragazze e ragazzi. Liberi dai vincoli imposti dallo
strapotere di Cecchia, avevano potuto sguinzagliarsi, tempestandoli di domande
e richieste, la più pressante delle quali consisteva nel rivedersi e passare
insieme la giornata seguente. Tutti, infatti, davano per scontato che 2 Dualità
avrebbero trascorso il day off nella
città eterna. Con fermezza ma fingendo rincrescimento, Guy aveva frustrato i
loro piani di devastazione psicologica, assicurando che sarebbero ripartiti
presto. Sconfitti dall’evidenza, i fan si erano fatti più mansueti, e il loro
contegno da cani bastonati aveva concesso un po’ di respiro a Guy e Vicni, che
iniziavano a intravedere lo striscione del traguardo.
“Tra
le bocce smagliate della buzzurra e quell’altra corte dei miracoli, mi sentivo
preso tra due fuochi”, ammise Guy. “Tipo scegli di che morte morire.”
“Guy,
forse dovresti iniziare a fare la rockstar a tutto tondo e cedere al calore
delle tue fan. Ti assicuro che le donne possono dare tanto!”
“Splendore
nel buio, io con le donne ci sono stato. Anche prima che con gli uomini. La
prima volta in assoluto, è stata con mia cugina. Avevamo quattordici anni. Un
giorno entrò in una stanza dove c’ero io che mi stavo spogliando. Al posto di
scappar via come ho fatto io stanotte, si avvicinò e mi chiese se poteva
toccarmi. Io m’ero tutto intirizzito e lei non aveva idea di come maneggiare un
cazzo. Lo agitò a casaccio in tutte le direzioni, senza che nemmeno mi
diventasse duro. Fece questo lavoro in silenzio, forse cinque minuti, forse
meno. Anch’io non dissi nulla, guardavo alla finestra e lei continuava a
muovere la mano senza che succedesse nulla. Alla fine smise, se ne andò e finì
lì. Poi ho avuto delle storielle, roba da ragazzini; quando facevamo l’amore,
cercavo di convincermi che mi piaceva, mentre in segreto pensavo a un mio
compagno di classe o a un altro ragazzo con cui andavo a lezione di chitarra.”
“Non
me l’avevi mai raccontato.”
“Non
me l’avevi mai chiesto. Se per questo, nemmeno io ti ho mai chiesto nulla sulla
tua inattaccabile vita privata.”
“Hai
fatto bene. Non c’è molto da raccontare.”
“Però
sarebbe carino se mi raccontassi qualcosa”, insisté lui. “Io ti ho raccontato
queste cose che non avevo mai raccontato a nessuno. Per pareggiare, anche ora
tu dovresti svelarmi un tuo segreto!”
“I
miei segreti non sono simpatici e innocenti come i tuoi. I miei segreti sono
segreti. Buonanotte, Guy.”
Da
sopra, non giunse più alcun suono, tranne il lieve brusio del respiro della
ragazza. Guy spense la luce e cercò a sua volta di dormire.
Capitolo 13
Dal mandante di questa
mattanza
Svicolando
con la stessa perizia con cui superava i pochi mezzi più lenti e arrancanti
della Luna, Vicni tornò a sollecitare Guy affinché sondasse i social network in cerca di notizie su di
loro.
“Instagram”,
comandò la ragazza, nel mezzo di un acceso duello con un camper
d’immatricolazione prebellica, che pure reggeva l’urto dei frenetici tentativi
di sorpasso del battagliero ma lumachesco minivan a pieno carico.
“Hashtag #2dualità e #2dualitàsullaluna”,
digitò Guy a voce alta. “Vediamo… Mhhh… Poca roba, ma di scarsissima qualità.
Una foto quasi decente di noi due a Spoleto. La ricondivido sui nostri canali?”
“Twitter!”,
esclamò Vicni, ignorando le argomentazioni del socio.
“Zero”,
rispose lui dopo aver consultato lo spazio virtuale dei cinguettii da
centoquaranta caratteri.
“Ma
perché gli italiani non usano Twitter?”, si lamentò Vicni. “È così comodo per i
loro cervelletti, tre righe di minchiate e lo status è aggiornato per la gioia
dei follower. Leggi che dicono su
Facebook.”
“Stellina,
navigare online a tuo nome è più
sfiancante di un’ora di circuito di esercizi cardio in palestra.”
“Facebook!”
“Ora
si comincia a ragionare. Io ho cinquantasei notifiche e dodici richieste
d’amicizia. Invece dalla bacheca vedo che tu sei taggata in seimila miliardi di
foto. Quasi più di me che sono il leader.”
“Guy,
tu sei il frontman, non il leader. Siamo una diarchia. Niente leader in 2
Dualità.”
“Per
il resto, commenti del caiser, sia sulla nostra pagina, sia sui nostri profili
personali. Bravi, bel concerto, emoticon
e altra roba del genere, poi le solite domande stile fantasia al potere, quando
venite a San Benedetto del Trento, quando tornate a Mazara del Ballo…”
“Mai
più!”
“Aò, tornate presto a Roma, daje!”, lesse
ancora Guy, imitando il ripugnante accento romanesco.
“Ci
torneremo solo col tritolo!”
“Vediamo
se c’è qualcos’altro…”
“Guarda
un po’ le pagine delle webzine, i nostri contatti che ci scribacchiano sopra,
guarda lì”, insisté lei.
“Sto
guardando!”, sospirò Guy, fiaccato dalla veemenza che Vicni metteva quand’era
alla guida e doveva demandare il controllo frenetico della vita virtuale. D’altro
canto, lo rincuorava un minimo l’interesse che mostrava, giacché lo portava a
sperare che le dichiarazioni sull’ipotesi di una pausa indeterminata non
fossero così concrete e convinte.
“Indie
Italie che dice?”, lo incalzò ancora Vicni.
“Ah,
ecco, sì, c’è il live report del
concerto di Roma.” Guy scorse rapidamente l’articolo col pollice destro. Quindi
provò a riassumere.
“Sbrodolano
scandalosamente sui Solarium & Omicidi, e il carisma di Tazio Bautista
detto il fornicatore, e i suoni e l’attitudine, e i testi che parlano a
un’intera generazione…”
“C’è
scritto anche che camminano sulle acque?”, commentò una sempre più spazientita Vicni.
Guy
proseguì nella lettura senza aggiungere benzina sul fuoco. Avrebbero dovuto
aggiungerla ben presto, visto lo sforzo cui Vicni stava sottoponendo il
malconcio motore della Luna.
“E
di noi, che dicono?”, gli chiese dopo qualche istante di silenzio.
“Un
bel cazzo di nulla… No, aspetta, ci siamo. Le ultime tre righe sono tutte
nostre! ‘In apertura gli ottimi 2 Dualità, eclettico progetto attualmente in
tour grazie ad una campagna di crowdfunding
di sorprendente successo’.”
“Ma
questo è un copia-incolla del nostro comunicato stampa!”, sbottò Vicni
inferocita. “Roba da non credere. Vai dal mandante di questa mattanza.
Controlla il profilo personale di quel trombone di Fosco
Quiličić.”
“Sei
sicura?”
“Vai!”
“Allora…
Oggi non ha ancora condiviso nulla, il post più recente è di ieri… Eh… L’ultimo
video dei Solarium & Omicidi… Sublime poesia urbana per iniziare al meglio
la giornata… Pubblicato alle 15.30…”
“L’ha
iniziata bene sì la giornata, se s’è svegliato alle 15.30 o giù di lì”, sibilò
Vicni con acrimonia.
“Centonovantatre
mi piace, ventisette commenti. E un toccante commento di Tazio Bautista detto
il fornicatore. L’emoticon del
cuore.”
“Mi
sta venendo il mal d’auto anche guidando io. Ma l’intervista, non l’hanno
pubblicata? Che cazzo aspettano? Siamo in pieno tour, l’intervista riguardava
la promozione del tour e il crowdfunding
per il tour… Facciamoci sentire! Di’ a quelli dell’ufficio stampa che mandino
un sollecito.”
“Gli
scrivo subito un messaggio. E comunque, tesorino mio, io te l’avevo detto che
quella sera allo showcase dei gruppi
della Hanno Tradito
Records dovevi imboscarti con Fosco Quiličić e dargli un po’ di bacini sulla punta
dell’uccello. L’avrei fatto io, ma quel baluba fa finta d’essere etero e non si
comprometterebbe mai con uno del suo stesso giro.”
“Bere la
robaccia putrida di Fosco Quiličić… Piuttosto mi faccio un frappé con la cicuta
come Socrate!”
“Che poi
è il classico tipo che non gli daresti un euro, ma secondo me tra i pantaloni
ha qualcosa che vale la pena d’essere esplorato”, osservò Guy senza costrutto,
quindi divagò. “Il
fatto è che la vita in tour offre tonnellate di occasioni di socializzazione,
per così dire. Non c’è nemmeno bisogno d’andarsele a cercare. Ti metti in
visione et voilà, arriva qualcuno che
ti vuol conoscere. Ti appendono una chitarra al collo, ti piazzano un microfono
davanti alla bocca, e raccatti meglio d’un pescatore che tira in secco le
reti!”
“Non
oso immaginare i gruppi famosi cosa non combinino.”
“Immagina
pure. Poi moltiplica per cento. Però non puoi negare che anche tu, sottosotto…”
“Guy,
sei tu che ripeti sempre che il rock’n’roll è tutta scena”, disse
tranquillamente Vicni, tornata in possesso dei suoi nervi dopo la sfuriata di
poco prima. “Noi interpretiamo dei ruoli perché ci conviene farlo. Io devo fare
la donna fatale d’altri tempi, e la faccio.”
“E
la fai alla stragrande!”
“Meno
male. Resta il fatto che, credimi, non ho scheletri nell’armadio. E quando
avrei potuto collezionarli? In questi ultimi anni abbiamo vissuto quasi in
simbiosi, ho passato più tempo con te che con i miei gattini amorosi Carrie e
Dawson!”
“Lo
so. Eppure sono geloso di loro!”
“Credimi”,
gli ripeté, con un’enfasi persino eccessiva, come dovesse discolparsi da
qualche accusa infamante, “le mie storie sono terraterra. Non ti racconto molto
perché potrei raccontarti solo piccole banalità quotidiane.”
“Ma
se è il mio sogno proibito da quando ci conosciamo sapere delle tue piccole
banalità quotidiane!”
“Va
beh”, concesse Vicni, divertita da quell’affettata manifestazione di euforia.
Certe volte, Guy doveva per forza essere stanco, irritato, apprensivo per
qualche problema. Eppure dalle sue casse uscivano soltanto melodie allegre e
spensierate, che diffondeva nell’ambiente. Adesso la incitava con ridicola convinzione
a narrargli episodi di cui sostanzialmente non gli importava un accidente. Fu
attraversata da un brivido di malinconia al pensiero di doversi privare della
sua presenza.
“Sai
una cosa?”, le disse subito dopo. “Sono contento che le circostanze della vita
ci abbiano fatto incontrare. Non sai mai la gente che trovi. Io sono stato
molto fortunato.”
“Anch’io,
fratellino.”
Capitolo 14
Una band di geniale pop
elettronico
Mi
pareva d’essere in giro da una vita. Parcheggiai la Luna, mi sganciai la
cintura di sicurezza e rimasi immobile, con la testa appoggiata all’indietro e
gli occhi chiusi.
“Tesoro,
tutto bene?”, fece Guy, dandomi un colpetto sulla mano.
“Sì,
sì, solo un calo di pressione. Ora mi bevo un caffè e mi ripiglio. Poi
scarichiamo la roba.”
“Certo.
Non c’è fretta. Intanto però micina mia mettiti qui accanto a me a fare un po’
di fusa.”
Passai
dal posto di guida al doppio sedile passeggeri. Mi adagiai sul suo petto. Lui
mi massaggiò piano, prima le spalle, poi sul capo, quindi di nuovo giù, come un
pranoterapeuta. Stavo per abbandonarmi a quel beato torpore, quando sentii il
suo respiro più vicino, che soffiava nella zona del mio orecchio. Al quale
dette un morso, affondandomi i denti nella cartilagine.
“Ahi!”,
strillai ritraendomi dalla sua presa. Ebbi l’impulso di mollargli un ceffone,
ma non feci altro che sollevare leggermente il braccio e farlo ricadere inerme.
“Visto?
Son bastati pochi istanti per farti tornare tutta l’energia!”, mi disse
sorridendo angelico.
“Che
cretino che sei.”
“Questo
martedì promette scintille”, divagò lui. “Non qui, temo. Se hanno reintrodotto
il coprifuoco, come sembra a vedere le strade deserte che c’han portato al
Thunder Room, auspicare un pubblico numeroso mi pare utopistico.”
“Sull’evento
Facebook c’erano sessantuno partecipanti confermati. Ne venissero anche solo
trenta–quaranta, il posto da fuori sembra piccolo, ci andrebbe bene. In più, I
Visitors porteranno qualcuno.”
“Dal
crowdfunding quanti? Nove?”
“Otto.
Uno dice che ha un impegno.”
“Chiaro,
chi non è pieno d’impegni a Carpi e dintorni il martedì sera?”
“E
Carpi sia”, sospirai, come se si potesse cambiare la location del quinto concerto
del tour sulla Luna.
Il
Thunder Room era inserito al primo e ultimo piano di una palazzina nel centro
del paese. Da fuori, aveva l’aspetto di un edificio qualsiasi, non c’era
neppure l’insegna. Solo sul portone a vetri, un foglio a4 appiccicato dall’interno segnalava l’esistenza di un circolo
ricreativo, col logo e una freccia rivolta verso l’alto a significare che c’era
da fare le scale per arrivarci. Il pianoterra era la classica casa del popolo,
con l’ampia sala bar e i vecchini che leggevano il giornale o ragionavano a
voce alta tra loro o col barista.
“Ancora
giusto quei sessant’anni e farò la loro stessa fine”, mi disse Guy precedendomi
lungo le scale.
“Il
rock mantiene giovani.”
“Sì
ma l’indie italiano al contrario fa invecchiare precocemente!”
Quanto
aveva ragione. Mi capitava spesso di pensarlo, girando per concerti oppure nei
locali della nostra città; vedevo ragazze e ragazzi più o meno della mia età,
tra i venti e i trenta e qualcosa insomma, ma che parevano morti dentro. La
nostalgia iniziava ad ammazzarli già da piccoli, poi si ritrovavano nel mondo
dei grandi e si rifiutavano di farsene una ragione, sicché seguitavano a
rifugiarsi nei ricordi del passato che spesso distorcevano per farli sembrare
più belli. Il risultato di questi giovani–vecchi che non viaggiavano, che non
facevano esperienze fuori dal loro guscio, barricati nelle false certezze del
loro piccolo mondo, si ripercuoteva anche sul ristagno della scena musicale.
Di
sopra, emerse il concetto di room del
Thunder Room. Era una stanza, giusto un po’ allungata, col soffitto basso e le
pareti rivestite di un orribile laniccio grigiastro. In fondo c’era una pedana
striminzita a fungere da palco. A metà strada tra l’ingresso e il palco, il
mixer. Per il resto, fatta eccezione per le panche a contrasto con le pareti
laterali, era tutto disadorno.
“Non
c’è nessuno”, feci notare a Guy, che se n’era accorto pure da sé.
“Iniziamo
a portar su la roba. Poi chiediamo al bar se sanno qualcosa.”
“Chiediamo
prima d’iniziare a portar su la roba.
Potrebbero aver annullato la serata; meglio evitare la fatica dello scarico se
poi è tutto saltato.”
“Ohi
ohi quanto pessimismo buttato lì a caso. Chiediamo subito al bar se sanno qualcosa!”
“Ottima
idea, Guy.”
In
realtà, quando risalimmo, trovammo due tizi, uno dei quali era il fonico. Come
prima cosa, ci dettero i buoni consumazione, da utilizzare proprio al piano di
sotto. Ci spiegarono che non avendo la licenza per gli alcolici, si erano
convenzionati col bar, facendo cassa mediante una percentuale sulle bevute che
i frequentatori del Thunder Room facevano di sotto.
“Così
tutta la sera vedremo gente schizofrenica che va su e giù di continuo, anche
durante il concerto”, dissi mentre scaricavamo dalla Luna la prima mandata di
strumentazione.
“Io
sarei contento se succedesse. Vorrebbe dire che è venuto qualcuno.”
Verso
la fine del soundcheck arrivarono I Visitors. Erano in cinque, una ragazza e
quattro ragazzi, intorno alla trentina a occhio e croce. Sull’evento Facebook
erano etichettati come “una band di geniale pop elettronico”. A giudicare dai
pezzi che accennarono al check, appena noi completammo il nostro, sembravano il
classico complesso indie folk svagato, con strumenti per lo più acustici. Erano
anche descritti con l’epiteto di “local heroes”, che voleva dire tutto e nulla.
Soprattutto nulla.
Cenammo
tutti insieme, al piano di sotto. A quell’ora, i pensionati habitué del circolo
erano rientrati dalle mogli e la sala era deserta. Il cantante dei Visitors,
che ogni tanto suonava la chitarra e l’ukulele, tenne banco con frizzi e lazzi.
Era stato il primo a venirci incontro e presentarsi appena eravamo scesi dal
palco dopo aver provato i suoni. Era uno di compagnia, e come lui i suoi
colleghi, i tipici maschi gioviali e amichevoli che c’erano in quelle terre. Al
contrario la tipa, che doveva essere la ragazza di Ronald Vegan e che aveva
delle pose da bad girl emancipata, se
ne stava in disparte guardandosi intorno con aria torva. Vista da vicino, aveva
i lineamenti di una ragazzina, pareva una diciottenne che si atteggia in modo
poco credibile a donna matura.
Ronald
Vegan, spalleggiato dagli altri Visitors, ci raccontò di quando avevano suonato
alla Festa dell’Unità di Modena nel delirio generale, con la gente che ballava
sui tavoli, rovesciando in terra piatti di lasagne e di culatello, tortelli al
ragù e bocce di lambrusco. Guy, da copione, gli dava spago, pungolando un ego
già debordante che magnificava i meriti dei Visitors ben oltre lo standard di
raccattati che sospettavo ricoprissero, persino nel loro distretto, dove lui
lasciava intendere che le masse si muovessero non appena iniziavano ad
accordare gli strumenti.
La
camicia di Ronald Vegan, un drappo variopinto di fiori psichedelici, pareva
l’uniforme di un fricchettone andato a svernare alle Hawaii. Riuscii a
inquadrarlo appieno solo dopo un bel pezzo che ci stava intrattenendo. Notai i
capelli brizzolati, strategicamente scompigliati, il pizzetto invece curato e a
sua volta sale e pepe, gli occhiali con le lenti sfumate di azzurro, le
sopracciglia finissime, i tratti del viso quasi effeminati. Mi concentrai su di
lui quando la sua fidanzata sparì dal mio campo visivo.
“Amore,
posso uscire un attimo fuori a fumare?”, gli chiese con un certo timore della
sua risposta.
“Ma
sì, bambina, vai. Rimani vicino alla porta, però.”
Lei,
improvvisamente succube del fidanzato–leader, lasciò la sala a piccoli passi.
La patina da ruvida donna vissuta era stata raschiata via da un semplice
scambio di battute. Provai un po’ di tenerezza, e di pena, per quella piccola
femmina che si sgretolava come un grissino nonostante l’apparenza tosta e
fiera. Poi pensai a come io stessa cercavo di apparire agli altri, mentre mi
nascondevo dietro l’ombra protettiva e rassicurante di Guy, anche se non era il
mio ragazzo, ed ebbi pena di me. Mi venne voglia di uscire anch’io a fumare, ma
preferii aspettare il suo rientro.
Lasciai
I Visitors a tirare acqua al loro mulino e mi accesi la sigaretta già
nell’ingresso della palazzina. Fuori, vidi avvicinarsi una dozzina di persone.
Pareva una classe delle medie in gita per la prima volta fuori dalla loro
città. Solo che erano grandicelli. Intuii che fossero i fan, come li reputava Ronald
Vegan, o gli amici, come credevo io, venuti a dar supporto ai Visitors. Feci
finta di starmi accendendo in quel momento la sigaretta, riparandomi dal vento
per non far spegnere la fiamma dell’accendino, così gli voltai la schiena
mentre arrivavano all’ingresso. Mi superarono come se non esistessi. Durò poco,
però. Ero rimasta fuori anche dopo aver schiacciato la sigaretta nel vaso,
quando fui raggiunta da tutta la banda. Nel mezzo c’era pure Guy. Venne da me
trascinandosi dietro uno dei tizi entrati pochi minuti prima.
“Ecco
il nostro fan che doveva venire a cena ma è stato rapito dagli alieni, che per
fortuna ce l’hanno restituito a tempo per il concerto!”, mi annunciò gaio,
presentandomi Sottogorino. Capii al volo le sue mire. Sottogorino era alto pressappoco
quanto lui e all’incirca della stessa età. Era vestito un po’ dimesso, da nerd,
e appariva a disagio, intimidito dall’euforia collettiva e forse di più da
quella di Guy. Però aveva un viso intenso, espressivo nei tratti più marcati
come le labbra e il mento, e lo sguardo era vivido.
Io
me ne stetti per conto mio senza interagire granché. Ebbi solo la presenza di
scattarmi un selfie di modo che sullo
sfondo si vedesse il capannello di gente pronta a gremire il Thunder Room di
Carpi. Pubblicai la foto a reti unificate su Instagram, Facebook e Twitter e
proseguii il mio isolamento. Guy e Sottogorino, poco distante, parlavano fitto.
Uno sorrideva e dava di gomito, l’altro faceva di sì con la testa, scrollando
il caschetto nero.
“Forza
ragazzi, basta fare le persone serie: è ora di giocare alla musica!”, proclamò
Ronald Vegan, richiamando all’ordine la brigata e comandando di tornare di
sopra. Il suo scopo era chiaramente serrare le fila e avere i suoi legionari
sottopalco. Lo status di trascinatori di folle che millantava non avrebbe
dovuto farlo abbassare a quei mezzucci.
Tutti,
compreso Sottogorino per la disperazione di Guy che con l’inizio del concerto
avrebbe avuto margine di manovra per lavorarselo con calma, furono costretti a
seguire le direttive di Ronald Vegan. Noi due ne approfittammo per prenderci
qualche minuto di stacco dal chiasso che si stava trasferendo su.
“Dev’esser
divertente far parte del giro dei Visitors, sul serio”, disse Guy. “Fanno pena
musicalmente, però sono simpatici. Il problema è che diventa un club privè, dove sei onorato d’essere
ammesso però non ti lasciano più uscire. C’è il concerto di 2 Dualità, che ti
piacciono un sacco e non li hai mai visti, hai addirittura la possibilità di
cenarci insieme, ma non puoi farlo perché tutti gli altri arrivano a una
cert’ora e sei costretto a star appresso ai loro comodi. Riesci infine a
conoscere il gruppo, il cantante ti fa un sacco di feste, ma sul più bello
inizia il concerto dei tuoi amici e sei costretto a star appresso ai loro comodi.”
Guy
mi propose poi di unirci alla festa e
salire a vedere cosa combinavano I Visitors. Con l’abituale pantomima, mi prese
per mano, e come bambini iperattivi facemmo le scale saltellando a due a due i
gradini.
In
effetti, la musica dei Visitors era atroce. Quanto erano spigliati e cazzoni
prima di salire sul palco, tanto pesantemente si prendevano sul serio
nell’imbastire canzoncine senz’arte né parte.
La
ragazza di Ronald Vegan stava in penombra, a testa bassa in piedi accanto alla
batteria. Picchiettava su uno xilofono, che si sentiva a malapena, e su una
tastierina synth tipo la mia, più amalgamata nel suono, ma la usava talmente di
rado che risultava inutile al livello dello xilofono. Come in precedenza, tornò
a farmi pena. Stavolta però mi vidi sul palco, nelle parole dei fan e dei live report delle webzine, e non ebbi lo
stesso rigetto avuto a tavola, quando lei aveva chiesto il permesso d’uscire. 2
Dualità erano stati una ventata di novità per la scena indie, e i nostri
concerti lasciavano il segno per la qualità delle canzoni e dell’esecuzione ma
anche per come ci ponevamo noi.
Il
batterista, che durante la cena aveva un giubbetto da paninaro, se l’era tolto
e sfoggiava una maglietta blu con logo giallo stampato all’altezza del cuore.
Non capivo cosa fosse, forse il nome della ditta per cui lavorava. In ogni
caso, era un pessimo modo di presentarsi di fronte a un pubblico, pur se
composto di amici e parenti, oltre ad alcuni nostri fan che finalmente
iniziavano ad apparire nel locale, qualcuno era venuto a salutarci mentre
assistevamo al concerto subito dietro la claque
dei Visitors.
“Io non capisco”, dissi all’orecchio di
Guy, senza nemmeno urlare, dato che il volume della musica non era troppo
potente. “Perché devono sforzarsi di sembrare così sciatti? Il batterista è
vestito come dovesse fare un trasloco.”
“Oppure come il backline che monta e smonta il palco. Forse è proprio lui. Il
batterista non poteva venire e come rimpiazzo non hanno trovato di meglio del
tipo del backline!”
“Scendo a bere una cosa, Guy. Ho visto e
sentito abbastanza dei Visitors. Per stasera e per il resto dei miei giorni.
Vieni con me?”
“Se non ti spiace ti aspetto qui,
tesoruccio.” Nel rispondermi, scrutava il volto di Sottogorino, girato di tre
quarti e rivolto verso il palco.
Presi
l’ultima birra giù. Il concerto dei Visitors stava per finire. Era tempo di
cambiarsi d’abito. Per la seconda e ultima volta, avrei suonato tutta in nero,
gilet, gonnellino e collant, tranne la camicetta bianca.
Capitolo 15
Tra i senza patria
dell’underground
Mi
arrivò una folata di fumo dritta in gola. Il suo finestrino era aperto, ma la
nuvoletta grigia era comunque rimbalzata fino al lato conducente, dove sedevo
per il mio turno di guida su un ramo autostradale della bassa padana. Mi
astenni dalle classiche schermaglie sul fumo passivo che rischiava di
compromettere la mia ugola.
Eravamo
in una situazione paradossale. O forse nemmeno più di tanto. Forse era tutto
logico e lineare. Avevamo intrapreso l’esperienza più significativa dacché
avevamo creato 2 Dualità: il tour sulla Luna, che speravo potesse lanciarci ad
alti livelli nel panorama italiano, nonostante l’ostracismo di Indie Italie e
altre menate di cazzo. E nel bel mezzo del tour, ecco che Vicni mi veniva a
dire che voleva prendersi una pausa. Qualcosa nel suo comportamento lunatico
aveva fatto scattare un allarme nella mia testa. Passavo le giornate
inventandomi tattiche che mi permettessero di scansare quel pensiero. Il
pensiero che tutto stesse per finire. L’indomani, non appena fatto l’ultimo
concerto del tour.
Sebbene
fossimo alle strette, continuavo a cincischiare, come se non accettando l’idea
che stessimo per dividere le nostre strade, questo potesse non succedere. Il
che m’impediva di prendere la questione di petto, parlandone con lei e
costringendola a dirmi il perché e il percome. Sempre che lei stessa avesse una
posizione chiara in merito. E neppure di ciò ero sicuro.
L’unico
segnale della presenza di Vicni all’interno della Luna, in quel momento, era il
fumo della sua sigaretta. Oltre al riflesso del display dello smartphone sul finestrino, pesticciato
dalle sue dita smaltate di nero. Ebbi per l’ennesima volta paura d’indagare.
Perciò mi misi a parlare d’altro.
“Stamani
un mio amico ha condiviso su Facebook un video dei Missili Intelligenti, un
gruppo in cui suonavo la chitarra secoli fa. Era una serata di gruppi delle
scuole. Le riprese erano mosse e sfocate, doveva averle fatte la mamma del
batterista, o il papà, non ricordo.”
“Missili
Intelligenti. Bel nome”, si limitò a commentare Vicni.
“Missili
Inconcludenti sarebbe stato più azzeccato. Uno dei tanti gruppi senza
prospettive di cui ho fatto parte. A quindici, sedici anni, m’interessava
suonare il più possibile, la quantità mi sembrava molto più allettante della
qualità. In zona si era sparsa la voce, sicché oltre alle band di cui ero
membro, quando da qualche parte mancava un musicista, chiamavano me a tappare i
buchi. Ho fatto addirittura dei concerti nei pub con una cover band di rock
blues insieme a dei tizi che avevano più del doppio dei miei anni, quarantenni
o giù di lì. Ci suonavo il basso, proprio come quand’ho fatto il provino che
c’ha permesso di conoscerci. Lì per me è cambiato tutto. La prospettiva è
girata dall’accumulare punti sulla tessera fedeltà allo sviluppo di un progetto
musicale con un’identità forte, che non a caso c’ha portato i frutti migliori
della nostra carriera. Almeno fino a questo momento. È stato anche un processo
abbastanza brusco: il giorno prima a cazzeggiare in sala prove, il giorno dopo
mano nella mano con te a plasmare 2 Dualità e invadere gli spazi stantii
dell’indie!”
“Guarda
il cartello Guy, c’è un’area di servizio tra due chilometri, ti va se facciamo
una sosta? Ho bisogno di andare in bagno.”
“Ok.
Ne approfittiamo per mettere benzina”, risposi con rassegnazione.
Scendemmo
dalla Luna. Il piazzale era male illuminato. Poche auto, più che altro tir, che
troneggiavano nello spazio loro dedicato, dal lato opposto rispetto a dove
c’eravamo fermati noi. La coltre di fine nebbiolina non contribuiva a rendere
più ameno lo scenario.
“Mi
sento un’aliena”, disse Vicni a mezza voce, come se avesse remore a squarciare
l’alone di morte che permeava il pit-stop
della Luna in quel lugubre non luogo. Si accese una sigaretta, senza mostrare
l’impulso di fare pipì che l’aveva portata a proporre di fermarci. Guardava
davanti a sé con aria immalinconita, in direzione dei campi al di là della
recinzione.
Appena
fummo dentro l’autogrill, anch’io ebbi la sensazione d’essere un corpo
estraneo. Non solo a lei, ma all’umanità che ci circondava. E se in passato
avevo avuto simili sentori, che tuttavia mi rendevano fiero d’essere diverso,
adesso erano le controindicazioni a prevalere e darmi insicurezza.
Stava
iniziando ad andare in malora. Per di più, senza che riuscissi a capirne il
motivo. Ecco cosa mi angustiava sopra il resto. Dovevamo parlare. Avevo bisogno
di certezze, ma mi sarei accontentato di semplici risposte.
Nella
coppia, ero io quello rassicurante e con la situazione sottocontrollo. Era un
ruolo che mi veniva facile. Avere persone che si mettevano nelle mie mani,
anziché provocarmi pressione, mi spingeva a dare il meglio. Con Vicni aveva
sempre funzionato così: i problemi li risolvevo io, persino quelli creati da me
medesimo. Adesso, però, qualche forza oscura remava contro il regolare flusso
della vita: altri dischi, altri concerti, altre campagne social eccetera. Nulla di più normale, e anche semplice, volendo.
Invece la faccenda mi stava sfuggendo di mano.
Ci
riavviammo verso la Luna. Vicni camminava un passo dietro a me. La attesi alla
portiera del lato passeggero, che aprii con gesto da cavaliere d’altri tempi.
Le porsi la mano, come per aiutarla ad affrontare salite ben più irte dei dieci
centimetri di predellino della Luna. Mi portai la sua mano alle labbra e la
baciai. Ripartiti, ero ancora preda della pesantezza d’animo che mi tormentava.
Però era necessario affrontare quei demoni e provare a capire cosa le passasse
per la testa. Per prima mossa, decisi d’affettare un tono scherzoso.
“Stellina mia bella, potrei sapere
cos’hai intenzione di fare dopo la fine del tour, visto che hai deciso che
dobbiamo fermarci a tempo indeterminato? Desiderio di maternità? No! Sei una
fottuta lesbica che non ha queste velleità, né altre, tipo l’utero in affitto…”
“Piantala con queste cazzate, Guy, per
favore”, cercò di tagliar corto lei, girata ostinatamente verso il finestrino.
“Ho ventisei anni…”
“E io ventitré!”, la interruppi,
sperando di ricondurla alla ragione. “È questo il momento. Dobbiamo cavalcare
l’onda. Siamo in una specie di limbo, molto al di sopra dell’anonimato ma c’è
ancora parecchio lavoro da fare. Eppure, basta poco per perdere quanto abbiamo
conquistato ed essere di nuovo sprofondati tra i senza patria dell’underground.
Tesoro, se ci fermiamo proprio ora rischiamo di compromettere tutto ciò che per
noi…”
“Tutto ciò che per te, Guy”, mi gelò dandomi lo stesso effetto di un cazzotto alla
mandibola. Quindi la sua voce divenne meno ferma. “Io avevo semplicemente
bisogno di una buona scusa per staccarmi da quel giro di simpaticoni, tipo i
tuoi amici del Platino Picchiatore, perché sai cosa?”
Era passata in un istante
dall’irremovibile fermezza con cui si era di fatto chiamata fuori dal gruppo ai
confini della crisi di pianto. Però non capivo cosa c’entrassero quelli del
Platino Picchiatore, un collettivo dark wave abbastanza conosciuto dalle nostre
parti, organizzavano serate, concerti e dj set sotto varie sigle e nomi d’arte
ma erano sempre i soliti a spartirsi le mansioni.
Con uno di loro, a dire il vero, avevo
avuto una relazione. Era bisessuale dichiarato, cosa che in quell’ambiente era
meno sconveniente che altrove, almeno così si diceva. Erano stati più che altro
incontri sessuali, anche piuttosto divertenti, ma dopo un po’ c’eravamo
distaccati.
Vicni aveva collaborato con loro,
suonando sia in studio sia live con uno dei tanti progetti riconducibili al collettivo,
i Platinum Inc., che rappresentavano l’incarnazione più gotica e necessitavano
di suoni percussivi e tribali al posto dell’abituale drum machine.
Attesi che recuperasse un minimo
d’equilibrio e mi spiegasse, ma non lo fece. Riprese a parlare del nostro
presente e futuro.
“Poi le cose hanno preso una piega, sì,
insomma, un piccolo successo, se vogliamo chiamarlo così. E fare musica con te
è fantastico. Tu sei fantastico. Questi anni sono stati i migliori della mia
vita!”
“Però per motivi che ti rifiuti di
spiegarmi hai deciso di far festa.”
“Non lo so”, sospirò, quasi col fiatone,
come stremata dopo una maratona.
Mi sembrava di avvertire la sua stessa
stanchezza, di accumulare dentro di me tutto il malessere che la opprimeva. Mi
venne da piangere, ma tirai su col naso e riuscii a mantenere gli occhi
asciutti.
“Non lo so”, ripeté sconsolata,
reclinando la testa all’indietro.
Feci un gran respiro. Le cose non si
mettevano per niente bene. Stavo per arrendermi, sperando di trovare in seguito
la forza di tornare sull’argomento, quando fu lei a parlare nuovamente.
“Non è il momento di fare certi
discorsi. Guy, io ti adoro e adoro 2 Dualità. Sono eccitatissima per questo
tour, i fan che hanno raccolto i soldi per farci suonare, tutto… mi sembra di
vivere un sogno.”
“Anch’io ti adoro, pazzerella”,
ribattei, lievemente rincuorato dal suo tono più conciliante. “Per questo
vorrei che non finisse mai. Siamo una potenza inarrestabile insieme! Meno male
sei una donna, altrimenti c’è il rischio che m’innamorerei di te e il gruppo
andrebbe in malora!”
“Tu ripeti sempre che musica e amore
devono rimanere separati. Io però preferirei mille volte stare in un gruppo con
la mia partner piuttosto che con finti amici che approfittano di te nei modi
più vili.”
Rieccola con le mezze frasi sibilline da
cui avrei dovuto dedurre ogni dettaglio, mentre potevo solo fare teoremi
campati per aria. Perciò mi rassegnai a non cavar nulla e m’impegnai a
sgombrare la mente. Il sesto e penultimo concerto del tour sulla Luna, al Pino
Wine Bar di Desenzano del Garda, destinazione prescelta per l’area
lombardo–veneta, incombeva e volevo essere sul pezzo con corpo, cuore e testa.
“Vicni”, iniziai a dirle, chiamandola
per nome, cosa che quand’eravamo soli non facevo mai, “io non so cosa ti sia capitato,
e non sono in grado di indovinare. Però sappi due cose: uno, quando vuoi
parlare, io ci sono e ci sarò sempre; due, sai che di me ti puoi fidare. Ti
devi fidare! Ora infatti spengo Spotify e metto un bel cd di quelli che
piacciono tanto a te. Ti fidi, vero?”
“Mi metti i Cure?”, domandò lei,
ravvivatasi d’un tratto.
“Dopo”, sibilai biecamente. “Adesso i
Social Distortion! Salutari come pochi per sgranchirsi il collo incriccato dalle
ore al volante! E a seguire, compilation di revival beat italiano anni
Ottanta!”
“E poi i Cure.”
“Se il traffico rallenterà la nostra
tabella di marcia, sì”, ghignai. “Perché se i miei calcoli sono esatti, ed io
su queste cose sono più preciso del GPS, il tempo di questi due cd dovrebbe
servirci per arrivare a destinazione.”
“E i Cure?”
“Slittano al tuo turno di guida, baby
boom. Conosci la regola. Inutile che te la ripeta: chi guida sceglie la
musica.”
“Tu e le tue regole”, brontolò Vicni.
“Dandosi e seguendo le regole si va
lontano. Per questo devi fidarti di me”, rincarai.
“Io mi fido di te. Il problema è che tu
ascolti musica inaffrontabile.”
“Ha parlato Miss Orecchio Fino. Ma almeno su una cosa siamo d’accordo, vero?”
“L’indie italiano degli anni Dieci è una
cagata pazzesca!”, gridammo in coro. Ci stava tornando un accenno di sorriso e
di buonumore. Al contempo, pensavo a quanto mi sarebbe mancata quella creatura
seduta al mio fianco, se davvero i nostri destini avessero preso direzioni
diverse.
Alzai il volume. I Social Distortion
presero possesso dell’abitacolo. D’istinto, il mio piede fu più solerte
sull’acceleratore.
Capitolo 16
Come la persona più normale
del mondo
Il
Pino Wine Bar di Desenzano del Garda, tolta la ridondante patina anglofona del
nome, era niente più di un’osteria, rivestita in legno stile baita pur
trovandosi in riva a un lago. Per motivi imperscrutabili, aveva una
programmazione musicale, di cui il mercoledì rappresentava il momento clou,
tant’è che ci suonavano anche nomi abbastanza affermati del panorama italiano,
intercettati nei day off e pertanto
ingaggiati a cifre più convenienti. 2 Dualità avevano dunque la speranza, ad
onta del giorno infrasettimanale per antonomasia, di trovarsi in una situazione
più reattiva della sera innanzi a Carpi.
L’incertezza
sul futuro oscillava sopra le loro teste come un trapezista durante un numero
circense. Guy si sforzava di non mutare il suo contegno, dovendo passare la
serata tra la gente ed essere l’animale sociale di sempre.
Entrando
nel locale, si videro venire incontro un uomo rubicondo, dall’età indefinibile
tra i trenta e i quaranta e oltre. Era sul metro e settanta, altezza che ne
faceva risaltare ancor più l’opulenza. Portava un pesante e sciupato maglione
di lana color crema, con la zip e il cappuccio in testa, e ruvidi pantaloni blu
scuro da cercatore di funghi.
Romaldio
si rivolse ai nuovi arrivati biascicando un’incomprensibile forma di saluto e
guardando da un’altra parte a causa dello strabismo. Batté i piedi in terra
come per mettersi sull’attenti. Gli scarponi col tacco rinforzato fecero un
rumore sordo sul pavimento in cotto.
“Bel
posticino davvero”, commentò Guy con convinzione, dando uno sguardo d’insieme
al Pino Wine Bar. Ai lati del corridoio centrale, erano disposti tavoli e
tavolate, sedie e panche. Sulle pareti, stampe incorniciate, soprattutto di pop art, oltre a foto scattate nella
sala, raffiguranti presunte celebrità passate di lì. In fondo, lo spazio andava
ad allargarsi: sulla sinistra, il bancone del bar, alle cui spalle una
porticina conduceva alle cucine; sul lato opposto, delimitato da un arco a
volta, anch’esso in muratura, era piazzato il palco, nettamente il più
striminzito tra quelli del tour sulla Luna. Se lo sarebbero fatto bastare.
“Iniziamo
a montare?”, domandò Guy, rivolto tanto a Vicni quanto a Romaldio. Fu
quest’ultimo a rispondere, offrendosi di dar mano e rendendosi disponibile
all’istante per aiutarli nel soundcheck. Guy declinò la prima offerta e si mise
a scaricare la Luna con l’ausilio della compagna. Rifletterono se non fosse il
caso, date le ristrettezze del palco, di rinunciare a qualche pezzo della
strumentazione, ma decisero infine di portarsi tutto quanto. Avrebbero onorato
il tour fino alla fine.
Ben
presto, realizzarono che Romaldio, oltre a essere il fonico, era il direttore
artistico, colui che serviva i clienti dietro il bancone, nonché il
proprietario del locale. Fino all’ora di cena, ci furono solo loro là dentro.
Erano attesi tre finanziatori del crowdfunding,
ma non se ne presentò nessuno. In compenso, la sala iniziò a riempirsi di
avventori che venivano per mangiare.
“A
meno che non se la prendano estremamente comoda, questi saranno già spariti da
un’ora quando inizieremo a suonare”, fece notare Guy. “Il gommone dice che il
pubblico dei concerti arriva sul tardi, e riempie il doppio della gente che c’è
adesso. Speriamo…”
“Se
già non si fanno vivi i fan del crowdfunding…”,
ribatté sconsolata Vicni. Si rianimò quando, in testa al drappello di cameriere
(in realtà appena due) da poco entrate in servizio, comparve la caposala.
Fidanzata
storica di Romaldio, Sissy Kolivanowski era rimasta alle sue dipendenze anche
dopo la rottura della loro relazione sentimentale. Pareva il contraltare
dell’ex: biondissima, alta ed esile, androgina ma dai lineamenti somatici
delicati. La accomunavano a lui una certa rudezza nei modi e il look non
proprio da gourmet a cinque stelle:
svettando su un paio di stivaloni neri, Kolivanowski sfoggiava un fisico quasi
da top model, con degli hot pants in
denim e una canotta sfrangiata che si fermava molto sopra l’ombelico.
Impartendo
ordini con voce roca e mascolina, Kolivanowski sistemò i primi avventori,
andando poi a unirsi a Romaldio, il quale si era accomodato al tavolo riservato
a 2 Dualità in attesa che gli fosse servita la cena.
Vicni
ebbe un fremito mentre quella pertica snodabile li raggiungeva, curvandosi
leggermente in avanti di modo da mostrare la fascia elasticizzata nera che le
copriva il seno. Si scambiarono un’occhiata, quindi Romaldio, col rantolo da
etilista che era il suo modo di parlare, fece le presentazioni.
“Vi
piace il Pino Wine Bar? È tutto di vostro gradimento finora?”, domandò ai
musicisti.
“Guarda,
già ci sentiamo come a casa nostra qui. Domani abbiamo un altro concerto, però
se volete venerdì torniamo volentieri a suonare da voi!”, replicò allegramente
Guy. Vicni confermò con un sorriso.
Romaldio
intanto si era sfilato il maglione, rimanendo con una maglia col logo
neroarancio Harley Davidson, sformata dall’adipe. Sotto la manica destra
spuntava la parte finale di un tatuaggio mentre, senza il cappuccio, spiccava
la testa pelata. Vicni, inorridita, si domandava come la diafana Sissy
Kolivanowski avesse potuto concedersi a un simile bruto. Tuttavia, studiando i
modi spicci e poco fini della ragazza, si arrese all’evidenza che in fondo quei
due erano animali del medesimo branco ed era nella logica che si fossero
trovati, e che proseguissero a frequentarsi anche al di fuori di un rapporto
ormai estinto. Proprio com’era accaduto a Guy e lei: creature accomunate da
un’urgenza artistica che le aveva inevitabilmente attirate l’una verso l’altra.
Non c’era stato amore né sesso tra loro: ma forse un legame addirittura più forte.
E lo avvertiva anche in quelli che rischiavano di essere gli istanti finali
della loro Luna di miele.
Lo
stesso Guy stava facendo onore alla tavola, in particolar modo al vino della
casa, sicché i racconti che il factotum del Pino Wine Bar sciorinò gli
apparvero mirabolanti. Le paturnie, per un po’, svanirono dalla sua mente.
Una
cameriera passò di lì con una brocca d’acqua. Guy la stava per ringraziare del
servizio, che gli sarebbe stato utile per sciacquarsi un po’ la bocca impastata
dalle cibarie e soprattutto dal vino. Fu però dissuaso dall’uscita perentoria
di Romaldio.
“L’acqua
la smarze i pali par fora, figurate par drento”, ammonì la ragazza, che
fece un impacciato dietrofront.
“È
un modo per dire tipico di chi apprezza la bottiglia”, spiegò Kolivanowski,
traducendo sommariamente quel motto da alcolizzati.
“Il
Veneto è terra di serial killer”, sentenziò poi il corpulento anfitrione, che
teneva testa con irrisoria semplicità alle doti di bevitore di Guy. “Che poi
passano la frontiera e si nascondono qua da noi. S’inventano un lavoro e una
vita normale, eh, per dire. Poi una mattina apri il giornale e vedi che lo
hanno arrestato e dici: quello era uno dei butei che veniva qua a pranzo la
domenica!”
“Quanti
ne abbiamo avuti, qui?”, arringò Kolivanowski.
“Ma
tanti!”, confermò Romaldio raccogliendo l’assist. “Due, tre… Quello che
ammazzava le prostitute vicino Belluno, e dopo le violentava. Stava qua in
centro di Desenzano.”
“Ah!
Pure necrofilo!”, sbottò Guy.
“No,
no pedofilo”, lo corresse
puntualmente Romaldio. “Le prostitute, le puttane, per dire. Negre, dell’est,
dell’Unione Sovietica. Ma maggiorenni. Lui le caricava in macchina, andavano in
un posto isolato e lì gli metteva un sacchetto di plastica in testa e le
soffocava. Poi se la spassava col cadavere. Ne ha fatte fuori quattro prima che
l’han beccato. E tutte le domeniche per dio era a quel tavolo là accanto
all’ingresso a mangiare e a bere come la persona più normale del mondo.”
“Ha
fatto bene a sistemarle quelle quattro lucciole là. Così non rompevano le balle
per volergli infilare il preservativo anche per ciucciargli il cazzo! Battono
dalla mattina alla sera e vogliono fare le dive. E allora glielo metteva lui in
testa il preservativo!”, fu la pragmatica deduzione della bionda responsabile
di sala, che se la rise alla grande.
“Interessante
lettura psicologica”, osservò Vicni. Il corpo libidinoso di Kolivanowski le
appariva ancor più remoto della sua testolina di cavernicola non rieducata.
Terminata
la disamina sui serial killer habitué del Pino Wine Bar, Romaldio continuò a
imperversare, narrando di risse scatenatesi all’interno del suo locale, per lo
più nelle serate dove c’era musica dal vivo. Guy lo ascoltava con crescente
rapimento.
“L’anno
scorso, di questo periodo, avevamo qui la Desenzano Fusion Street Band. È una street band che suona fusion”, spiegò
pleonasticamente Romaldio. “Sono tranquilli, musica da ascolto, per dire, mica
da ballo o da scatenarsi. Li facciamo venire due o tre volte l’anno. Iniziano a
suonare già all’ora di cena e vanno avanti fino alla chiusura. Si fermano,
mangiano e bevono anche loro, poi ricominciano a suonare. E poi ogni tanto
suonano in mezzo ai tavoli, come una street
band.”
“Come
una street band che suona fusion”,
ripeté sghignazzando un Guy sempre più ubriaco.
“E
in questo concerto dello scorso anno, il chitarrista stava suonando in mezzo ai
tavoli, e io lo aiutavo a srotolare il cavo per non farlo impigliare da nessuna
parte. Però si è impigliato lo stesso, e lui per liberarsi ha dato una spinta
che ha fatto cascare in terra la forchetta a un cliente che stava mangiando il
porco arrosto. No un piatto o un bicchiere, solo la forchetta è cascata.”
“Ma
quello là era già ciucco”, s’inserì Kolivanowski. “E ha dato di matto, voleva
picchiare il chitarrista. Allora gli altri butei al tavolo con lui han provato
a calmarlo, ma lui ha iniziato a picchiarsi con loro! Da lì, tutti i tavoli
vicini si son riempiti di gente che voleva partecipare. E hanno iniziato a
volare cazzotti per tutto il locale!”
“E
il chitarrista, che aveva lui fatto partire le botte, aveva ricominciato a
suonare sul palco, facendosi finta che lui non c’entrava nulla. Non andava mica
bene, eh. Allora la Sissy gli è andata sotto a muso duro per farlo partecipare
alla scazzottata!”
“Gli
ho detto: ‘Vai
se no te ciapo e te verzo come un capuzzo!’”, si vantò Sissy, mimando la
messa in pratica di quella minaccia. Non c’era da scherzare con l’indole
battagliera di quella donna dall’apparenza tanto fragile.
“Wow!
Radicale distruttivo!”, si complimentò Guy, totalmente asservito al clima di
sfrenata ebbrezza che pareva essere di prassi al Pino Wine Bar.
Sopraggiunsero
altri clienti, e Kolivanowski ebbe il suo daffare in sala, sicché andava e
veniva dal loro tavolo. Anche Romaldio dovette tornare alle sue molteplici
mansioni. Guy e Vicni conclusero la cena da soli al tavolo.
“Stasera
non so se resisterò all’impulso di togliermi la camicia durante il concerto!”,
proclamò Guy. Fiumi d’alcol gli circolavano in corpo in sostituzione del
sangue. Era già positivo che non intendesse scatenare a propria volta una
megarissa. Mostrarsi a torso nudo sarebbe stato un atto di ubriachezza in fondo
poco molesta. Vicni gettò un ultimo sguardo al fondoschiena tonico di Sissy
Kolivanowski, in bella vista a pochi metri da lei, quindi uscì per fumare.
Capitolo 17
Un passo indietro rispetto al
carismatico frontman
Abusando
di un luogo comune, incendiammo il posto. Né il fatto che Guy fosse ubriaco
perso, né il clima oppressivo che si stava creando tra noi: nulla poteva
intaccare la nostra intesa sul palco. Era come se un fluido magico rimbalzasse
tra me e lui, facendoci sprigionare un’energia pazzesca.
Avevamo
iniziato non molto dopo esserci alzati da tavola. Io mi ero cambiata in fretta
e furia, mettendomi il tailleur con pantalone come a Spoleto. Guy aveva
mantenuto la promessa: s’era presentato con una camicia sgargiante che
ricordava le giacche dei toreri, verde con risvolti dorati su colletto e
maniche, e alla prima pausa, dopo tre pezzi, se l’era tolta.
Per
me era facile lasciarmi trascinare dalla sua carica, sentivo che avrei potuto
suonare per ore senza fermarmi. In più, le occhiate intense con cui
radiografavo il pubblico fino a trapassarlo con la precisione di un bisturi
(stupida metafora chirurgica scritta da una tipa in un live report pubblicato online), erano mirate alla caposala, che
continuava ad aggirarsi là intorno.
Il
nostro impeto era stato ricambiato da chi era venuto a vederci. Gli spettatori
ci fecero sentire il loro calore alcolico. Dai tavoli si levava un gran vociare
quando finiva una canzone, e ben presto si levarono direttamente loro,
pigiandosi a ridosso del palco, tanto che avevo temuto che una caduta domino ce
li scaraventasse contro, sfasciandoci ogni cosa. Ma in modo o nell’altro erano
riusciti a contenere l’euforia a un livello a noi non nocivo.
Guy,
circondato da forsennati, era nel suo habitat naturale. Interagiva con le
persone, moltiplicava le pose, si muoveva come un giocoliere con chitarra a
tracolla, cantando e saltando contemporaneamente, fino a interpretare un’intera
strofa di “Continua” fuori dal microfono, sulla faccia di chi gli stava di
fronte.
Io
su “Continua” mi ero alzata in piedi, dando le spalle al pubblico. Dovendo
ottimizzare gli spazi, avevamo incassato la tastiera contro il fondo del palco.
Così girata, ancheggiavo con un moto lento e circolare, al tempo della canzone.
Guy mi ripeteva a nastro quanto ai ragazzi piacesse vedermi fare quelle mosse.
Io non riuscivo ad abituarmi all’idea che gli uomini potessero eccitarsi con
una come me. Eppure pareva essere così, quindi sfruttavamo questo mio presunto
lato sexy, anche nelle sessioni fotografiche. Era buffo: in quasi ogni foto
Guy, che era il cantante oltre che un bellissimo ragazzo, restava in secondo
piano, a volte addirittura un po’ sfocato.
Poi,
sul palco, lui riprendeva il timone di comando ed io lo seguivo. Persino sui
pezzi cantati da me, come “Asma cardiaca”, il suo sorriso spadroneggiava su
qualunque altro dettaglio. Per la mia ritrosia a stare sotto i riflettori,
avere accanto qualcuno che catalizzava l’attenzione era stato un toccasana. Avevo
il mio spazio, la mia visibilità, ma ero felice dello status di batterista
sopra le righe ma sempre un passo indietro rispetto al carismatico frontman di
2 Dualità.
Ci
furono parecchie sbavature, ma la nostra performance era così trascinante da
ovviare agli errori di esecuzione. Finì che ci chiesero i bis. Rifacemmo “Quasi
uguali quasi diversi”, con la fettina di area sottopalco che ribolliva di
sudore e aromi di vini e birre. Siccome non ci volevano fare andar via,
servimmo un’ultima portata: la cover di “Seven nation army” dei nostri padrini
White Stripes. Sul ritornello strumentale, tutti si scatenarono col popopopopopo, tormentone passato dai
locali per concerti agli stadi di calcio.
Fu
uno dei nostri migliori concerti, non solo del tour sulla Luna, ma in assoluto.
Tuttavia l’atteggiamento dei presenti, come ci aveva spronato in sede live, ci
affossò subito dopo. Un minuto più tardi, infatti, i due musicisti esaltati
dalla folla non erano più cagati da nessuno. Vendemmo a malapena un cd. Finita
la musica dal vivo, il Pino Wine Bar era diventato un normalissimo pub, con due
schermi televisivi accesi su canali sportivi e un sottofondo preso in buona
certezza da qualche compilation di evergreen,
di quelle che trovavi nelle ceste di cd in superofferta.
Guy
si era già sganciato, vedendosi impossibilitato nelle pubbliche relazioni a
nome del gruppo, ed era andato a piazzarsi su uno sgabello al bancone del bar,
intenzionato a finire di disfarsi nel beveraggio, con Romaldio che continuava
imperterrito a riempirgli il bicchiere.
Io
decisi di smontare il palco e ricaricare la Luna. Nessuno mi dette corda mentre
trascinavo fuori la strumentazione mia e quella di Guy, perciò fu un lavoro
relativamente rapido.
Perfettamente
a suo agio nei panni del beone lombardo–veneto abbrutito, Guy era sempre
piantato dove l’avevo lasciato prima di mettermi a smontare. C’era stata però
una variazione sul tema: non era da solo. Mi avvicinai. Non più di fronte al
bancone, ma di profilo, con un gomito appoggiato sopra, Guy era alle prese con
due ragazze.
Una
aveva i lineamenti indios, i capelli
lisci e nerissimi che non le arrivavano alle spalle, gli occhi scuri come la
pece, il naso schiacciato. Era piccola e fine di corporatura, con i jeans
coperti fino alle cosce da una blusa violacea. Una indios nell’indie.
L’altra
era all’opposto. Alta e robusta, il viso paffuto sommerso da un cestone di
riccioli castani in spregio a chi era costretta a farsi la permanente per avere
la metà di quel volume di capelli. Come molte delle ragazzine hipster che
vedevo in città e nei posti dove suonavamo, girava fieramente con costosi abiti
vintage: borsa da pagarla a rate,
gonna di stoffa a scacchi che le arrivava ai polpacci e pullover anni Sessanta
di cachemire.
Tutt’e
due, dallo stato infervorato con cui si agitavano intorno a Guy, parevano
inebriate quasi al suo livello. Era una scena tutt’altro che rara per un
postconcerto di 2 Dualità. Uno o più esseri di sesso femminile che si paravano
incontro all’affascinante e socievole cantante, che le intratteneva in grande
stile per poi lasciarle a bocca asciutta.
Rispetto
agli standard, però, vedevo due sostanziali differenze. Uno: a un primo screening, quelle potevano non essere
necessariamente attratte solo dagli uomini. E soprattutto, due: Guy era
totalmente andato, e in simili condizioni avrebbe addirittura potuto accettare
proposte di prosecuzione della nottata. Entrai di prepotenza per debellare i
miei timori. La prima contromisura fu quella che usavo di solito: allontanare
Guy con una scusa.
“Tesoro”,
gli dissi, con un vezzeggiativo che non gli rivolgevo mai, “c’è da compilare il
borderò, senti Romaldio e fatti dare
il modulo… In pochi minuti ha fatto”, rassicurai falsamente le tipe che già mi
guardavano di sbieco.
“La
Siae deve arrostire su una grigliata infernale!”, mi rispose, infiorettando il
tutto con una bestemmia che doveva aver metabolizzato dai frequentatori del
Pino Wine Bar. Le due tipe scoppiarono a ridere. “Fallo tu se vuoi. Scrivici
titoli e cose a caso. Tanto ormai la fine è vicina.”
Fallito
il primo tentativo, m’inserii direttamente nella conversazione, presentandomi
senza aspettare d’essere invitata a farlo.
“Ullüllu”,
mugolò la più massiccia delle due, dandomi mollemente la mano. Quindi esternò
un breve discorso di cui non compresi mezza parola. Guy, dal canto suo,
sorrideva convinto a quell’ammasso di suoni primordiali e si diceva pienamente
d’accordo a metà. Non capiva più un cazzo.
Mi passò un flash davanti agli occhi:
Guy semi incosciente sdraiato sul letto, sormontato da quelle assatanate. Per
la prima volta, provai un fugace senso di invidia, o forse di gelosia, nei suoi
confronti.
Cercai di prender da parte una delle
due, la piccoletta con la carnagione da meticcia, nel doppio intento di
neutralizzare il pericolo che volessero farsi Guy e svagarmi un po’ anch’io con
quella che mi sembrava la più abbordabile.
“Giustizia! Giustizia!”, mi ripeté. Era
persa in un suo trip mentale, su cui cercai di sintonizzarmi al volo. “Questo è
un paese di merda, di ladri e figli di puttana che vanno eliminati. C’è bisogno
di giustizia!”
“Hai ragione, gli uomini sono proprio
dei bastardi”, provai a cogliere la palla al balzo. Giustizia mi guardava, perplessa
nella sua alterazione alcolica. Incaponita nelle sue teorie, riprese il
tormentone.
“Ci vuole giustizia! Ci vuole la pena di
morte! Io sono a favore! E ripetuta più volte!”
“L’ho sempre detto anch’io. Non bisogna
permettergli di farci del male. Tu sei un fiorellino che aspetta solo d’esser
colto. Ma non dalle mani lorde di questi grezzi. Tu meriti di meglio…”
Mi avvicinai ulteriormente, pronta al
successivo step. Fosse allontanarci
assieme, o intanto sfiorarle le labbra con le mie e vedere come reagiva.
“No!”, si ritrasse lei con uno sdegnato
passo indietro. “Finché non c’è l’assoluta certezza della colpa c’è la
presunzione d’innocenza. La giustizia si basa su questo principio, altrimenti
non c’è giustizia. Non possiamo abbassarci al livello delle bestie solo per la
sete di giustizia da far west. Dobbiamo vederci chiaro prima di sparare
sentenze e sbattere il mostro in prima pagina.”
L’improvvisa sterzata garantista di
Giustizia mi tarpò le ali. Tipico delle donne sceme, dare seconde, terze e
quarte possibilità agli uomini stronzi di farle soffrire. Incredibile come il
semplice atto di ubriacarsi scatenasse nelle persone le pulsioni più varie.
Sempre a mio sfavore, purtroppo.
Fresca di rimbalzo, con la coda
dell’occhio vedevo Ullüllu che rideva con i denti sporgenti, dando vigorose
pacche sulle spalle di Guy e facendoglisi sempre più vicina, salvo poi
distaccarsi scontrosamente dopo pochi secondi e squadrarlo con aria di
altezzosa superiorità. Lui non mutava la sua maschera sorridente e
collaborativa, sia che Ullüllu gli alitasse sulla bocca, sia che si
divincolasse quasi disgustata.
Pur fallendo nell’imbrocco, ero
perlomeno riuscita a scoraggiare Giustizia e Ullüllu. Forti di un rigurgito di
bigottismo che neppure i fumi dell’alcol avevano smantellato appieno, se ne
andarono poco dopo. Guy non fece tentativi di trattenerle, né protestò quando
proposi di levarci di torno a nostra volta.
Romaldio per la notte ci aveva lasciato
le chiavi di casa sua. Guy, ormai prossimo al coma etilico, s’era buttato sul letto,
ancora vestito; disse alcune frasi senza senso, poi si chetò, sprofondato di
colpo nel sonno. Nonostante il nostro rider
specificasse che dormivamo in letti separati, la camera (l’unica stanza che
Romaldio aveva lasciato a nostra disposizione, oltre al bagno; le altre porte
erano chiuse a chiave) aveva un letto matrimoniale. Poco male per una volta,
forse l’ultima. Ne approfittai per prendermela comoda. Ero stanchissima, anche
a livello mentale, ma sonno poco. Mi spogliai completamente e andai in bagno.
Quella volta, alla fine della serata
organizzata dai tizi del Platino Picchiatore, invece ero vestita. Le poche
ragazze che frequentavano “alla pari” i maschi sul loro stesso terreno, e
parlavano come loro, e bevevano quanto loro, si facevano l’assurda fama
d’essere disponibili senza nemmeno dover chiedere troppi permessi per
coinvolgerle.
Mi avevano tirato su la gonna e scostato
le mutandine. Poi non avevo più visto nulla, dato che qualcuno mi aveva
sollevato la maglia, incastrandomela dietro la testa. Indebolita dall’alcol e
colta di sorpresa, non ero riuscita ad avere alcuna reazione. Avevo solo chiuso
gli occhi e stretto i pugni, mentre quelli a turno si muovevano dentro di me, e
intanto varie mani mi tenevano ferma e mi toccavano da tutte le parti. Ero
stesa su un cubo, dove durante la serata la gente si sedeva per fare una sosta
dalle danze, bere e magari tra una chiacchiera e l’altra tentare qualche
approccio con chi era lì accanto.
I giorni successivi, non riuscivo a
capacitarmi di cosa mi fosse capitato. Se fosse stato un sogno, un incubo, se
fossi stata al gioco o se l’avessero fatto contro la mia volontà. L’unica cosa che
avvertivo con chiarezza era il senso di colpa e di disgusto verso me stessa.
Mi
ero attaccata a Guy perché avevo il sentore che fosse uno dei pochi uomini che
non mi avrebbe mai fatto del male. Avevo avuto ragione. In più, eravamo stati
travolti da una relazione musicale che c’aveva portati dove mai ci saremmo
immaginati di arrivare.
Guardai
la mia immagine riflessa allo specchio. Vidi una donna provata tanto da brutti
ricordi quanto da un presente che stava per diventare passato. Non vidi le
curve che, quando mi alzavo dalla batteria, facevano sbandare gli incauti
automobilisti che venivano ai nostri concerti (altra frase del cazzo scritta su
un sito di musica indie). Vidi il bulbo superiore della clessidra con ancora
pochissimi granelli di sabbia. Il resto era scivolato di sotto.
Cercai
di non puntare più gli occhi verso lo specchio, che mostrava impietoso il mio
corpo nudo e indifeso. Tornai in camera, dove avevo lasciato accesa la luce sul
comodino dalla mia parte di letto. Guy respirava profondamente, devastato dal
troppo bere al punto di non essersi levato nemmeno le scarpe prima di crollare.
Per quanto involontaria, era un’immagine perfetta della sua contraddittoria
morale nei miei confronti: mi parlava nei minimi dettagli delle sue esperienze
sessuali, però si vergognava a farsi vedere in deshabillé. E lo stesso s’inalberava se mi scoprivo troppo davanti
a lui. Chissà se anche lui aveva represso la curiosità di spiare l’intimità
della persona con cui divideva ogni altro aspetto della vita.
Entrai
sotto le coperte, con un po’ di difficoltà essendoci lui che le teneva in
tirare da sopra. Prima di girarmi e provare a dormire, lo accarezzai sulla
guancia. Non ebbe alcuna reazione. A me invece stava venendo da piangere.
Capitolo 18
Qualcosa di sconvolgente
Giovedì, metà pomeriggio, a bordo della
Luna. 2 Dualità in viaggio alla volta di Busnago, dove si svolgerà la settima e
ultima data del tour. Meteo inclemente con una curiosa mistura di pioggerellina
fitta e nebbia. Vicni alla guida. Guy, ancora ottenebrato dagli eccessi della
sera precedente, accasciato sul sedile di destra.
Vicni: Tempaccio infame, oggi. Visibilità
sotto i cento metri. Ci vorrebbero i miei gattini con vista a infrarossi per
filare lisci in questo pantano. Meno male ho un compagno di viaggio che mi
supporta e mi dà mano.
Guy (sbadigliando):
Questa di solito è la mia parte. Stai mischiando i ruoli. Ma sono troppo stanco
per controbattere.
V.: La sera leoni, il giorno dopo
dormiglioni. Era un po’ diversa ma te la risparmio per compassione.
G.: Come sei buona…
V.: Lo sono nella speranza che tu stasera
sia in grado di reggerti in piedi. Se no potevo lasciarti dormire a Desenzano,
farmi il concerto da sola e venire a riprenderti domani.
G.: Sono mai stato meno che al 110% della
forma, in questi anni di concerti di 2 Dualità?
V.: C’è sempre una prima volta, Guy. E
spesso c’è anche un’ultima volta.
G.: Non sarà stasera la prima volta.
L’ultima non lo so, non dipende da me. (fa
una pausa) Le spazzole tergicristallo grattano sul parabrezza. Fanno un
rumore terrificante. Pare un dj che fa scratch
con un disco bagnato.
V.: Te ne accorgi solo adesso? Sei ancora
più stordito di quanto pensassi.
G.: Sono consumate… Sono da cambiare… Ma
non potevano pensarci quelli della Luna? Cazzo, lo sapevano che partivamo per
un tour. Dovevano controllare, accidenti a loro.
V.: Adesso sei tu che stai facendo la mia
parte.
G.: A proposito di tergicristalli, ti ho
mai raccontato di quando suonammo da queste parti, in un paese della Brianza,
con una cover band di punk anni Novanta dov’ero chitarrista e seconda voce?
V.: No, Guy. D’altronde, tu non mi
racconti mai nulla di te.
G.: Fringuellina, ti adoro quando ti
approfitti della mia debolezza per colpirmi col mio repertorio di frecciate.
V.: Voi uomini siete tutti dei deboli. Per
questo usate la forza bruta e la discriminazione. Per nascondere la vostra
debolezza dietro la violenza bestiale. Siete frustrati poiché le donne riescono
in qualunque cosa meglio di voi e cercate di mantenere l’egemonia con i mezzi
più bassi. Ma siete destinati a perdere. Un giorno o l’altro il potere vi
sfuggirà di mano, e quella mano vi tornerà buona giusto per farvi le seghe!
G.: Alé, è arrivata la tirata femminista
da astinenza secolare di cazzo… Ti stavo dicendo, avevamo un repertorio di
pezzi dei gruppi del giro californiano quando scoppiò il revival del punk
melodico, Green Day, Bad Religion, NOFX…
V.: Guy, me lo ricordo quel gruppo. I Rock
And Roll Lobont, li ho anche intravisti in qualche festa d’estate. Però non mi
ricordavo ci suonassi pure tu.
G.: Sì, ho suonato anche con loro. Ovviamente i concerti li facevamo per lo più in
zona; una volta invece ci chiamarono in un locale dell’hinterland su questo
versante. Un amico del cantante e bassista che viveva lì ci aveva fatto da
gancio, aiutandoci a fissare la data. Avevamo fatto il concerto, c’eravamo
sfasciati dal bere e al momento di sbaraccare c’eravamo resi conto che l’amico
del cantante, che c’avrebbe ospitato per la notte, abitava in un altro paesino
fuori mano. Lui ci faceva strada con la sua auto e noi dietro col trabiccolo
del padre del batterista, che faceva le consegne di caffè nei bar e quindi
giravamo con questo catorcio decorato con una tazza gigante e fumante che spandeva
il suo aroma in una scia che copriva tutta la fiancata. Prendemmo delle
stradine immerse nella brughiera, con una nebbia dieci volte più fitta di
adesso. Il batterista cercava di star dietro all’altro tizio, che era pratico
del percorso e andava spedito, come tutti da queste parti, che hanno sempre
furia. Io suggerii di accendere i tergicristalli, per vedere se migliorava
almeno un minimo la situazione. Il batterista mi disse di non sparare cazzate,
che era perfettamente inutile. Intanto, eravamo senza punti di riferimento, la
macchina davanti era sparita nella notte. E la visibilità continuava a
diminuire. Io provai a insistere sulla storia dei tergicristalli. Lui, solo per
dimostrarmi quanto stupida fosse la mia idea, girò la manopola e le spazzole si
mossero sul parabrezza una sola volta. E sai cosa accadde? Un miracolo! In un
istante eravamo passati dalla cecità all’occhio di lince! Come se
all’improvviso avessero acceso due file di lampioni che illuminavano a giorno
la strada!
V.: E la nebbia?
G.: Non c’era. O meglio, ce n’era un po’
quand’eravamo partiti. Il resto era uno strato di condensa megaspesso che si
era formato nel corso della serata.
V. (azionando
freneticamente i tergicristalli): Qui non funziona. La nebbia parrebbe
reale. E pare di stare ad ascoltare qualche complesso di rumorismo
sperimentale, con la differenza che le spazzole della Luna non vanno fuori
tempo. Ce n’era un paio, dalle nostre parti, te li ricordi? C’ho pure
collaborato con uno di quei gruppi, i Death.Deaf.Test. Facevo delle note di
synth stile drone, mentre i tre chitarristi facevano ciascuno delle note a
casaccio, sempre stile drone. Tutto un crescendo a questa maniera, finché non
arrivava il tipo della sala prove a mandarci via perché il nostro turno era
finito.
G.: Dei miei amici mi ci portarono a uno
dei primi concerti dei Death.Deaf.Test, dicendomi di prepararmi a qualcosa di
sconvolgente. Avevano ragione, fu sconvolgente. Solo che loro intendevano
sconvolgente in senso positivo. Per me fu così sconvolgente che dopo un quarto
d’ora scappai via!
V. (vedendo
Guy di colpo ammutolito e assorto sullo smartphone): Che cerchi? Mica
qualche nenia dei Death.Deaf.Test?
G.: Tranquilla, padrona delle dune. Mi è
tornato in mente di quando partecipammo al contest “A tutti play”, dove l’anno
prima avevano suonato pure loro. Arrivando fino alla semifinale. Una roba
immonda.
V.: Lo so, Guy. C’ho suonato insieme.
G.: Dicevo l’“A tutti play”, non i
Death.Deaf.Test. Costoso, organizzato da far pena, senza uno straccio di
credibilità.
V.: Infatti io non ho mai partecipato. Tu
invece…
G.: Il gruppo votò a maggioranza per
l’iscrizione. È la democrazia, bellezza. (riprende
a consultare lo smartphone) Ecco, sono sul sito ufficiale. Chi siamo, il
bando di concorso, regolamento, bla bla bla… La storia! Senti i nomi dei
vincitori delle varie edizioni: Gli Adoratori
del Demanio, i Plastilina Express, i Sad But Trans, Gli Esseri Inutili,
finalmente un nome appropriato…
V.:
E chi li conosce tutti questi fenomeni?
G.:
Appunto. Però in compenso si bullano d’aver lanciato numerosi gruppi, tra cui
il nostro. Lanciato non si sa bene dove, forse nello scarico del cesso, dato
che ci volarono fuori al primo turno. E con noi, i pochi gruppi validi che
fecero l’errore di gioventù d’iscriversi a quel cazzo di contest. Stroncati da
un letale mix di voto popolare degli amici a cui i gruppi formati da ragazzetti
di buona famiglia regalavano vagonate di biglietti per assistere alle
selezioni, e giuria di addetti ai lavori che credo fossero audiolesi. Oltre ad
avere l’Alzheimer.
V.: Povero caro, buttato fuori da un
contest di scarsoni per un complotto internazionale! Noi dovevamo fare la
trafila dei talent show, altro che.
G.: Saremmo sempre in tempo, a dirla
tutta…
V.: Non lo so, Guy. Non sono sicura. Non
credo.
G. (quasi
gridando): Ma perché?
V.: Ti preferivo moribondo coi postumi
della sbronza. Ne abbiamo già parlato.
G.: Sì ma non mi hai detto che mezze frasi
peggio di un rebus!
V.: Abbiamo tutto il tempo di parlarne con
calma quando torniamo a casa alla fine del tour. Cazzo, Guy, ragiona, non ti
far trasportare dall’onda del momento. Non mi sto mica per trasferire in
Patagonia! Credi forse che da domani non ci vedremo più?
G.: Tesoro, ho tanta paura che succeda una
cosa del genere.
Capitolo 19
Headliner indiscusso dal
Manzanarre al Reno
Ero
tornato quasi del tutto in me. La mina della sera prima aveva esaurito i suoi
riverberi negativi. Mi capitava spesso di bere tanto, fino a oltrepassare il
limite. Mi capitava meno di frequente d’andarci giù così pesante da ricordare a
malapena cosa fosse successo a Desenzano. Dentro di me, collegavo quegli
eccessi allo scenario nebuloso che si prospettava per 2 Dualità. Faceva bene
trovare giustificazioni, per lo più inconsistenti, ai propri problemi.
Busnago
poteva essere il nome di una cooperativa di pullman di linea piuttosto che un
grigio comune sperso nella Brianza. Lo raggiungemmo dopo aver superato un
consistente numero di rotatorie. Il navigatore non temeva la nebbia e c’indicò
la corretta direzione. Era il nostro migliore amico, dopo i gatti naturalmente.
L’ultima di queste rotonde ci portò a deviare dalla strada maestra per
immetterci verso il paese, il cui cartello apparve fatti pochi metri. La
desolazione suburbana si dispiegò in tutto il suo squallore. Vicni puntò con
decisione al centro cittadino, che saliva leggermente, fino alla piazza del
comune, da dove scollinammo per raggiungere il Boom Boom, storica sala concerti
dell’hinterland milanese, che pur trovandosi in culo alle faine aveva ospitato
tanti gruppi anche di fama internazionale. E quel giovedì riapriva le sue porte
per accogliere l’ultima data del tour sulla Luna.
“Santifichiamo
il navigatore che c’ha portati sani e salvi al traguardo!”, rimarcai tutto
contento quando la mia dolce metà spense il motore all’interno del cortile sul
retro del locale.
“Guy,
io ti ho portato sano e salvo al
traguardo, non il navigatore.”
“Chiaro…
Ci facciamo una foto da condividere sui social? Con questo clima da horror
postatomico non c’è nemmeno bisogno del fotoritocco, verrà comunque una roba
surreale!”, proposi, continuando a ostentare buonumore.
“Il
genio della lampada a cui apriamo il concerto ha avuto la nostra stessa idea e
l’ha già messa in pratica”, mi rispose scocciata e immersa nello schermo dello smartphone. “‘Stasera il filo di Arianna
mi ha portato al Boom Boom di Busnago. Sarà un concertino per anime latine e
anime salve. Vi aspetto.’”
“Concertino”, ripetei con disgusto.
“Sempre questo finto basso profilo che devi tenere nel nostro ambiente. Quando
poi sei l’essere più spocchioso presente sulle terre emerse dell’indie. E sì
che la competizione è serrata!”
“E
ovviamente a noi nemmeno ci menziona.”
“Nella
sua overdose di grandezza, noi nemmeno esistiamo. Dài, andiamo dentro a vedere,
magari ci smentisce ed è simpatico.”
“Magari
è ancora più stronzo di come sembra, invece.”
In
giro da circa un lustro, Teseo il Minotauro aveva trovato la consacrazione con
“Attestati di stima”, pubblicato in primavera. Presentandosi con la classica
formula del cantautore alternativo dallo pseudonimo magniloquente, che si
accompagnava con chitarra e vari effetti, loop
di batterie, campioni e basi assortite, aveva letteralmente sbancato.
“Siamo
solo a marzo, ma c’è da scommettere che ‘Attestati di stima’ riceverà questi
stessi attestati, perdonate il gioco di parole, in cima a tutte le classifiche
di gradimento che la nostra redazione stilerà a fine anno. Il capolavoro era
dietro l’angolo, l’avevamo già previsto ai tempi di ‘Baglioni oscuri’, che pure
non ci era parso al 100% a fuoco. Con questo nuovo album, che non esitiamo a
definire un capolavoro, l’ex fuorisede pugliese trapiantato a Milano appare
pronto ad assicurarsi un posto al sole nel sempre più radioso panorama indie di
casa nostra. Non perdetelo d’occhio, sarebbe un peccato capitale!” Così aveva
sentenziato l’immarcescibile Fosco Quiličić in coda alla sua
recensione–tappetino su Indie Italie. A ruota, periodici e siti specializzati
si erano genuflessi dinanzi a questo nuovo cantore generazionale. I cui
concerti, partiti a ridosso dell’uscita del disco, avevano riempito i locali di
tutta Italia.
I live
report parlavano di calche disumane e ragazzine in delirio, roba che non si
vedeva da tempo immemorabile nei territori plastificati dell’indie italiano. La
mia bacheca di Facebook era ingombra di contatti che lo elogiavano,
condividevano i suoi video e citavano strofe delle sue canzoni con la stessa
enfasi di quando pubblicavano immagini accompagnate da una risibile didascalia
poetica, invariabilmente attribuita ad Alda Merini, che essendo morta non
poteva prenderne le distanze.
Dopo essersi crogiolato nell’estasi
della stagione dei festival estivi, dov’era stato headliner indiscusso dal
Manzanarre al Reno, Teseo il Minotauro era ripartito per una tranche autunnale di concerti nei club.
Ringraziando i buoni uffici del nostro management, eravamo riusciti a
incastrare la data a Milano e dintorni come supporter del grand’uomo.
Nel
Boom Boom trovammo un discreto marasma. I tecnici del locale andavano avanti e
indietro quasi di corsa, gridandosi indicazioni. Di fatto, nessuno badò alla
nostra apparizione. Chiesi a uno di quei runner,
nel vero senso del termine, se potevamo iniziare a montare. Ancora una volta,
nessuno ci degnò della sua attenzione. Sembravamo due fantasmi.
Il
più agitato, comunque, era un tizio seminascosto in un giaccone col colletto in
pelliccia che gli arrivava fin sopra la nuca. Parlava al telefono a voce alta e
concitata, gesticolando con l’altra mano, che spargeva intorno a sé il fumo
della sigaretta accesa. Era Teseo il Minotauro con un principio di crisi
isterica. Gli mancava qualcosa di fondamentale e stava impartendo ordini
affinché gli pervenisse nel minor tempo possibile.
Ci
sistemammo senza star troppo a badare ai suoi scleri. Poi lui essendo una one man band aveva teoricamente bisogno
di meno spazio per la sua strumentazione. Perciò per ottimizzare i tempi, e
soprattutto allontanarci dalla zona delle operazioni prima che Teseo il
Minotauro iniziasse il check, piazzammo il nostro armamentario sul palco e ce
ne andammo nell’antisala del Boom Boom, in attesa che fosse il nostro turno di
provare i suoni.
Restammo
lì un’ora e mezzo almeno. C’erano tavolini e sedie, un bancone bar e mensole
piene di libri e fumetti. Distrazioni che non bastarono per impedirci di
sentire il soundcheck del nuovo divo dell’indie, e soprattutto le sue lamentele
ed esortazioni a una maggior solerzia nel soddisfare le sue esigenze. Nel
frattempo, fummo raggiunti dalla coppia di finanziatori che avremmo avuto a cena
con noi.
Lei
era una cavallona bionda, con le forme arrotondate, in particolare il pancione
che prometteva un erede in capo a pochi mesi. Il fidanzato era un fulgido
esemplare di bomber delle periferie milanesi. Palestrato perfettamente in tiro,
le vene violacee dure come il marmo che sbucavano dai muscoli delle braccia e
del collo, al pari dei tatuaggi che gli ricoprivano persino il cranio rasato.
Era vestito da biker metallaro,
giubbotto, gilet al posto della maglietta, stivali, tutto in pelle. Eugenera
ricalcava il look del suo uomo. A dispetto della gravidanza, non aveva
rinunciato al completino in pelle, che sfilata la giacca era costituito da un
top che conteneva a fatica le poppe e lasciava nudo il pancione.
“A
lui piace così. Born to be wild”,
rispose stonando a Vicni, che con insolita premura le domandava se non le fosse
scomodo portare quegli abiti.
“È
di sei mesi”, annunciò con orgoglio Ennio Ponciarelli detto il pilota, dando un
buffetto al promontorio di Eugenera. “La nostra bambina è stata concepita
durante la campagna di crowdfunding
che avete fatto per il tour!”
“Hai
capito, Vicni? La loro figlia è un po’ anche figlia nostra! La primogenita
della grande famiglia allargata 2 Dualità. Se ancora non avete deciso chi farà
il padrino e la madrina…”
“Moto,
bionde con le tette grosse e rock’n’roll!”, ci regalò il proprio motto il
pilota, che ridendo con la mandibola squadrata e il bicchiere di birra
innalzato dal braccio innaturalmente bloccato a novanta gradi, pareva un
Robocop anabolizzato. Eugenera implicitamente confermò, rassettandosi i lunghi
capelli e abbassando gli occhi sull’abbondante decolleté.
“Lo
dico sempre, io”, rilanciò Ennio Ponciarelli detto il pilota. “Il rock’n’roll è
la forma più pura di unione dei poli opposti. Io normalmente ascolto solo il
rock’n’roll classico delle origini, quello degli anni Cinquanta, andiamo spesso
alle feste a tema, ai raduni… Ma voi no!”
“In
che senso?”, si riscosse Vicni.
“Voi
siete un’eccezione. Voi anche se siete nati negli anni Novanta, negli anni
Duemila, insomma, voi avete quello spirito là. Quello delle vere radici del
rock, la carica, l’istinto, il sangue, il sesso, i motori. Noi viviamo over the top, sempre, e non è un caso
che quando facciamo l’amore è come a un concerto rock, e la nostra creatura ha
iniziato a esistere mentre di sicuro ascoltavamo il vero rock suonato da voi
due! Diglielo anche tu!”
“Lo
sanno, amore, lo sanno; loro fanno il rock come non lo fa più nessuno in
Italia”, lo avallò Eugenera.
Non
feci nulla per contraddire quella teoria campata per aria. Noi avevamo
semplicemente riadattato certi schemi primordiali del rock’n’roll alle tendenze
che cicliche tornavano alla ribalta nell’indie, di modo da racimolare consensi
a destra e a manca. Eravamo costruiti dall’inizio alla fine. Essere noi stessi
c’avrebbe portato poco lontano. Come c’eravamo cuciti addosso i nostri
personaggi, così avevamo fatto con la musica. Passavamo il tempo a infamare i
gruppi italiani, a deridere le stesse persone che ci elogiavano e a cercare di
farci amici gli uni e gli altri.
L’elemento
di questo meccanismo che mi spaventava era che quel personaggio, e quel
musicista, lo stavo diventando anche nella vita. Ero tutto sorrisi verso
chiunque, comprese persone che manco avrei avuto interesse a salutare, e
suonavo e componevo musica col solo obiettivo che potesse piacere al pubblico.
Non riuscivo più a distinguere il mio gusto personale da ciò che ritenevo fosse
giusto proporre per far progredire la mia carriera.
Non
avevo idea se Teseo il Minotauro credesse in ciò che faceva, oppure fosse poco
più che un mestierante, come stavo diventando io. Qualunque fosse la risposta,
si trattava di una persona profondamente sgradevole. Aveva finito il check e
non pareva per niente soddisfatto. Fece irruzione nell’antisala e iniziò ad
aggirarsi come un tarantolato, continuando a lanciare invettive e berciando
ordini al suo entourage, una ragazza e un ragazzo che avevano timore solo a
respirare per non esacerbare la sua ira.
“Sul
palco non si sente un cazzo! La mia voce deve uscire cristallina dai monitor,
equalizzata sopra la chitarra e le basi. Invece gracchia e fischia tutto da
fare schifo. Questo è il peggior locale dove ho suonato nelle ultime settimane.
Ma chi l’ha organizzata questa serata? Questa è l’ultima volta che mi vedono,
dirò al booking di girare alla larga da certi posti di merda.”
Presentivo
che avrebbe chiamato in causa pure noi. Non avevo voglia di discuterci, però
non mi andava giù il pensiero d’essere strapazzato da quel coglione che
strillava come un bimbo viziato cui i genitori han fatto l’errore di darle
tutte vinte. Lui, di contro, aveva la vena completamente intasata.
“Tecnici
incompetenti e lavativi”, ripartì in quarta Teseo il Minotauro, “che hanno pure
permesso a quegli altri di piazzarmi in mezzo la loro roba. Io devo potermi
muovere liberamente da una parte all’altra, senza che rischio che il cavo della
chitarra s’impiglia su qualche suppellettile inutile che sta dove non ci deve
stare. E in più c’è quella cazzo di batteria fottuta che mi ruba più di metà
dello spazio sul palco!”
Mi
alzai in piedi, senza nemmeno sapere come iniziare la controffensiva. Gli
attacchi a Vicni mi irritavano molto più di quelli indirizzati a me.
“La
batteria la smontiamo appena finiamo di suonare, tranquillo, non rischi che
c’inciampi e me la sfasci”, mi precedette invece lei, restituendo freddamente
al mittente le accuse del Minotauro. Mentre con una calma soprannaturale
sfidava il salvatore della musica italiana, Vicni mi prese la mano e mi fece
rimettere a sedere. Intrecciò pure le sue dita tra le mie. Tornato al mio
posto, la baciai sul dorso della mano, quindi sciolsi la presa.
“Sarà
meglio”, borbottò Teseo il Minotauro, con tutto lo spregio che lo status di
primadonna dell’indie italiano lo autorizzava a dispensare all’umanità.
“Va’
che faccia da pirla che è quello là. Io gli avrei dato quattro sberle qui
davanti a tutti, così magari la smetteva di fare lo splendido!”, ci assicurò
Ennio con fare giobbesco.
“Certo,
così anziché l’ultima data del tour, questa diventava l’ultima data della
nostra carriera”, gli rispose Vicni, sempre col contegno distaccato con cui
aveva affrontato Teseo il Minotauro. La fissai, cercando di capire se fossero
dichiarazioni diplomatiche di fronte agli ignari fan o sottintendessero la
convinzione d’andare avanti. In cuor mio, a ogni uscita del genere associavo un
barlume di speranza che potesse tornare sui suoi passi. Non avevo idea di cosa
c’avrebbe riservato il futuro. Ero solo maledettamente preoccupato.
“Sentite
me”, dissi a Eugenera e Ponciarelli, “noi dobbiamo fare il soundcheck, poi
ceniamo tutti insieme. Però prima, sono troppo curioso: mi piacerebbe che
andassimo un minuto fuori così ci fate vedere il bolide!”
“Eh
no”, rispose costernato il pilota, “mi spiace ragazzi, la moto è rimasta in
garage, ho preso l’auto. Sapete, questa bimba qui, e anche la nostra bimba che
nascerà presto, vanno trattate con cura. Proprio come la moto, se no si
usurano. Però siamo venuti lo stesso su un bel bolide!”
L’immagine
dei due ottusi rocker a tutto gas che si presentavano al nostro concerto con la
berlina coreana a due porte parcheggiata proprio accanto alla Luna mi
accompagnò per l’intera mezzora che c’impegnò il check.
Capitolo 20
Fermarsi un momento e
recuperare un po’ di tranquillità
Fuori,
un gran rimbombo segnalava l’inizio del concerto. Era una decina di minuti
almeno. Non se ne preoccupò e rimase dov’era, le mani incrociate in grembo, la
testa reclinata all’indietro e gli occhi chiusi.
L’acustica
sul palco non era niente male, a dispetto delle scenate di Teseo il Minotauro
in sede di soundcheck. Da lì, invece, era un pastone indefinibile ad arrivare
alle sue orecchie.
Il
loro ultimo concerto era stato dirompente. Oltre che efficace nelle geometrie
musicali, ma era il meno. Contavano l’intensità, la passione, il modo in cui
riuscivano a colorare canzoni spesso leggerine e a tratti plastificate,
rendendole piccole schegge pronte a esplodere. Eppure, non se li era filati
nessuno. Il Boom Boom, un catino strapieno dove non entrava più uno spillo, li
aveva accolti con indifferenza. Le prime file erano assediate dai fan e
soprattutto dalle fan di Teseo il Minotauro, e l’ultima cosa che desideravano
era scompigliarsi in inutile anticipo sulla comparsa del sommo poeta.
L’occasione di aprire per un grosso calibro dell’indie pareva non aver portato
frutti. Salvo che i seguaci del Minotauro non avessero voglia di fare acquisti
targati 2 Dualità. Guy a tale scopo era schizzato fuori per allestire il
banchino. Il tempo di togliersi la camicia madida e rimpiazzarla con una
maglietta asciutta, era uscito dal camerino, armato del trolley contenente il merchandise. Ma c’era da scommettere che
almeno per l’intera durata del concerto, nessuno avrebbe distolto la propria
attenzione dallo scostante cantautore di natali pugliesi.
Vicni,
come sua abitudine, se l’era presa comoda nel backstage prima di rientrare in
sala. S’era scolata una delle bottiglie di birra che c’erano sul tavolo in
camerino e che ancora non erano state depredate dal suo socio. D’improvviso
rabbrividì. Stava per accendersi una sigaretta, ma si fermò. Ebbe un flash:
vide entrare dalla porta un gruppo di algidi darkettoni che prima le facevano
bere liquori dai colori improbabili e poi la costringevano a concedersi loro.
Era una visione che la tormentava di frequente, specie quando si trovava da
sola.
Non
erano certo le scorie dello stupro di gruppo subito anni prima a farla titubare
sul futuro di 2 Dualità. Quella, casomai, era stata una circostanza che in
qualche modo l’aveva avvicinata a Guy. Però sentiva una grande stanchezza. E
non si trattava della lunga settimana trascorsa in tour. Era una stanchezza più
profonda, maturata da tanti fattori diversi.
Sapeva
bene ciò che le avrebbe detto Guy, quando avrebbero riaffrontato l’argomento.
Avrebbe cercato di rassicurarla, proponendole qualche settimana di stacco per
poi, con calma e raziocinio, riprendere il filo del discorso. Avrebbe al
contempo fatto pressione su di lei, provando a instillarle dei sensi di colpa
perché a suo modo di vedere stavano gettando alle ortiche un progetto che gli
avrebbe permesso di togliersi parecchie soddisfazioni. Forse l’avrebbe persino
implorata di non lasciarlo.
Rabbrividì
nuovamente. Si aspettava di veder aprire la porta e comparire quei bastardi per
il secondo round di ciò che loro avevano preteso di spacciare per un’orgia tra
persone adulte e consenzienti.
Nonostante
stesse per dividersi da lui, ebbe la stringente necessità di averlo accanto. Il
più presto possibile.
“Dove
sei?”, gli scrisse semplicemente. Disperava che in quel casino, Guy avesse modo
di controllare il telefono in tempi brevi, ma ci provò lo stesso. L’ipotesi più
probabile era che si trovasse al banchetto merchandise. Fu lì che si diresse.
Non fu un’impresa agevole.
Nessuno
le badò, neppure coloro che spintonava per farsi largo. Evitò di voltarsi in
direzione di Teseo il Minotauro. Poteva intuire ugualmente, dalle acclamazioni
che udiva, quanta idolatria vi fosse nei suoi riguardi. Era molto oltre il suo
limite di sopportazione, pensò Vicni, proseguendo a districarsi nel magma
umano.
Raggiunto
infine l’angolo merchandise, lo trovò incustodito. Del resto era una delle rare
zone in cui non c’era assembramento. L’ansia di ricongiungersi a Guy la assalì
ulteriormente dopo quel primo tentativo andato a vuoto. Teneva sottocontrollo
il telefono, sperando in una sua risposta, ma senza esiti. Cercò di fermarsi un
momento e recuperare un po’ di tranquillità. Si disse che non vi era alcun
pericolo incombente. Sollevò lo sguardo sul palco.
Teseo
il Minotauro sembrava più alto di quanto non fosse. Leggermente ingobbito con
la chitarra a tracolla e l’aspetto da universitario fuorisede cannato,
trasmetteva una notevole desolazione, solitario e spaesato sul palco.
Allo
stesso modo, le sue composizioni, rivisitazioni nemmeno più di tanto aggiornate
del cantautorato italiano anni Settanta, erano lineari e senza picchi
d’intensità, scritte bene e interpretate con convinzione, ma lontane dalla
rivoluzionaria genialità che gli veniva attribuita da critica e pubblico.
Inoltre, il ricorso a basi elettroniche piuttosto monocordi, già dopo meno di
due canzoni (il tempo che Vicni riuscì a concedergli) appiattiva tutto e non
erano sufficienti campionamenti e suoni particolari a rendere più variegato il
repertorio.
Tornò
ad agitarsi e a sondare il suo campo visivo allo scopo di identificare Guy. Un
nuovo timore s’impadronì di lei. Col suo fascino e savoir-faire, poteva essere riuscito a imbroccare un tipo anche in
un territorio ostile come il concerto di Teseo il Minotauro. Vicni si augurò
che non fosse successo proprio quella
sera. Aveva bisogno di lui. Fissò ancora una volta lo schermo del telefono.
Nessun messaggio di risposta.
Quantunque
in camerino vi fosse da bere a volontà, non le andava di rifare la strada
all’incontrario e ritrovarvisi da sola. Spese dunque una consumazione al bar.
Un cocktail molto forte. Ne bevve due sorsate e, bicchiere in mano, avanzò con
l’intento di scovare Guy, a costo di passare a zigzag dall’ultima alla prima
fila del locale. Con le buone o con le cattive. Con queste ultime, in
particolare, scostò due giovani fidanzati che, nel lasciarla passare a
malincuore, le urlarono all’orecchio qualcosa che non afferrò. La voce di lei,
in particolare, era tutto fuorché amichevole.
Fattasi
largo in mezzo a quattro ragazzini dall’aria dormiente, probabilmente venuti al
concerto anche col velleitario proposito di raccattare un po’ di fica, che
abbondava quand’era di scena Teseo il Minotauro, riuscì a scorgere la sua
testa. Era defilato sulla destra, tre file più avanti. La parte conclusiva
dell’inseguimento si rivelò la più semplice. Vicni sgomitò per qualche altra
manciata di secondi, beccandosi improperi e occhiatacce che le piovevano
addosso già da un pezzo. Non appena lo ebbe a meno di due metri, verificò che
fosse solo. Quindi fece l’ultimo sforzo per raggiungerlo, riuscendo a crearsi
misteriosamente un varco per metterglisi di fianco.
Tutto
il tramestio che aveva creato, fece sì che Guy si voltasse verso di lei proprio
mentre gli stava andando incontro. Si guardarono negli occhi. Apparivano
entrambi malinconici, lei stravolta per quella caccia all’uomo che le era parsa
interminabile, lui con un pizzico di rassegnazione dipinta in viso.
Vicni
abbozzò un sorriso, provando ad apparire vagamente rilassata. Guy sorrise a sua
volta, quindi ammiccò alla folla in delirio, come a significare: “Hai
visto? Abbiamo sbagliato tutto, noi due.”
Scossa
e disarmata dalla remissività del compagno, sentì che stavano per iniziare a
scenderle le lacrime. Gli si strinse contro, mettendogli un braccio intorno
alla vita. Guy la cinse a propria volta al di sopra delle spalle. Rimasero lì,
immobili e in silenzio, mentre si compieva uno tra i riti più in voga nel
disastrato mondo dell’indie italiano.
Se
mai qualcuno in quella folla amorfa ci avesse fatto caso, avrebbe creduto di
vedere due innamorati, avvinti in un tenero abbraccio e immersi nell’atmosfera
magica del concerto di Teseo il Minotauro. Forse per una volta, Guy e Vicni
sarebbero davvero apparsi agli occhi altrui come la coppia che negli ultimi
quattro anni e fino a quel momento avevano fatto finta di essere.
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