E' uscita in nuova edizione aggiornata per Officina di Hank la prima biografia europea, curata da Giuseppe Ciotta, che racconta la vita e gli eccessi di Layne Staley e degli Alice in Chains. Ne abbiamo parlato con l'autore.
Quando e come nasce la tua passione per Layne Staley e gli Alice In Chains?
Nel 1991. Grazie agli annunci su riviste quali Metal Shock ero in contatto con altri lettori. Ci scambiavamo registrazioni d’ogni genere. Alcuni mi spedivano VHS con le trasmissioni di MTV USA o di canali musicali nordeuropei. In una c’era il video di Man in the Box: l’immagine e la vocalità di Layne Staley mi restarono impresse. Conoscevo già i Soundgarden ma il Seattle Sound non era ancora un fenomeno, e Nevermind dei Nirvana non era uscito. Un’altra epoca: per un 15enne della provincia siciliana era difficile reperire certi dischi. Meno male che avevo amici più grandi, alcuni pure musicisti, che avevano il buon cuore di registrarmi i nastri con le novità del momento, oltre a portarmi alle loro prove o ai miei primi concerti importanti. Durante uno di questi - al Monsters of Rock del 14 settembre ’91 a Modena, con Metallica ed AC/DC fra i tanti - c’era uno stand con l’edizione limitata del primo LP degli Alice In Chains abbinato alla videocassetta Live Facelift. Non potevo permettermela e mi accontentai della musicassetta.
Si è trattato di un “colpo di fulmine” o di un amore maturato col tempo?
Bella domanda. Decisamente la seconda. Il “colpo di fulmine” l’ebbi con Cobain e soci. Per quanto Facelift mi avesse colpito, acquistai Nevermind un paio di mesi dopo l’uscita perché Mixo aveva trasmesso su Radio Due, a Planet Rock, l’intenso concerto romano dei Nirvana, che nel novembre ’91 mi aveva entusiasmato. Da quel momento la mia idea di rock ascoltato e suonato, dato che avevo appena iniziato con la chitarra, cambiò completamente. Cominciai a procurarmi gli artisti citati da Kurt nelle interviste, o almeno quelli che riuscivo a trovare: Melvins, Sonic Youth… La cosa mi fece allontanare per un po’ dal metal e dai gruppi contemporanei, come Alice In Chains e Soundgarden, che più ne risentivano; scoprii l’indie rock, l’emocore, il post rock e i complessi legati al Do It Yourself e a un concetto molto artistico e poco mainstream della musica, quali Slint, Fugazi, JSBX e i miei conterranei Uzeda. Servì ad ampliare la mia educazione musicale, centrata sui dischi degli anni ’60/’70 dei miei genitori e sull’hard rock/heavy metal degli ’80, facendomi aprire alla musica senza preconcetti. Di conseguenza, quando nel 1992 un amico m’invitò a casa sua per farmi sentire il nuovissimo Dirt in CD, ricordo bene cosa gli dissi alla fine dell’ascolto: “E ora uno che può fare, dopo un disco così?”. E lui: “Scendere al bar di sotto e bersi una birra!”. Avevo solo 16 anni! Lo acquistai subito e corsi a recuperare Facelift, dato che il nastro l’avevo consumato. Poi, in Olanda, trovai l’edizione doppia con i vinili colorati arancione e blu di Jar of Flies abbinato a SAP. Fu la sequenza Rotten Apple più Nutshell a fare degli Alice In Chains una delle mie band preferite, giacché mostrava che erano artisti completi, non soltanto bravi musicisti d’estrazione metal o esponenti del grunge come moda del momento.
Hai vissuto l’epopea della band “a distanza” o anche di persona, assistendo a concerti o magari addirittura incontrando i musicisti?
Ho vissuto gli Alice In Chains “in diretta” nella misura in cui li ho seguiti passo dopo passo nello svolgersi degli eventi: da band di nicchia a fenomeno grunge mondiale; da formazione in difficoltà per i problemi di Layne Staley alle poche e sconfortanti notizie sulla sua salute; dall’orrendo gossip attorno alle sue condizioni fino alla tristissima morte. La moltitudine di libri e riviste, anche stranieri, accumulata in quegli anni e da cui traevo queste informazioni è stata determinante per dar voce al gruppo, tenuto conto che molte di quelle interviste erano inedite in Italia. Questo perché né prima né al momento di lavorare a In Catene ho potuto incontrarli. Ci ho provato, contattando il loro press agent americano, l’agenzia di booking e l’ufficio stampa italiani ma nulla. Non mi stupisce, gli Alice si erano concessi solo a Greg Prato per Grunge Is Dead e in un periodo in cui gli faceva gioco ripuntare i riflettori su di loro, visto che erano tornati; ma non hanno parlato né con Mark Yarm, autore di Everybody Loves Our Town, né con David De Sola per Alice In Chains - The Untold Story. Voglio dire: il primo un autorevole critico newyorchese, il secondo un affermato cronista della CNN… Così, come questi ultimi, anch’io ho consultato materiale d’archivio, e poi i loro stessi libri, sentendomi pure con Prato e Yarm. Ho visto i Chains dal vivo con DuVall. Nel 1993, da minorenne, non potevo decidere da solo e dovevo confrontarmi con gli amici più grandi con cui i miei mi lasciavano andare ai concerti: per accontentare tutti, si optò per i Guns N’ Roses a giugno, nella data di Modena; quindi, il live dei Chains a febbraio era stato escluso. Allora non c’erano voli low cost dalla Sicilia né treni veloci - questi, purtroppo, neanche oggi - così, per raggiungere il Nord Italia senza “dissanguarti”, dovevi partire il giorno prima dello show, sopportare 20 ore di vagoni lenti, vecchi e maleodoranti, “dormirci” sopra e, una volta in loco, pagarti una camera d’albergo dove crollare dopo lo spettacolo e i postumi del viaggio. Non era un’avventura che potevi affrontare più volte in un anno e, a quell’età, non era fattibile neppure economicamente. Non che mi sia dispiaciuto aver visto i Guns N’ Roses, anzi. Ma al concerto di Layne al Rolling Stone di Milano ancora ci penso…
Come nasce la decisione di dedicarsi a quest’imponente opera divulgativa (che peraltro va a colmare un vuoto, quantomeno riguardo alle pubblicazioni europee) che è In Catene?
All’alba del 2016 avevo contattato alcune case editrici proponendo vari progetti. Marco Porsia - allora direttore commerciale di Chinaski Edizioni e oggi responsabile di Officina di Hank, che ha appena ristampato il libro - fu il primo a chiamarmi, convocandomi a Genova. Lì trovai anche il direttore editoriale di Chinaski, lo scrittore Federico Traversa, che mi ha affidato l’incarico di una biografia su Layne Staley e gli Alice In Chains dopo aver compreso il mio background e aver saputo che mi sarei recato negli States per un lungo viaggio attraverso la West-Coast. Lo ha raccontato magistralmente lui nella prefazione a In Catene. Dal punto di vista umano, per me il libro rappresenta il tentativo di dare un senso a tre decadi d’amore incondizionato verso un artista non adeguatamente considerato, perlomeno non quanto i suoi colleghi Cobain, Cornell e Vedder; dal punto di vista professionale, è stata la volontà di misurarmi con la scrittura sulla lunga distanza dopo dieci anni come giornalista per il quotidiano La Sicilia e IlSussidiario.net, fra le tante collaborazioni, e qualche centinaio di articoli e interviste in diversi ambiti. Senza contare la gavetta iniziata in radio da giovanissimo e proseguita sulle fanzine, i fogli studenteschi, i primi siti web universitari e tutto il resto, che alla fine mi ha portato a occuparmi di musica e letteratura da oltre vent’anni.
Quali sono state e come si sono svolte le varie fasi della lavorazione?
Avevo in mente un progetto ambizioso e c’è voluto molto tempo. Alla fine, non è detto che ci sia riuscito. In primis, non intendevo scrivere la tipica biografia rock e non è un giudizio di merito, poiché ne sono un accanito lettore ma non sarebbe nelle mie corde. Desideravo un libro corale, che abbracciasse il più possibile un’epoca: da lì il sottotitolo I Giorni di Layne Staley e gli Alice In Chains. Per farlo, dovevo aspirare a imprimergli un rigore da saggio socioculturale, giacché siffatte tematiche sono indissolubilmente legate ai movimenti musicali; per stemperarne la pesantezza, però, ho voluto intrecciarlo ai miei ricordi di gioventù, quando assistevo all’esplosione del Seattle Sound: anche per restituirne l’innocenza dello sguardo e favorire l’immedesimazione del lettore, che l’avesse vissuta o meno. Non mi vergogno dei sentimenti e non ho temuto di manifestarli, di certo non sono qui per impedire al prossimo di essere cinico o arido. Nel metodo, non soltanto per deontologia ma essendo disgustato dal gossip, ho escluso le supposizioni e incluso solo le informazioni. Quando le fonti differivano o i miei intervistati si smentivano a vicenda, ho tenuto fuori dal volume queste conclusioni; oppure, nel caso di testimonianze comunque attendibili, le ho inserite tutte lasciando che fosse il lettore a farsi un’idea fra quelle in contrasto. Come accennato, avevo talmente tanto materiale accumulato che la prima fase, quella della selezione tra le fonti, ha richiesto mesi. Non sto parlando solo di riviste, libri, siti web, VHS, DVD e registrazioni varie, ma anche d’itinerari dei tour, report delle date, equipaggiamenti usati, sedute di registrazione, aneddoti legati alle liriche, carteggi con manager, discografici, collaboratori… La gran parte era in inglese, quindi anche questo ha inciso, oltre al fatto che ho voluto privilegiare il più possibile quanto inedito in Italia. Costruita questa solida “impalcatura”, sono volato negli States. Lì, forte di una rete di contatti e amicizie consolidata in passato, ho potuto ripercorrere i passi più significativi delle vicende raccontate, visitandone i luoghi e incontrando persone vicine a Layne che potessero fornirmi memorie esclusive, oppure contattandole per poi risentirci con calma e dovizia di particolari al mio rientro in Italia. Cito soltanto Tim Branom, Johnny Bacolas e Gary Lee Conner fra le più importanti; senza considerare certe figure cosiddette “minori”, che invece sono state determinanti: roadie, tecnici del suono, assistenti di studio, gestori di locali, bodyguard, autisti, accompagnatori e semplici frequentatori della scena al suo nascere. Avendo nel tempo aperto i concerti dei protagonisti del rock italiano o avendoli intervistati, ne ho coinvolto un paio per aggiungere punti di vista peculiari, che mostrassero le ricadute della “rivoluzione” grunge qui da noi: Alex Marcheschi dei Ritmo Tribale e Karim Qqru dei The Zen Circus hanno arricchito In Catene e non solo dal punto di vista musicale. Alex, ad esempio, è uno psicologo e ha fatto la differenza nel sondare senza qualunquismi le tragedie personali di Staley. Qqru incarna uno di quegli ex adolescenti che si avvicinarono al rock nei ’90 grazie ai Nirvana, facendone una carriera. Nei miei trascorsi da musicista ho diviso palchi e studi con artisti affermati, quindi avevo il background per analizzare strumenti, tecniche, canzoni, registrazioni e tournée degli Alice In Chains. Per concludere, ho parlato con professionisti del settore medico e legale conosciuti quando scrivevo per i quotidiani, così da avere la loro consulenza. Frattanto, però, io stavo lavorando per una grossa azienda a Firenze e tutto ciò sono riuscito a farlo nel poco tempo libero. E dal 2016, di conseguenza, mi sono ritrovato nel 2018, quando ho potuto concedermi un anno sabbatico da dedicare alla scrittura. Dopo otto mesi mi sono ritrovato con un manoscritto di oltre 400 pagine, ridotte a 350 dal sapiente editing di Federico Traversa, che per altri quattro mesi mi ha supportato, consigliato, criticato, sviluppando con me un rapporto così stretto da trasformarsi, inevitabilmente, in amicizia. Alla fine, purtroppo, i tempi si erano ristretti così tanto che, per strategie aziendali, In Catene è stato pubblicato senza il tipo di revisione auspicata. Nella nuova edizione, curata con Francesca D’Ancona di Officina di Hank, ci auguriamo di aver risolto il problema, e adesso il libro vanta pure un’abbondante serie di foto con relative didascalie.
Quale impatto ha avuto questa musica sulla tua vita?
Profondo, direi, e a più livelli. Come ascoltatore, ti ho già risposto. Dato che ai tempi vivevo in un paesino per alcuni versi simile alla Aberdeen di Cobain, questa musica fu di conforto perché mi fece intuire che non ero solo e che, soprattutto, non ero il solo a “sentire” la vita in un certo modo. L’hard rock e il metal più mainstream che riuscivano ad arrivare fin laggiù erano andati bene, e comunque non li ho mai rinnegati, finché non giunse quell’età - per me coincisa con l’avvento del grunge - in cui inizi a porti delle domande sulla realtà che ti circonda. Ecco, a quel punto la Scena di Seattle è stata decisiva, perché non cantava di mitologie, soldi facili e donne lussuriose, ma di qualcosa di più intimo in cui mi venne spontaneo immedesimarmi. Come aspirante musicista, mi permise di capire che la tecnica, ovviamente rilevante, è fine a se stessa quando non è al servizio dell’urgenza espressiva; né, soprattutto, che la lacca e il trucco fossero più importanti di una buona canzone! In particolare, che la musica non dovesse frapporre un abisso fra l’interprete e l’ascoltatore ma, anzi, avvicinarli il più possibile. Il grunge, e il rock alternativo in genere, furono proprio i “normalizzatori” di un panorama rock che era sfuggito di mano a certi protagonisti, più simili a caricature di rockstar che ad artisti reali. Forse ciò che fece davvero la differenza, per me e per molti altri, fu il ritrovarsi testimoni inconsapevoli dell’Ultima Età dell’Oro del Rock: una pletora di dischi e gruppi irripetibili, non soltanto riconducibili al grunge. Siamo stati fortunati ad averla vissuta.
La figura di Layne Staley rappresenta una delle più celebri icone maledette (per così dire) del rock anni Novanta. Nel tuo lavoro di approfondimento, hai riscontrato delle particolari sfaccettature nella personalità dell’uomo e dell’artista, meno note nell’immaginario collettivo, e che quindi hai cercato di far risaltare maggiormente nelle pagine del libro? E, più in generale, quali sono gli aspetti (musicali e non) della storia che hai raccontato sui quali hai voluto porre di più l’accento?
Grazie per la domanda. Ecco, appunto: il mio primo obiettivo è stato proprio quello di svestire Layne Staley dall’epitome di rockstar tossica per eccellenza degli anni ’90, conseguenza non solo delle sue scelte e dell’estrema sincerità dei suoi testi e dichiarazioni, ma soprattutto della gigantesca macchina mediatica che ha fagocitato Seattle. Sono convinto che l’arte serva a superare i limiti della condizione umana, quindi le vicissitudini legate a questa possono fornirle spunti ma non segnarla con l’onta della vergogna. Quanti poeti, scrittori, attori, pittori e musicisti, fin dall’Antica Grecia a oggi, hanno condotto vite dissolute compiendo scelte deplorevoli? Eppure, nessuno si sognerebbe mai di metterne in discussione il lascito artistico, e infatti figurano nelle antologie, nei musei e nelle teche di tutto il mondo. Ecco, desideravo smarcare la musica di Layne Staley dall’ombra delle sue umane debolezze, come lui stesso aveva auspicato in una delle ultime interviste. Spero di essermi avvicinato allo scopo. D’altronde, se a Seattle gli Alice In Chains sono considerati la band per eccellenza ci sarà un motivo. Contemporaneamente, c’era un lato del suo carattere - quello più sensibile - sfuggito alle cronache del tempo: l’innata generosità, l’altruismo disinteressato, la mancanza di spirito polemico o sferzante nei confronti di chi lo circondava. Una rarità, in una rockstar. Non ho trovato una sola persona che abbia riferito giudizi negativi da parte di Layne verso il prossimo, mentre ne ho scoperte diverse che avevano ricevuto il suo aiuto disinteressato senz’averglielo neppure chiesto. Per questo è stato e rimane tanto amato. Certo, anche lui aveva i suoi momenti ma preferiva lasciar correre. Quest’indole docile, unita a un’infanzia difficile e a un successo globale improvviso quanto inatteso, hanno spalancato le porte a una vulnerabilità di fondo che era figlia di una depressione latente: causa e non conseguenza del suo abbandono alle droghe. Il senso di colpa scatenato dall’essersi trasformato in esempio negativo, e l’impotenza nel veder soccombere ai suoi stessi problemi l’amore della sua vita, lo hanno talmente allontanato dagli affetti e dalla realtà da lasciarsi morire. Del resto, pure un genio assoluto come John Lennon aveva fermamente rifiutato il pericoloso ruolo di portavoce generazionale, che l’opinione pubblica voleva tanto affibbiargli. La qualità consolatoria e l’irripetibile intensità della voce di Staley, delle sue canzoni e dei suoi testi, risiedono proprio in quel calore e in quel conforto che riescono a trasmettere e che lui, in vita, aveva cercato disperatamente e non era riuscito a trovare. Le sue parole sono degli ammonimenti contro lo droga e non una celebrazione di quello stile di vita, seppur espressi con ossimori oscuri velati di licenza poetica, ma era un cantante e non un educatore professionale. L’ampia parte del volume dedicata ai Mad Season dice molto in questo senso. A tale proposito vorrei essere chiaro: ci sono persone che hanno vissuto un’infanzia o vicende umanamente devastanti, al pari e più di Staley o Cobain e senz’averne avuto il talento e le risorse, eppure le hanno superate realizzandosi. Il nichilismo non va mitizzato ma compreso. Il dolore non si può quantificare né è direttamente proporzionale alle tragedie che si possono subire. È la natura di ciascuno che, per una serie di motivi che lascio ai terapeuti, risponde agli eventi nefasti reagendo o arrendendosi.
Almeno in Italia, la fan base degli Alice In Chains è costituita per lo più da appassionati che li seguono dalla prima ora e che quindi hanno una certa età. Per quanto riguarda i feedback ricevuti dopo la pubblicazione di In Catene, hai riscontrato un’analoga predilezione da parte di un pubblico “adulto”, o vi è anche una voglia di (ri)scoprire certe sonorità da parte di ascoltatori più giovani?
Hai ragione e i riscontri più sentiti, emozionati ed emozionanti, li ho ricevuti dai miei coetanei, se non addirittura da gente che all’epoca era già trentenne. Questo, però, potevo anche immaginarmelo, rientrando anch’io nella categoria da te descritta. Ciò che mi ha davvero colpito, e che in retrospettiva ha dato un senso definitivo al mio lavoro, è stata l’accoglienza ricevuta proprio dai chi in quegli anni non era ancora nato o quasi, e che oggi rappresenta quel giovane fan del rock che dalle biografie cerca di cogliere il più possibile di quanto si è perso; com’ero anch’io da giovane, quando “divoravo” i libri sugli artisti dei ’60/’70 con cui sono stato introdotto al rock. È il motivo per cui In Catene è pieno di note a margine: non si può dare per scontato che chi si avvicini oggi a questi argomenti, al di là dell’età, possa conoscerne tutti i riferimenti. Per di più, vivendo nell’era del metatesto virtuale, dove sul web possiamo leggere certi passaggi che, con un link, ci rimandano a qualcos’altro per approfondirlo, io l’ho riproposto su carta. Chi quelle cose le sa già, può ignorare le note e proseguire nella lettura; altrimenti, trova in basso i dettagli su quanto ha appena scoperto. L’aver stretto un rapporto con chi mi segue - senza negarmi a quanti mi scrivono in modo educato, a prescindere dai giudizi - mi ha dato tanto e di questo sono grato. Del resto, non sarei qui a parlare con te se non fosse per la passione dei miei lettori, di cui vado molto fiero.
La pattuglia di musicisti dell’area di Seattle, partita dalla periferia dell’impero alla conquista del mondo, ha lasciato sul campo non poche vittime, e una delle più illustri è appunto Layne Staley. Restando nella metafora bellica, si è trattato di un tributo di sangue più o meno obbligato sull’altare del successo, oppure vi era effettivamente un disagio più profondo che affliggeva questi personaggi e che tendeva a trascinarli a fondo, anche quando in apparenza non avrebbero avuto motivi per essere risucchiati dalla disperazione?
In Catene è attraversato da considerazioni simili, che contengono risvolti complessi e sfaccettati, e al libro rimando per approfondirli. Diciamo che non è il successo a condannarti, se hai già un’anima tormentata; di certo incide nella misura in cui ti consente di esaudire ogni desiderio, anche i peggiori. Semplificando: c’è differenza fra l’uso creativo e sperimentale delle droghe negli anni ’60/’70 e quello legato all’edonismo sfrenato e allo status symbol da rockstar estremizzato negli anni ’80; e, ancor di più, fra quest’ultimo e l’uso di stupefacenti come automedicazione nei ’90, per tenere a bada demoni interiori figli di traumi mai risolti prima di diventare famosi. Sia Gary Lee Conner degli Screaming Trees sia Kevin Wood dei Malfunkshun, che per questo perse il fratello Andrew dei Mother Love Bone, sono stati risoluti nello spiegarmi che a Seattle non c’era nulla da festeggiare con l’eroina: chi vi si rifugiava scappava, appunto, da qualcosa che lo attanagliava nel profondo. Praticamente come la gran parte delle persone comuni che precipitano nel vizio, quindi si è trattato di vicende che avevano a che vedere con la condizione umana, piuttosto che con i baccanali circensi da rockstar consumata.
Quasi paradossalmente, la morte di Layne Staley ha dato la stura alla ripresa delle attività degli Alice In Chains. Come vedi la “seconda vita” della band, sbocciata a metà anni Duemila e che tuttora prosegue tra dischi e tour?
Necessaria. Non potevano “morire” col loro prezioso amico, seppur insostituibile. Se l’avessero fatto, le canzoni di Layne non sarebbero più state suonate sui palchi di tutto il mondo da chi le ha condivise con lui; né sarebbero state cantate in coro dalle migliaia di fan che non avevano ancora avuto occasione di vedere gli Alice In Chains dal vivo. È la sua eredità e i dischi non bastano. Parliamo di rock, non di musica da camera. È anche il modo migliore per celebrarlo. Inoltre, non dimentichiamo che Cantrell ne ha tutto il diritto, al di là del risvolto economico: lui era ed è il principale autore del gruppo, sia dei testi sia delle musiche. Quando c’era Layne, si spartivano più o meno le liriche ma le musiche a firma Staley, onestamente, si contano sulle dita di una mano. Bisognerebbe saperlo, prima di sparare a zero in maniera volgare su scelte di cui non si conoscono i retroscena, come fanno i “conigli da tastiera”. Premesso che ognuno è libero d’esprimere la propria opinione e di criticare civilmente, argomentando e proponendo un’alternativa o anteponendo un bel secondo me, prima di stigmatizzare qualcosa. Ma non basta amare la musica per entrare grossolanamente in scenari che s’ignorano. E questo vale per qualsiasi lavoro, giacché a causa dei social si vive nell’era dei tuttologi, parafrasando Umberto Eco. Anch’io la penso così. Puoi comprare un disco, un libro o andare a un concerto, e per questi paghi; se ti sono piaciuti, ok. Altrimenti, puoi restituirli o non andare più a vedere un gruppo dicendo che a te non è piaciuto; non improvvisarti giudice supremo di cose su cui non hai competenze, soltanto perché le segui e ti entusiasmano ma ignorando le idee, la preparazione, le esperienze, i sacrifici e gli obiettivi dietro a una professione, che solo chi la svolge conosce a fondo. Io posso amare i numeri, ad esempio, ma non mi permetto d’insegnare agli ingegneri a costruire i ponti! Riguardo ai tre album con DuVall e ai tour con lui, hanno realizzato dischi imponenti e dal vivo suonano meglio che mai. Evitiamo paragoni con la formazione originale, però.
L’eredità lasciata da Layne Staley e dagli Alice In Chains è senz’altro ponderosa. C’è qualche artista di generazioni successive che a tuo parere l’ha raccolta, o quantomeno vi si è avvicinato, a livello di musica, spirito e attitudine? E un frontman e cantante come Staley: chi potrebbe essere un suo “figlioccio”?
Domanda difficile, qualsiasi risposta non può che esulare dall’oggettività e rientrare nel soggettivo. Quindi, secondo me, nessuno ha raccolto la sua eredità né può dirsene “figlioccio”. Forse gli si è avvicinato, per spirito e attitudine, l’altrettanto compianto Chester Bennington, soprattutto per la capacità consolatoria della voce e dei testi e la profonda umanità riversata nel fare musica, che l’hanno connesso intimamente ai fan. Stilisticamente, Staley ha fatto scuola ma con l’effetto collaterale di generare un nugolo d’epigoni imbarazzanti. L’unico che si salva, a parer mio, è Sully Erna dei Godsmack. Se si vuole rintracciare un minimo del calore di Layne, allora Vinnie Dombroski dei sottovalutati Sponge, che lo conosceva, è un ascolto consigliato. Più in generale, con riferimento all’intensità quasi insostenibile delle migliori performance di Alice In Chains e Mad Season, mi vengono in mente due album che a me fanno quell’effetto da “viscere sul tavolo”, seppur lontanissimi stilisticamente: Good Morning Spider degli Sparklehorse e One Last Laugh in a Place of Dying dei The God Machine. Due gemme oscure.
In Catene è di fatto la tua opera prima. Hai già in cantiere nuovi progetti? O magari qualche “sogno nel cassetto” al quale vorresti dar vita in forma editoriale?
È appena uscito Ozzy - La Storia di Ken Paisli, di cui ho curato l’editing per Chinaski Edizioni, che adesso è una collana musicale pubblicata da Il Castello Editore. Per loro sto traducendo Dust N’ Bones, la biografia di Izzy Stradlin dei Guns N’ Roses a opera dello statunitense Jake Brown, prevista in primavera. Ho in cantiere nuovi libri ma non dipende soltanto da me realizzarli, ora so sulla mia pelle lo sforzo che richiedono; se lo farò, sarà con chi ha contezza di ciò che scrivo e lo considera prioritario, come già per In Catene. Ho smesso di credere ai sogni ma ho le mie aspirazioni. Per questo sono stato lungimirante durante i miei soggiorni all’estero, recuperando e mettendo da parte quanto più materiale potesse servirmi in futuro per scrivere anche di altri soggetti, al di là di Layne Staley. È disponibile per Officina di Hank la nuova edizione di In Catene, che non ha mai goduto di presentazioni pubbliche: in passato, per vicissitudini editoriali; oggi, a causa del Covid-19. Avevo già pronti appuntamenti letterari col reading del libro intercalato alle cover di Chains e Mad Season, grazie alla tribute band degli Angry Alice. E avrei dovuto parlare del mio volume con la collega Valeria Sgarella al decennale del Layne Staley Italian Tribute a Milano, in compagnia di amici quali Omar Pedrini, Pino Foderaro e Davide Maghini. Spero di recuperare gli eventi ma dovremo essere al sicuro. Non ha senso preoccuparsi oltre di queste cose, per quanto siano il mio lavoro, mentre la pandemia non demorde. Senza salute non si fa nulla. È banale ma spesso le cose banali sono le più essenziali.
Dov’è possibile acquistare In Catene e come possiamo interagire con te?
Si trova nelle librerie e nelle catene di home entertainment, oltre che negli store online. Io ho un profilo Facebook e un piccolo canale YouTube ancora in costruzione. Ringrazio i miei lettori e chi segue il mio lavoro, te per l’intensa chiacchierata e quanti vorranno leggerla.
Nessun commento:
Posta un commento