lunedì 17 novembre 2025

NOCRAC - SEXY DROGA - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Davanti al Museo Egizio di Torino c’è una chiesa il cui ingresso ricorda le porte di un tempio antico, quasi a sottolineare che qui, come in diversi altri luoghi della città, si fronteggiano e si mescolano forze invisibili e millenarie. Nei locali di quella chiesa è nato il nucleo di “Sexy Droga”, album dei NOCRAC, quartetto con influenze alt rock soniche, blues e progressive, composto da Andrea Marazzi (basso e voce), Carlo Barbagallo (chitarra e voce), Riccardo Salvini (tastiere e voce) e Frank Alloa (batteria). Il loro album, pur essendo distribuito in digitale, si suddivide in quattro lati, proprio come un doppio vinile. Sono già usciti i Lati A, B e C e si attende il Lato D per completare l’opera. La struttura in quattro parti è funzionale al concept che lega tutto “Sexy Droga”, ovvero il viaggio nel cuore della notte di un ragazzo insonne che deve affrontare le proprie dipendenze e ossessioni prima di poter ritrovare sé stesso. “Insonnia”, la traccia che apre “Lato A” inizia con una chitarra che rintocca quasi come le campane di una chiesa per poi aprirsi in una melodia ampia e carica di inquietudine, sottolineata dall’armonizzazione delle tre voci di Andrea, Carlo e Riccardo. “L’unico modo”, pezzo conclusivo del “Lato A”, introdotto da suoni arcade da sala giochi, è la cartina di tornasole dell’ecclettismo che caratterizza lo stile della band con un andamento jazz blues che sfocia in un ritornello da big band. Il Lato B si apre con “Zebàni”, termine che indica i diavoli alle porte dell’inferno musulmano e racconta una storia ad alta tensione erotica con una lei al centro di desideri spavaldi. Sempre da Lato B il brano “Sogno” riesce a trascrivere fedelmente in musica le fasi di un sogno, tra schizofrenia e calma. Dal punto di vista musicale il brano ricorda le atmosfere del Manuel Agnelli solista, soprattutto nell’uso della voce. Altri pezzi degni di nota, contenuti nel “Lato C”, sono il rock blues malato dall’incedere sognante “Amare tutto” e “Le sei (Gioventù Ketamina)”, in bilico tra ballata e i Sonic Youth. 
Il bassista e compositore Andrea Marazzi si è prestato a dialogare sul concept e sulle molte suggestioni sonore di “Sexy Droga”.



- Il vostro album dimostra un attaccamento affettivo profondo al formato fisico della musica, infatti, come un doppio LP o un doppio CD ha un Lato A, un Lato B, un Lato C e ora ci aspettiamo il Lato D per completare il tutto. A parte il discorso vintage avete scelto questo formato perché avevate una storia articolata, con un suo sviluppo da raccontare?
- Sinceramente noi non pensavamo di fare il vinile perché non abbiamo i mezzi per farlo e perché non abbiamo prospettive di vendere questo disco, stiamo facendo molta fatica a dargli un minimo di risalto e sono negativo sotto questo aspetto. Però in realtà per come è stato pensato nella sua struttura è certamente legato a un certo tipo di immaginario e ad un certo modo di raccontare una storia che è proprio insito nel medium vinile, cosa che poi ci aveva portato anche nella sua realtà digitale, di disco fatto di codice binario nel computer, a pensarlo come un vinile. Diciamo che il paragone potrebbe essere un romanzo solo in formato pdf in cui non si sente l’odore della carta, però pensato comunque in quella modalità. Noi, presi singolarmente siamo tutti musicisti che facciamo varie cose e, sotto molti aspetti, la nostra produzione è ipercontemporanea. Questo disco in particolare è un’opera che oltre che strizzare l’occhio, seppur in modo critico, alla retromania è un’opera che si traveste da disco degli anni 70, sia per come è pensato come formato, sia proprio nel contenuto musicale e testuale. In realtà giochiamo con questo aspetto. Cioè non lo è tout court, ma è travestito in quel modo e ne è anche allo stesso tempo un po’ una parodia. 
- State pubblicando un album che trasuda sensazioni, emozioni. Se dovessi trovare una definizione direi che è un album felicemente allucinato. Quanto c’è di te, di voi come band nel protagonista del disco?
- In realtà c’è il cento per cento. Io sono quello che ha creato il concept, autore della maggior parte dei testi, insomma l’album l’ho un po’ messo insieme io. E, seppur pieno di metafore, è in realtà totalmente il diario di una fase della mia vita. Nello specifico si racconta anche una storia d’amore esistente, cioè il tu di cui si parla è una persona che esiste. I pochi intimi sanno benissimo di cosa si tratta, di che storia sto raccontando. Poi ovviamente nel costruire un disco si utilizzano le metafore e diventa di tutti, un mondo poetico che racconta della vita di tanti. Ma inizialmente è nato quasi come un diario. 
- Considerandolo come un unico album “Sexy Droga” ha uno stile molto eclettico, le sonorità variano molto a seconda dei pezzi. Sembra quasi come un sonnambulo che nella notte cammina toccando tutto a tentoni nel buio. La varietà di stili presenti nell’album è dovuta al fatto che c’è più di un compositore tra voi? 
- Direi che è dovuta al fatto che noi tutti come compositori siamo eclettici ed è una nostra caratteristica non avere una direzione univoca dal punto di vista musicale e quindi questo è un motivo. L’altro motivo è la differenza con cui sono nate o sono state registrate le canzoni. Il nucleo fondamentale dell’album è nato in uno spazio ben preciso che è una chiesa di fronte al Museo Egizio di Torino. Per un periodo di tempo avevamo una stanza in questa chiesa ed era però un posto in cui non potevamo fare troppo rumore perché c’erano problemi di volume. Suonavamo a volume bassissimo e, grazie anche a queste circostanze, sono nate queste ambientazioni sonore che poi caratterizzano in parte il disco. Molti pezzi sono nati così, con un certo tipo di sapore. Altri pezzi hanno avuto una gestazione diversa. Ad esempio il pezzo “Aritmia” è partito da una registrazione fatta con il telefono che poi ho rifatto a casa registrando la voce dal microfono del computer, seduto sulla scrivania, quindi in modo iper lo-fi. In “Malincocktail” ci sono state poi delle sovraincisioni, ma tutto nasce da una demo fatta in camera. Per altre siamo stati in studio da Boosta, come ad esempio nel caso di “Sogno”. Lo abbiamo registrato voce e pianoforte e poi Carlo ed io ci abbiamo messo un po’ di elettronica dal computer direttamente. Quindi ogni pezzo ha una sua storia di produzione che lo porta ad essere così. 
- Toccate molti generi, tra quelli più affini a voi c’è l’alternative rock, il progressive, il blues che si trova in vari pezzi. Perché amate fondere insieme questi generi così dissonanti tra loro?
- In realtà non è mai una cosa programmatica, non lo è mai stata, nel senso che non ci siamo mai detti “adesso facciamo un pezzo più in questo modo, o in quest’altro”. Tutto è nato in modo molto naturale. Ovviamente c’è la stratificazione dei nostri ascolti e parte di quello è venuto spontaneamente. Citi dei generi che hanno avuto a che fare con la nostra storia non solo come ascoltatori ma anche come musicisti. Carlo, che secondo me è uno dei più grandi chitarristi in Italia, ha una storia anche nel blues e in un certo tipo di rock e siccome tutti ci divertiamo a suonare, ci annoia fare l’accordo e la tonica, facendo a modo nostro vengono degli arrangiamenti particolari che possono richiamare il prog e altri dei generi che hai citato. Però ci tengo a dire che è stato tutto molto naturale, semplicemente noi ci troviamo insieme suonando e ci è venuto di trovare quelle sonorità. Anche e soprattutto con gli strumenti che avevamo in mano in quel momento. Penso che saremmo potuti essere una band totalmente diversa con le stesse persone se avessimo fatto delle jam con i sintetizzatori. Magari ora si starebbe parlando di un disco come quelli dei Kraftwerk o di Aphex Twin.
- Per quanto riguarda il progressive italiano siete degli estimatori degli Area?
- Sicuramente, ora non voglio parlare troppo per gli altri, ma sicuramente sì. Gli Area mi piacciono molto, ma in realtà non sono un grande estimatore di Demetrio Stratos, diciamolo come provocazione un po’ ironica. Mi spiego, Demetrio Stratos è stata una grandissima figura musicale, ma ora, nel 2025, sentendo i dischi degli Area trovo degli elementi ipermoderni e altre cose che sono invecchiate male. E penso che una delle cose che sono invecchiate male è la voce di Stratos. Basso e batteria invece sono ancora proiettati nel futuro oggi. 
- Il diritto di critica è sacro, non ci sono intoccabili, per cui il tuo è un punto di vista che non condivido, ma che è legittimo.
- Oltretutto per dirti il legame che poi abbiamo con gli Area, quando dovevamo scegliere il nome della band abbiamo scelto “NOCRAC” che ha vari significati, quello legato al crack come droga, ma anche legato al disco “Crac” degli Area. Per cui in realtà è anche insito nel nome il riferimento agli Area. 
- “Insonnia” è il pezzo che apre il Lato A e quindi tutta l’opera. Cantate “attendere il sole contando le ore”. E’ una condanna o è l’imbocco del tunnel per evadere?
- Questa in realtà è la domanda che pure il protagonista si pone e riguarda un po’ tutto il disco. Il punto è proprio fare in modo che non sia una condanna. L’album sembra arrendersi alla condanna esistenziale, ma allo stesso tempo è il tentativo di emanciparsi. Quindi direi che è ambivalente, spetta all’ascoltatore trovare la forza per leggerla nel modo migliore. 
- Parliamo adesso di “Sogno”, una canzone musicalmente molto movimentata, prima calma poi di colpo frenetica quasi a riflettere le fasi di un sogno, poi nuovamente serena nel finale. C’è questo carillon che sembra impazzire e poi sul finale trova la calma. Volevate ricostruire in musica l’andamento stralunato di un sogno?
- Sì esattamente, infatti il titolo di lavoro del pezzo era “Sogno/incubo/sogno”. E’ il pezzo che chiude il primo dei due “vinili” e quindi rappresentava proprio la fine della prima parte, in cui il protagonista torna a dormire ed è un riposo dopo due lati di delirio, avventure. Però il sogno non è del tutto tranquillo perché sa di non avere ancora risolto le sue dinamiche esistenziali e quindi anche in questo caso è ambivalente ed è anche un incubo, non la soluzione.
- Ho trovato interessante l’armonizzazione delle vostre voci che danno all’album, in particolare in alcuni brani, un’atmosfera quasi lisergica. Un esempio è “Amare tutto” del Lato C, che tra l’altro cita anche il rumore bianco, quel tipo di suono che si usa per trovare il sonno. 
- L’idea delle tre voci è nata in quanto tutti cantiamo e nel concept il protagonista in realtà è diviso in tre ed è in tre fasi diverse della sua vita. Quindi c’è la mia voce che rispecchia quando è più giovane ed è più spavaldo e meno controllato, la voce finale di Carlo che è quella più vecchia ed è quella della resa e poi c’è la voce di Riccardo che è quella centrale che cerca di trovare delle soluzioni. Quando ci siamo tutti e tre è un po’ una sintesi e infatti, per esempio, “Amare tutto” è un pezzo un po’ più distaccato e parla in terza persona. Quindi quando dicevi che è lisergica, sì vuole dare un po’ quell’impressione. Poi c’è il fatto che il disco ha dei riferimenti musicali degli anni 70, di un certo tipo di fare rock, non è un disco pop dell’oggi ed è pieno dal punto di vista lirico, ma soprattutto musicale. Ci sono alcuni glitch che disturbano questo riferirsi a un genere, cioè l’uso dell’elettronica e l’utilizzo delle voci. Per esempio in “Amare tutto” è molto leggero, ma c’è anche un pizzico di autotune. Fa parte anche quello dello smascheramento della finizione che mettiamo in atto. 
- “Malincocktail” è un dialogo al tavolino di un bar su come bere la vita. Come riesci tu e come riuscite voi come band a “bervi la vita”, cioè ad affrontarla?
- Dal punto di vista specifico direi che è il fatto di non arrendersi e non tenersi distaccati dalle negatività, dalle difficoltà della vita scegliendo di viverla con piena consapevolezza, anche se questo può portare a disagi emotivi. Però bisogna non rinunciare a vivere la vita in pieno, non pensando alle cose nel loro essere positive o negative, quanto piuttosto a coglierle. 
- Invece l’apertura del Lato B “Zebàni” è un pezzo rock blues molto sensuale su una donna. E’ un inno al sesso?
- Sono contento di aver scritto “Zebàni” in quel modo come testo perché ha degli incastri particolari, una modalità di scrittura che non avevo mai utilizzato prima e che invece è uscita molto bene. Ti racconto una serie di curiosità legate a questo pezzo. Il termine “Zebàni” è utilizzato in Turchia per indicare quelli che, nella mitologia islamica, sono i diavoli alle porte dell’inferno mussulmano. Quindi è presente questa figura del diavolo. Il pezzo è una di quelle esternazioni finto spavalde, il tentativo di approccio nei confronti di una donna. Poi vengono citati dei luoghi iconici di Torino, ad esempio il “Bunker” e si parla di andare a ballare la techno al “Bunker” (ndr locale storico del clubbing torinese) così come ci sono anche dei piccoli riferimenti a cose, persone e situazioni reali di questa città. E quindi è un tentativo di approccio molto spavaldo dal punto di vista sessuale e molto erotico. Poi però c’è il finale che è la resa in cui si dimostra che questo protagonista è solo fintamente spavaldo, ma in realtà sta soffrendo perché non riesce ad unire i punti che possono rendere effettiva quella relazione. 
- Una domanda in base a quello che mi hai raccontato. Abbiamo parlato di una chiesa, di diavoli. Qual è il tuo rapporto con l’aldilà?
- Domanda molto difficile. Direi che forse non me ne curo troppo. Seppure abbiamo delle spinte, come si nota nel disco, verso le energie, le forze, trovo che però questo sia un disco molto materialista e che quindi non si cura troppo dell’aldilà. 
- A proposito di “Le sei (Gioventù Ketamina)” che avete scelto anche come singolo, mi ricorda come testi i Marlene Kuntz e come suoni, come incedere un po’ la new wave anni ’80 fiorentina, ad esempio i primissimi Litfiba ancora pre “Desaparecido”. 
- Anche quello è un pezzo che ha una storia molto particolare perché usciva da una demo totalmente diversa. Volevo fare i Wilco ubriachi. Cioè dei Wilco che armonizzano male le chitarre. Poi però il risultato mi hanno detto che sembrava una rappresentazione  dei Sonic Youth sotto Ketamina e quello mi ha in realtà aiutato nel testo. Poi quello che tu dici è uscito un po’ per caso per la modalità con cui ci siamo ritrovati a registrarlo in studio. Non era una cosa ricercata. In realtà nelle chitarre sentivo molto all’inizio i Velvet Underground, ma capisco che alle volte le sensazioni che danno i suoni possano essere molto diverse a seconda dell’orecchio che le ascolta. 


Alla luce dell’intervista con Andrea Marazzi si coglie meglio il senso del titolo dell’album, “Sexy droga”. Le dipendenze, di qualunque tipo siano, possono essere attraenti, ma bisogna lottare e affrontare tutte le prove che ci pone di fronte la vita per liberarcene.

 

FEMINA RIDENS - ETNA CALLING - LA SIMENZA E LU CANTU - RECENSIONE A CURA DI IRIS CONTROLUCE PER #GLORYBOX


La parola portoghese "saudade" non ha una traduzione esatta, descrive un sentimento complesso di malinconia e desiderio nei confronti di qualcosa o qualcuno di assente. Non si tratta solo di tristezza, ma anche della speranza di riuscire un giorno a riavvicinarsi a chi o a quanto abbiamo perso. Sull’argomento, nel suo imprescindibile “Libro dell'inquietudine”, Pessoa, ha scritto che “non c’è nostalgia più dolorosa di quella delle cose che non sono mai state”. Ed è esattamente a metà strada tra le due condizioni emotive che trova la sua dimora ideale “Etna calling”, ultimo lavoro discografico dei Femina Ridens, uscito a fine ottobre 2025 per la RadiciMusic Records.
Il duo, composto da Francesca Messina e Massimiliano Lo Sardo, non volge lo sguardo al Portogallo, bensì alla Sicilia, terra dalle antichissime tradizioni e dall’immenso patrimonio culturale.



L’isola è stata dominata da una molteplicità di popoli (greci, romani, cartaginesi, arabi, normanni, francesi e spagnoli) e ciascun dominatore si è integrato con i dominati così da mescolare linguaggio, mestieri, poesie, nenie, filastrocche e canti religiosi.
Ed è proprio espressione di questa preziosa eredità artistica e multiculturale che i nostri diventano custodi e messaggeri, creando una connessione viva tra memoria e presente, tra melodie antiche e sonorità contemporanee.
Prodotto artisticamente da Cesare Basile (due volte Premio Tenco), le suggestioni musicali si muovono tra intrecci di strumenti arcaici e mediterranei (buttafuoco, santur persiano, harmonium indiano, guitarzouki, banjo-oud) ed elettronica suonata rigorosamente dal vivo, senza loop né basi preregistrate. Obiettivo non è tanto replicare fedelmente, quanto celebrare il folclore: esprimere gratitudine per le conoscenze apprese, onorandole con intensità e impressionante trasporto.
Nell’album, sofferenza e struggimento possiedono una straordinaria forza: un’efficacia che arriva diretta ai luoghi più oscuri del sentire, abbattendo ogni nostra forma di difesa. La musica si tramuta in un dardo infuocato, in grado di ardere e scaldare, commuovere e provocare un dolore feroce, seppur agrodolce.
Rimanendo in primo piano, la vocalità di Francesca cambia continuamente intenzione e colore. Ci accompagna in un cammino ricco di scoperte, racconti, sussurri, parole accennate, esternazioni di tormento e irrequietezza. Si fa intima, sofferta, graffiante, potente e trova nel tessuto sonoro un perfetto complice e compagno di viaggio.
Nel corso degli ascolti, l’esplorazione emotiva e musicale che seguirà, dilaterà il tempo e contrarrà lo spazio. Divenute ormai vicinissime, le atmosfere orientali faranno riemergere in noi emozioni sopite, permettendoci di entrare in contatto con vulnerabilità e fragilità latenti. Lo scenario è così perfettamente realizzato: una voce dalle timbriche suggestive ci conduce in un’operazione di ricerca e reinvenzione, la trascinante veemenza delle vibrazioni degli strumenti farà il resto.
Il riadattamento delle 8 canzoni ci proietta in un’epoca lontana, dove le percezioni fluttuano liberamente, senza controllo. Alcuni di questi brani sono legati a Giuseppe Ganduscio, grande etnomusicologo siciliano vissuto in Toscana. Temi centrali sono il perduto amante, la precarietà esistenziale, la solitudine degli invisibili, il patimento come conseguenza del lasciare andare e il manifesto politico di resistenza passiva. Da segnalare la splendida “Basilicò” (ispirata ad una novella del Boccaccio, affidato alla cantastorie Rosa Balistreri, che trovò fortuna a Firenze). La struggente “Spingula” è il ritratto di un amore non corrisposto che brucia al pari della furia di tramontana. L’attaccamento, inafferrabile e pericoloso, viene paragonato ad una spilla d’oro che può ferire fino a farci sanguinare. Le sensazioni di attesa e passione vengono sviscerate in “Usticana”, dove la mancanza della persona amata ritorna ostinata come onde su uno scoglio. Il santur persiano abbraccia i vocalizzi, trasformando le tensioni interiori in respiro e ritmo. “Turtula”, storia di una “tortora” di cui si è innamorati, viene lasciata libera e si fa metafora della perdita.



Il duo si abbandona con generosità: la loro contagiosa energia vitale viene affidata al canto in dialetto, ai versi poetici, al racconto, specchio di una visione luminosa sui sentimenti. Il risultato riesce ora ad assecondare ora ad arrotondare le spigolosità ritmiche. Fluida e svincolata dalla forma-canzone tipica, la melodia diventa bellezza ed esaltazione delle più remote reminiscenze. Il passato prende di nuovo vita con una prepotenza vigorosa, persuasiva e coinvolgente.
Etna calling è tutto questo, ma è anche un nuovo formato editoriale ideato da Femina Ridens. Lo hanno chiamato “Phono Tale” e raccoglie testi, traduzioni, illustrazioni originali di Massimiliano Lo Sardo, aneddoti e fonti storiche, indicazioni tecniche ed artistiche sulla produzione, un segnalibro con i link per il download e lo streaming dell’album. Il tutto in perfetto stile green per promuovere ecosostenibilità e minimizzare al massimo l’impatto sull’ambiente.
Per quanti tra voi sono d’accordo con Kahill Gibran quando diceva che “il ricordo è un modo per incontrarsi”, il nostro consiglio è quello di immergersi nell’ascolto del riuscitissimo disco del duo siculo-toscano che, pur mantenendosi fedele alla tradizione orale siciliana, è riuscito ad interpretarla e a modernizzarla, impedendo così al fuoco della memoria di disperdersi nei solchi del tempo.


Recensione a cura di Iris Controluce

domenica 16 novembre 2025

COMPAGNI DI MERENDE A LUCCA COMICS! INTERVISTA AL CREATORE DI "MERENDOPOLI" ANDREA MATTEONI A CURA DI SAMUEL FAVA



Quest’anno non voglio parlarvi delle solite polemiche che tornano puntualmente a ogni edizione del Lucca Comics. Ormai lo sappiamo tutti: i parcheggi sono costosi, gli alberghi hanno prezzi proibitivi e per entrare nei padiglioni, a volte, servono ore di fila (in media cinque solo per quello dedicato a Stranger Things).Voglio invece raccontarvi di un gioco che ha attirato la mia curiosità e, di conseguenza, la mia attenzione. Passeggiando per le vie del centro mi sono imbattuto nella sagoma a grandezza naturale di Pietro Pacciani, “testimonial” del punto vendita dedicato al gioco da tavolo MERENDOPOLI. È stato lì che ho incontrato Andrea Matteoni, l’autore del gioco, chiaramente ispirato alle tristi vicende del Mostro di Firenze, e più precisamente ai processi dei cosiddetti “Compagni di merende”: Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti, insieme ai numerosi personaggi che ruotavano intorno a quel mondo dal sapore quasi surreale.


Il caso del Mostro di Firenze continua a riscuotere sempre molto interesse, è probabilmente il più grande mistero giudiziario italiano, non a caso il 22 ottobre scorso Netflix ha pubblicato i primi quattro episodi della serie “Il Mostro” (che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati di questa vicenda e anche a chi si avvicina per la prima volta) e quindi c'è da aspettarsi che si risvegli ulteriormente l'interesse intorno a questo cold case che dopo 40 anni di indagini non ha ancora trovato una soluzione, anche se per la cronaca va detto che esiste una “verità processuale” ovvero che il colpevole di tre duplici delitti sia il reo confesso Giancarlo Lotti con la complicità di Vanni e Pacciani, ma diciamolo francamente, questa versione lascia molte perplessità.

"Comprate Merendopoli, brutti serpenti velenosi!"

Ma torniamo a noi, incontriamo Andrea Matteoni, ideatore di Merendopoli, un gioco da tavolo che rielabora in chiave satirica e con una buona dose di dark humor il classico schema del Monopoli, sostituendo le compravendite immobiliari con elementi e riferimenti tratti dai processi a Pacciani e ai cosiddetti Compagni di merende.

Un progetto che ha inevitabilmente fatto discutere: da una parte per la sua audacia nel trattare una vicenda tragica attraverso le regole del gioco, dall’altra per la riflessione più ampia che propone sul rapporto tra cultura pop, cronaca nera e memoria collettiva.

Con Andrea parleremo delle origini di Merendopoli, delle reazioni del pubblico e delle polemiche nate intorno al gioco, ma anche delle intenzioni artistiche e sociali che ne hanno guidato la creazione.



Com’è nata l’idea di trasformare un’icona del gioco da tavolo come il Monopoli in una versione ispirata ai processi del Mostro di Firenze?
C’è stato un momento o un’esperienza particolare che ha fatto scattare la scintilla?

Diciamo che, quando tornavo da scuola, avevo dodici anni e già allora guardavo il processo su un canale locale, Canale 10, che trasmetteva appunto il processo Pacciani. Quindi, fin da quando ero ragazzino, mi informavo su questa storia. Negli ultimi anni poi ho scoperto un sito, www.radioradicale.it, dove in alto a destra c’è una sezione “Cerca” che permette di trovare tutti gli audio dei processi. Da lì mi sono messo ad ascoltare prima il processo Pacciani, poi quello ai “Compagni di Merende”, e così via, in ordine. In totale credo di aver ascoltato circa cinque anni di registrazioni, ovviamente con delle pause: non tutti i giorni, ma comunque spesso.

Per quanto riguarda invece come mi sia venuta l’idea di applicare tutto questo al Monopoli, è stato semplice. Stavo giocando con alcuni amici al classico Monopoli, un gioco che mette d’accordo un po’ tutti grazie alla semplicità delle regole. Durante la partita tenevamo in sottofondo alcuni spezzoni del processo Pacciani su YouTube e, a un certo punto, mi venne in mente di cambiare i nomi delle località inserendo proprio i luoghi in cui il “Mostro” aveva colpito. Da lì è partita l’idea, inizialmente con dei post-it, e soprattutto quella di modificare il contenuto delle carte, perché in tutte le versioni del Monopoli le carte sono sempre le stesse e non riservano grandi sorprese.

Ecco, io penso che quello che mancava — e che forse è diventato anche il punto di forza della mia versione — siano proprio le carte, che riprendono gli aspetti più salienti e peculiari del processo.

Merendopoli tocca un tema estremamente delicato: qual era la tua intenzione artistica o sociale nel riportare quei fatti in forma ludica?

Diciamo che la mia intenzione iniziale era semplicemente creare un gioco da tavolo personalizzato. Non immaginavo affatto che potesse avere tutto questo successo: l’avevo pensato per me e, al massimo, per una cerchia di amici a cui regalarlo. Poi è nato un interesse inaspettato, dovuto non tanto al gioco in sé, quanto alle critiche che ha suscitato. Proprio quelle critiche hanno creato un effetto “boom” che ha fatto sì che il gioco prendesse piede.
Il gioco è stato poi modellato in modo da risultare il più leggero possibile, senza andare a rivangare i temi importanti o macabri della vicenda. Anzi, questi aspetti non vengono assolutamente trattati.

Prima di sviluppare il gioco, hai fatto ricerche dirette o consultato materiali giudiziari e giornalistici sui processi di Pacciani e dei cosiddetti “Compagni di merende”?

Beh sì, come dicevo prima, fin dalla tenera età mi sono sempre appassionato al processo Pacciani e al processo ai Compagni di Merende, anche perché erano vicende molto assurde, sia per i modi sia per i personaggi coinvolti. Poi, ovviamente, ci sono state letture di libri e la partecipazione a vari blog: confrontarsi con tante opinioni diverse aiuta a mettere meglio a fuoco quale potrebbe essere una verità, anche se, alla fine, ognuno cerca la propria e nessuno troverà mai una verità che vada bene per tutti.

Alcuni critici parlano di Merendopoli come di una provocazione, altri come di un’operazione culturale. Tu come lo definiresti?

Beh, sì: è una provocazione, diciamo, per chi ne parla in maniera “ignorante” nel senso letterale del termine, cioè senza conoscere realmente come si sviluppa il gioco e qual è il suo scopo.
Che sia diventato qualcosa di culturale… forse sì, ma in modo inconsapevole. Di certo non era la mia intenzione iniziale. Tuttavia, secondo me, è un gioco che può fare da apripista ad altri giochi basati su fatti reali.
Perché, alla fine, anche se il gioco ruota attorno a eventi macabri, non li valorizza né li esalta. Mette in evidenza solo il percorso giudiziario legato alla vicenda, senza mai fare riferimento diretto a omicidi o morti.

C’è chi sostiene che Merendopoli sfrutti l’interesse morboso verso il “true crime” . Qual è stato il confine più difficile da gestire tra satira, memoria storica e rispetto per le vittime e le famiglie coinvolte?

Beh, il gioco non sfrutta proprio nulla. L’interesse morboso delle persone esiste a prescindere, che ci sia il “Merendopoli” o no. Il successo che negli anni ha avuto Un giorno in pretura lo dimostra. Il fatto che le persone vogliano approfondire una vicenda, soprattutto una così sconvolgente per l’Italia e diventata iconica per personaggi, modi e tempi, è qualcosa che esiste già.
Alla fine è la stessa dinamica che segue Netflix quando produce una serie, o chi scrive libri sull’argomento: si intercetta un interesse già presente. Non è l’oggetto a creare l’interesse; l’interesse c’è comunque.

Quando il gioco è stato reso pubblico, quali reazioni hai ricevuto dal pubblico e dai media? Ci sono state contestazioni o anche apprezzamenti inattesi?

Appena il gioco è stato reso pubblico, ha ricevuto molte — davvero molte — note positive e una quantità di complimenti inaspettati, soprattutto per me che ne sono l’ideatore. Ovviamente, insieme agli apprezzamenti, sono arrivate anche diverse critiche, ed è stato proprio questo a catturare l’attenzione dei media e delle radio, come Radio 24, e di testate come La Nazione, la Repubblica, Il Tirreno, oltre a trasmissioni televisive come il TGCom di Mediaset.

Hai ricevuto pressioni, diffide o critiche ufficiali da parte di enti, associazioni o persone legate ai fatti reali rappresentati nel gioco? Guardando oggi al clamore e alle polemiche, rifaresti lo stesso gioco con lo stesso approccio, o cambieresti qualcosa nella comunicazione e nella sensibilità con cui lo hai presentato al pubblico?

Ci sono state alcune lamentele, ma limitate ai commenti su Instagram o Facebook. Per quanto riguarda invece reclami formali o contestazioni dirette alla Lucca Toys, la ditta che distribuisce il gioco, non ce ne sono state
Credo inoltre che il gioco non urti la sensibilità di nessuno, se non di chi ne parla senza sapere realmente di cosa si tratti.


Guardando al futuro, credi che Merendopoli possa evolversi in nuovi progetti — magari ampliando il discorso sul rapporto tra gioco, media e memoria collettiva?

Il Merendopoli è stato per me una grande soddisfazione personale, ma, in quanto ideatore e unico detentore del marchio, ho deciso che questo gioco rappresenta un inizio e una fine. Non esisteranno altri prodotti come il Merendopoli che oggi le persone hanno ancora la possibilità di acquistare. Se un giorno realizzerò altri giochi o altre versioni, saranno comunque diverse da ciò che il pubblico conosce finora.
Qualsiasi progetto futuro, però, avrà inevitabilmente una vena capace di far nascere polemiche. Non perché sia il mio intento, ma perché, purtroppo, è il modus operandi del grande organismo che è la collettività sociale in Italia, in questo momento.

Andrea Matteoni, il creatore di Merendopoli

Dopo l’uscita della serie Netflix “Il Mostro” hai notato un aumento di interesse o un cambiamento nel modo in cui il pubblico si avvicina al tuo gioco?

È una domanda interessante. Non direi che ci sia stato un vero e proprio aumento, quanto piuttosto un andamento costante. Forse la crescita recente delle richieste dipende dal fatto che ci stiamo avvicinando al periodo natalizio.
Quello che invece è cambiato è l’approccio del pubblico. Se i primi clienti acquistavano il gioco in modo più goliardico, quelli successivi lo vedono davvero come un’alternativa di gioco, non come una semplice curiosità. E, in molti casi, lo acquistano anche per approfondire e capire meglio i fatti della vicenda.

Andrea, per concludere vorrei un tuo parere, dopo aver studiato a fondo la vicenda per creare Merendopoli, ti sei fatto un’idea personale su ciò che è realmente accaduto?
Secondo te, riusciremo mai a conoscere la verità definitiva sul “Mostro di Firenze”, o resterà per sempre uno dei grandi enigmi irrisolti della nostra storia?

Beh, sì, un’idea me la sono fatta. Nella mia testa ho anche un possibile colpevole — che, ovviamente, non dirò mai — ma credo che i cosiddetti “Compagni di Merende”, cioè Lotti, Vanni, Pacciani e Pucci, fossero più che altro un gruppo di guardoni. Penso che avessero visto qualcosa e che siano stati convinti a tacere e a negare tutto. Secondo me sapevano, sicuramente avevano visto, ma non erano parte attiva degli omicidi.
Queste, naturalmente, sono solo mie considerazioni personali.

E sì, resterà sempre una delle vicende più discusse, anche perché — sempre secondo il mio punto di vista — qualcuno che aveva la possibilità di intervenire dall’interno ci ha messo mano. Io credo che il nome “Mostro di Firenze” sia molto azzeccato non solo perché colpiva nella provincia fiorentina, che è vasta, ma perché, metaforicamente, potrebbe essere stato qualcuno che camminava nei corridoi della questura di Firenze. Anche questa, ovviamente, è solo una mia opinione.

Ma io penso che la tua opinione -seppur "scomoda"- faccia riflettere, non si spiega altrimenti come facesse "il mostro" ad essere sempre un passo avanti agli indagatori! 
Sono proprio curioso di vedere se anche la serie Netflix, dopo aver analizzato la cosiddetta "Pista sarda" si avventurerà in scenari così delicati! 
Chissà se prima o poi riusciremo a scoprire la verità, dopo così tanti anni dubito.
Andrea, grazie per aver condiviso con noi il tuo percorso e le tue riflessioni. È stato interessante vedere come un progetto personale ludico si sia trasformato in un fenomeno mediatico, mantenendo sempre uno sguardo ironico ma rispettoso su vicende così delicate. La tua esperienza ci offre un punto di vista originale sia sul gioco sia sul modo in cui il pubblico reagisce a temi così complessi e controversi. 
Quando vuoi ti aspettiamo in studio per continuare la chiaccherata!





giovedì 13 novembre 2025

FESTIVETEN #10112025 - AGGIORNATA SU SPOTIFY LA PLAYLIST A CURA DI RISERVA INDIE CON UNA SELEZIONE DAL MEGLIO DELLE NUOVE USCITE DEL PANORAMA MUSICALE ITALIANO


Aggiornata su #spotify, nel player in questo post,  la nuova #festiveten di #riservaindie con le novità della settimana, e non solo, selezionate dalla nostra redazione. Un flusso di musica costantemente rinnovato, senza barriere di alcun genere, sotto forma di playlist con gli artisti che sono passati fisicamente nella nostra trasmissione e quelli che vorremmo ospitare, ovviamente tutti rigorosamente del panorama indie italiano. In questa #festiveten ci sono le nuove entrate di #glazyhaze #abissi #tosello #edda #indianwells #mariachiaraargiro #marcogiongrandi #godofthebasement. Seguiteci sui nostri social facebook, twitter, instagram, e piacete (e magari condividete) la nostra #festiveten su spotify. Nessuna tessera e nessun denaro è richiesto per partecipare ed ascoltare #festiveten. Buon ascolto.

mercoledì 12 novembre 2025

BYE BYE SHOW - RITMO TRIBALE - "ANCHE I SOGNI PIU' BELLI FINISCONO. COSì PURE I TRIBALI" - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI OLIVIERO GERVASO


Anche le cose più belle finiscono. Così pure i Tribali.
Con questo incipit si apriva il comunicato con cui i Ritmo Tribale mettevano un punto alla loro carriera, che sarebbe culminata, dopo diciassette anni, il 26 maggio 2000 con un concerto denominato “Bye Bye Show”. Un quarto di secolo più tardi, l’etichetta Overdrive pubblica “2000 Bye Bye Show – Live 26 Maggio 2000”, testimonianza sonora del capitolo finale della storia del quintetto (già sestetto, in origine quartetto) milanese. Questo doppio album offre dunque l’occasione di vivere o rivivere le emozioni di quella sera, quando sul palco del Palaconcerti Aquatica di Milano, dopo le esibizioni dei trentini C.O.D., dei brianzoli Rapsodia e di Francesco Renga al primo tour da solista dopo essere stato defenestrato dai Timoria, salirono per l’ultima volta i Ritmo Tribale. Il gruppo un po’ scarico e demotivato visto in azione nei mesi precedenti durante il tour di “Bahamas” viene rimpiazzato da una versione assai più affine a quella che li aveva imposti come uno dei nomi di punta del rock alternativo, prima nella loro città e quindi a livello nazionale. “In teoria, copione vorrebbe che io dicessi qualcosa… in realtà io non so cosa dire”, ammette Scaglia nelle battute iniziali. Se i discorsi risultano un po’ incerti, non così la musica, che mette in fila alcuni degli episodi più significativi del repertorio tribale in una scaletta che se non è un “best of”, poco ci manca. A impreziosire il quadro, numerosi amici/ospiti si avvicendano al microfono e agli strumenti; tra i più noti, il sopracitato Renga e i Negrita al gran completo. Insomma in questo “2000 Bye Bye Show” ce n’è per tutti: dai pezzi più irruenti degli esordi fino alle ballate, passando per il robusto crossover anni Novanta e le ultime composizioni imbevute di psichedelia. E mentre sul palco di Aquatica si dipana lo striscione “Tribali Per Siempre” a guisa di titoli di coda, allo stesso modo il disco in oggetto è una fotografia indelebile, non solo di uno specifico concerto ma di un’intera epoca dell’oro del rock italiano.


Il mese scorso ha visto la pubblicazione, prima in doppio LP e doppio CD quindi in digitale, di “2000 Bye Bye Show”, testimonianza del concerto con il quale i Ritmo Tribale dettero l’addio alle scene. Com’è nata l’idea di questa produzione, e come mai (solo) adesso?
FABRI: Ti risponderei con la frase di Andre che stiamo usando di più, in questo ultimo anno: le cose non sono, le cose succedono.
Ecco, questa è successa da sé. Io ero su un passo di montagna a fare un periodo sabbatico in cucina; Cesca (uno dei nostri fonici del cuore) mi ha mandato un messaggio ricordandomi ciò che avevo rimosso, ovvero che la sera del Bye Bye Show lui l'aveva trascorsa in camerino a registrare il concerto. Ne aveva trovati dei rough e me li ha spediti. La qualità del suono era agghiacciante, ma l'intensità delle esecuzioni mi ha fatto venire la pelle d'oca, attraverso le cuffiette. Ricordo che è stato dopo aver ascoltato Bandiere che ho chiesto a Cizzy di provarci insieme. La leggenda narrava di un HD smarrito e che Briegel ha recuperato per poi farlo arrivare in Umbria. Da lì, il ping pong tra la terra di San Francesco e quella di Santa Caterina (di Valfurva), fino ad arrivare ad agosto 2024 nel Boom Box Studio di Mauro Tondini dove abbiamo affrontato il problema della qualità, ma questa è un'altra storia... Ti basti sapere che nemmeno una nota è stata risuonata. Tutto il materiale è quello originale, salvi i tagli di cose che davvero non potevamo salvare.

Cosa ricordate di quel 26 maggio 2000? Com’era l’atmosfera dietro le quinte di quella che era una festa ma al contempo un commiato?
E riascoltando oggi le registrazioni del “Bye Bye Show” che emozioni vi suscita? Magari è riaffiorato qualche ricordo rimasto sepolto in questi venticinque anni?
FABRI: Riascoltare un concerto così importante è un'emozione intensissima che si ripete ogni volta. Uno dei nostri ospiti non c'è più, tutti siamo cambiati e il tempo ci ha spazzolati in ogni senso. Creare un punto fermo così importante come la pubblicazione de "l'ultimo concerto", poterlo raccontare, è una cosa difficile da spiegare. Mi ricorda da dove vengo. E questo mi fa bene. 

Il disco include venti tracce (ventuno nella versione cd), con una scaletta che citando il comunicato stampa dell’epoca è “una gita dall’archeologia Tribale ad oggi”. La resa sonora non mostra troppe concessioni a ritocchi di sorta in postproduzione. Sono addirittura presenti alcune imprecisioni come la “falsa partenza” in “Lumina”. Vista l’onestà e la trasparenza dell’operazione, cosa ha motivato altresì la scelta di escludere alcune canzoni eseguite quel 26 maggio dalla tracklist dell’album?
FABRI: Scordature inammissibili, cacofoniche. Dove potevamo recuperare lo abbiamo fatto, ma se una chitarra è fuori di mezzo tono e ne hai rientro in tutti i microfoni del palco... Non c'è altro da fare che salutare il brano. Il problema è che quella sera l'emozione era padrona di tutti, backliner inclusi. Quindi, alcuni ospiti sono stati penalizzati.


Durante il concerto, i Negrita salirono sul palco per omaggiare i Ritmo Tribale con la loro interpretazione di “Universo”. Come nacque e si sviluppò l’amicizia tra le due band? È vero che la vostra foto di copertina di “Mantra” era una presa in giro del loro videoclip di “Cambio”? C’è qualche ulteriore aneddoto legato al vostro rapporto che vi va di rievocare?
FABRI: Ne avrei mille ma il primo incontro è stato indimenticabile: grazie ai rispettivi management si era creata la leggenda di un odio tra noi. Ovviamente era tutto falso ma qualcuno alimentava la voce e, siccome i nostri primi dischi Black Out sono usciti a poca distanza, i circuiti erano gli stessi e i promoter chiacchieravano in una sorta di parodia Blur Vs. Oasis (de noantri). Finché mi feci dare in Polygram il numero del (unico) telefono dei Negrita e (con l'unico dei Tribali) li chiamai per chiarire la faccenda con Pau. Finì a tarallucci ma loro ci confessarono in seguito che la prima volta che ci videro scendere dal furgone (al Primo Maggio a Roma) furono lieti che l'antipatia fosse inventata, dato il nostro appeal...

Il manifesto promozionale del “Bye Bye Show” parodiava lo slogan della celebre crema spalmabile alle nocciole: “Che mondo sarà senza Ritmo Tribale?” Che mondo è stato senza i Ritmo Tribale per i Ritmo Tribale? Come avete affrontato individualmente i postumi della fine del gruppo dopo un’esperienza così lunga, intensa e totalizzante?
(ALEX) Guarda, nonostante fosse l'ultimo concerto che forse avremmo fatto io non mi sono mai sentito senza i Ritmo Tribale. Il nostro legame va molto oltre la musica, siamo cresciuti insieme e invecchieremo insieme. La musica è una porta che ogni tanto decidiamo di aprire per respirare aria buona. Per me è impossibile pensare che possa finire il gruppo, al massimo possiamo decidere di non essere più visibili all'esterno. 

In una recente intervista, l’ex cantante dei Ritmo Tribale ha dichiarato al proposito di un eventuale riavvicinamento, che “forse oggi tornare nell’identico modo sarebbe piuttosto anacronistico” (salvo poi virare su posizioni più possibiliste come peraltro ha sempre fatto negli ultimi quindici anni ma senza che nulla andasse in porto). Per i Ritmo Tribale è anacronistico salire sul palco oggi e riproporre un repertorio quasi interamente risalente agli anni Ottanta e Novanta?
(ALEX) Non so che cosa Edda abbia in testa, quello che so è che negli ultimi 30 anni noi siamo andati in una direzione diversa dalla sua sia umanamente che artisticamente, motivo per cui le nostre strade non si sono mai unite. Per me musicalmente niente è anacronistico, dal momento che da sempre noi suoniamo solo quello di cui abbiamo voglia e se non abbiamo voglia o non suoniamo live o ognuno di noi coltiva altri interessi. Non abbiamo mai fatto la cover band di noi stessi. Ci muoviamo solo quando scatta la magia. Come per esempio nell'ultimo concerto fatto a Milano che è stato bellissimo proprio perché abbiamo ribaltato la classica scaletta inserendo nuovi pezzi e nuovi arrangiamenti. 

Il 26 maggio 2000 ci fu il “Bye Bye Show”. Tuttavia, già nel 2002 i Ritmo Tribale tornarono fugacemente con alcuni concerti e l’uscita di un cofanetto che includeva le riedizioni rimasterizzate dei primi due dischi “Bocca Chiusa” e “Kriminale”. E, a singhiozzo, vi siete fatti rivedere nel corso degli anni, tra ristampe, apparizioni live e anche un album di inediti. Ciascuna di queste iniziative è stata sempre accolta con calore da un “bacino d’utenza” non certo oceanico ma affezionato e compatto nel reclamare un calendario meno occasionale. In particolare, nel 2025 vi sono state delle esibizioni in acustico e, per l’appunto, il primo album live ufficiale, celebrato con un concerto al Legend di Milano lo scorso 10 ottobre (senza contare un progetto “collaterale” quale il vodcast “Milano Sogna” dedicato al mondo che gravitava intorno al Jungle Sound). Immancabile domanda conclusiva alla luce di queste attività: nell’immediato futuro c’è qualcosa in previsione per i Ritmo Tribale e per chi li segue?
(Alex) Il problema è che secondo me noi siamo da sempre uomini occasionali, adesso per tanti motivi sarebbe difficile programmare per un lungo periodo concerti e registrazioni ma come spesso è successo quando vediamo l'occasione giusta ci illuminiamo e diamo il meglio di noi stessi alla musica. Abbiamo diversi nuovi brani molto belli. Quando i pianeti si allineeranno probabilmente saremo pronti a registrarli e a suonarli dal vivo. 

domenica 9 novembre 2025

EFFENBERG - UN CANTAUTORE IN RIVA AL MARE - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Il mare è uno degli elementi naturali più evocativi, ricco di suggestioni ed è ad esso che pittori, poeti, musicisti nel tempo si sono ispirati. Così è stato anche per Effenberg, nome d’arte del cantautore Stefano Pomponi, originario di Lucca. L’ispirazione marina è molto evidente nell’ultimo singolo “Sale su sale”, con il featuring di Alberto Bianco, uscito nell’ottobre scorso. Il pezzo parla della vita, del desiderio di goderne ogni giorno con la consapevolezza che non è necessario affannarsi troppo a dare un senso a tutto. L’arrangiamento dipinge un quadro arioso che si colora di un testo che esprime appunto la volontà di “fare belli tutti i momenti, soprattutto quelli normali”, con la spensieratezza di chi si diverte a “fare il verso agli animali”. La canzone è insomma un inno al vivere qui e ora, a cogliere l’attimo fuggente, a provare, osare, sognare insieme. Prima di “Sale su sale” il cantautore ha pubblicato nel 2025 altri due singoli. Il brano “Anch’io” è cantato in duetto con la cantautrice Anna Carol, la cui voce danza con quella di Effenberg il ballo di una storia d’amore che, in realtà, è anche una riflessione sincera su come viviamo i nostri sentimenti.  Versi chiave sono “ti amo anch’io può essere una brutta frase” e “l’amore è una sentenza, una sentenza che ha le sue ragioni. Passeggiata delle confessioni, ci diciamo passo dopo passo tutti i nostri errori”. L’arrangiamento fonde strumenti canonici con una componente elettronica più marcata, ma funzionale alla resa del brano, che ha la potenzialità di arrivare ad una platea ampia suscitando l’interesse di persone con punti di riferimento musicali anche molto differenti tra loro. Prima di “Anch’io” Effenberg ha pubblicato “Sogno aziendale”, una fuga dall’opprimente quotidiano e il desiderio di lasciarsi andare usando la luna come un lampione, come recita un verso del brano, per ingannare il tempo sapendo che ogni strada porta dove ci vuole portare e quindi, in fondo, non si può avere il controllo su tutto. Dal punto di vista sonoro l’arrangiamento cadenzato valorizza le qualità non solo melodiche ma anche ritmiche del pezzo rendendolo particolarmente accattivante. Sul finale colpisce lo scat usato alla maniera di Lucio Dalla che, registrato quasi in presa diretta con la voce fuoricampo che commenta “è sbagliato”, strappa un sorriso di complicità. 
Effenberg ha accettato di condividere il significato dei suoi pezzi e alcune riflessioni sui modi per affrontare la vita di oggi.


- Ascoltando i tre singoli usciti nel 2025, quindi “Sogno aziendale”, “Anch’io” e l’ultimo “Sale su sale” emerge quanto sia importante per te l’elemento mare. Il mare, infatti, fa capolino in tutte e tre i pezzi. Quali sono le suggestioni che ti porta in quanto cantautore?
- In realtà è una storia che va oltre questi tre singoli, in tutta la mia discografia emerge in modo prepotente il mare anche perché sono tantissimi anni che lo frequento sia d’estate che d’inverno. E’ un elemento che ispira molte persone perché è, si potrebbe dire, mantrico, ipnotico, una specie di foglio bianco che ti resetta un po’ i pensieri. Quando vado al mare anche d’inverno è uno dei pochi posti in cui i pensieri rallentano e si diradano. Quindi è rilassante e direi anche un po’ mistico. 
- In “Sale su sale” canti “ci interroghiamo su cosa siamo ma tanto non lo sappiamo”. E’ un po’ il tuo socratico “Io so di non sapere”?
- Di solito mi lancio in teorie esistenziali, ma su questo pezzo ero un po’ esausto di questo tipo di ricerca che, novantanove volte su cento, non porta a conclusioni e quindi quando ho scritto “Sale su sale” il mio intento era di smetterla almeno temporaneamente, nel periodo in cui l’ho scritta, di cercare risposte o di angustiarmi, ma vivere un po’ più serenamente ciò che viene. 
- Nel coro finale di “Sale su sale” dici “anche se perdi e poi finisce è sempre uguale”. Si tratta di relativizzare le sfide della vita? Vederle da un punto di vista più esterno, come meno importanti?
- Sì relativizzare quello e anche in generale la vita. Perché prima o poi la perdi ma che fai, non la provi, non scommetti, non ti butti nella quotidianità? Buttati. E’ un po’ quello il discorso che ho fatto sulla coda di “Sale su sale”. 
- Hai fatto due duetti nei tuoi pezzi recenti, uno è “Anch’io” con Anna Carol e l’altro è proprio “Sale su sale” con Alberto Bianco. Quali sono le affinità che ti legano a loro? Come vi siete conosciuti? 
- Per quanto riguarda Alberto Bianco lo conoscevo già da tempo come fan della sua musica e poi il passaggio da fan a collaboratore è stato semplice, nel senso che tramite amici in comune ci siamo conosciuti. Una volta sono andato a un suo concerto ed è nata questa idea di provare a lavorare su un pezzo, che è appunto “Sale su sale” ed è nato in maniera molto naturale perché io gli ho mandato la traccia con una parte di una strofa muta e lui dopo poco mi ha rimandato una versione subito calzante, sembrava già che facesse parte del pezzo. Ed è praticamente la versione che è uscita. C’è stato giusto il cambio di una parola ma è stata “buona la prima”. Per quanto riguarda Anna io non la conoscevo ma il tramite è stato mio produttore, che è Ramiro Levy dei Selton (ndr oltre a Ramiro Levy ha lavorato ai brani di Effenberg anche Alessandro Di Sciullo). I Selton hanno suonato nel disco di Anna e quando abbiamo arrangiato “Anch’io” è stata un’idea di Ramiro farmi ascoltare questa cantautrice. Appena ho ascoltato i suoi pezzi mi sono innamorato subito, le ho scritto e lei ha accettato. Si è innamorata del pezzo, ci siamo sentiti prima della stesura e abbiamo parlato un po’ anche delle suggestioni che c’erano nel brano, di quello che percepiva lei e poi ci siamo trovati in studio un giorno caldissimo di luglio e abbiamo registrato anche la sua parte. 
- Ho letto che ti sei esibito anche nel carcere della tua città, San Giorgio. Quanta fame di musica e quindi di cultura hai trovato nei detenuti?
- Molta. Quando sono andato non sapevo bene cosa aspettarmi, pensavo un po’ di disinteresse mentre in realtà è stato tutto l’opposto, nel senso che è stato un concerto molto partecipato. Siamo andati in questo teatrino del carcere ed erano tutti presi bene, contenti ed è stato sicuramente uno dei concerti più interessanti di cui ho memoria. 
- Nel cantautorato contemporaneo l’uso dell’elettronica è ormai normale. Una volta il cantautore tradizionale, i Battisti o De Gregori usavano oltre l’inseparabile chitarra, archi fiati o pianoforte. Secondo te è ora di superare questi steccati che dividono la musica in generi, un po’ come gli scaffali dei negozi di dischi? 
- Sì direi di sì nel senso che il fulcro che deve rimanere è la scrittura, questo è ciò che distingue un cantautore da un interprete. Per quanto riguarda invece gli stilemi, gli arrangiamenti, direi che si possono superare gli steccati. In realtà, mentre De Gregori è sempre stato più canonico nella scelta degli arrangiamenti usando strumenti per così dire organici, in realtà in Battisti ci sono già molti sintetizzatori e molta elettronica. Così come in Battiato. Quindi io direi che si possono superare tutti gli steccati, ma se vogliamo fare una distinzione tra interpreti e cantautori mi focalizzerei più che altro sulla scrittura. 
- A proposito di steccati, “Sogno aziendale” è una ribellione alle costrizioni del quotidiano, al lavoro classico dalle 9 alle 17? 
- Sì a quello, ma è, più che una ribellione, la descrizione dello stress moderno, che quindi va oltre il lavoro, è una riflessione su quanto la burocrazia e, in generale, la difficoltà della vita moderna sia pesante nel quotidiano, ci tolga creatività e ci ammorbi. Per fare un riassunto userei la parola “burocrazia”, anche se non è solo quello, ma è la difficoltà di vivere, di lavorare, tutto diventa difficile ultimamente. Il brano parla di questo tema.
- Al termine di “Sogno aziendale” dopo l’ultimo verso, parte una specie di freestyle cantautorale che mi ha richiamato un po’ il “Duvudubà” di Lucio Dalla.
- Sì è lo scat, io effettivamente un po’ ce lo sentivo poi la prima registrazione mi ha fatto pensare che sembrasse un po’ troppo una citazione e quindi l’ho tolto e abbiamo fatto uno strumentale. Alla fine in realtà, siccome lo sentivo tanto, l’ho rifatto e l’ho lasciato. 
- Una curiosità. La grafica delle tue copertine. Mi è capitato di vedere la copertina dell’ultimo album di un cantautore che so che conosci che è Il solito Dandy che ha un artwork simile al tuo. E’ una casualità o è in atto tra voi un gioco di rimandi?
- In realtà è una casualità. Sto facendo un lavoro sulle copertine con il grafico, che è Dudu bassista dei Selton e questa cosa con Il Solito Dandy è una casualità, anzi devo andare a vedere la copertina perché non l’ho presente. 
- E’ una sua foto in primo piano con un’aragosta davanti al viso.
- Allora sì ho presente ed è assolutamente un caso. 
- Ho letto che alcuni tuoi brani sono stati portati anche al cinema dal regista Valerio Mieli. Tu comporresti mai musica, almeno in parte, strumentale per il cinema? O magari canzoni a partire dalla visione di un film?
- Sì, devo dire che sarebbe una cosa interessante, una sfida che mi attrae, quindi sì mi piacerebbe farlo


Disilluso, ma non arreso, un uomo che sa che la vita non è aspettare che passi la tempesta, ma è imparare a ballare sotto la pioggia, come insegna Gandhi. Effenberg è così, resiliente. E le sue canzoni possono diventare momenti da ricordare e condividere con chi amiamo.