lunedì 20 ottobre 2025

LeLe BATTISTA - ISCREAM - RECENSIONE E INTERVISTA A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


Con “Iscream”, il suo nuovo album uscito lo scorso 26 settembre, LeLe Battista si è trovato faccia a faccia con sé stesso. Autorecluso in una stanza da solo con il suo pianoforte, il cantautore milanese si è imposto una disciplina ferrea che lo ha portato a comporre di getto, nel giro di meno di venti giorni, l’ossatura di tutti gli otto brani dell’album. Quelle che sembravano però dover restare semplici tracce per piano e voce hanno rivelato una loro ritmica naturale interna e, con un lavoro di produzione volutamente scarno, hanno trovato quella forma compiuta che è “Iscream”. L’equilibrio perfetto tra la scorrevolezza di un pop venato di sonorità anni 80 e riflessioni profonde sulla vita contemporanea ne fanno un lavoro che richiede ascolti ripetuti per essere apprezzato fino in fondo. Il tema centrale è il nostro essere imprigionati in una realtà ingannevole in cui l’espressione verbale ci tradisce portando a una distorsione del vivere quotidiano. Tra le tracce che più colpiscono ad un primo ascolto spicca “Il grido”, che apre il lavoro, in cui il grido può sfociare in pianto o in canto a seconda della prospettiva che gli diamo. In “Entra pure” LeLe Battista affronta invece la difficoltà estrema che proviamo nel tentare di leggere una realtà in cui il senso delle cose sfugge ormai del tutto. Altro brano cardine è il singolo “Frammenti”, in cui è particolarmente evidente il richiamo al pop anni 80 con il basso in bella evidenza e che vede la partecipazione di Andy dei Bluvertigo ad impreziosire la composizione con il suo sax e l’inconfondibile impronta vocale. L’ispirazione del pezzo nasce dalla lettura del saggio di Roland Barthes intitolato “Frammenti di un discorso amoroso” che analizza il linguaggio dell’amore. Un pezzo che merita senz’altro una menzione è poi “Ovunque sia”, che si apre con la voce che si fa strumento e svela una canzone musicalmente scintillante sull’incapacità di riuscire ad essere sé stessi. La conclusiva “Splendidi perdenti”, musicalmente sospesa in un’atmosfera rarefatta, prende atto della visione distorta che abbiamo della vita di tutti i giorni, visione che ci porta persino a trovare giustificazioni anche per ciò che è ingiustificabile.
LeLe Battista si è prestato ad approfondire le tematiche e lo spirito dell’album in una piacevole e interessante chiacchierata.



- Cominciamo per rompere il ghiaccio con una domanda un po’ scherzosa. Il titolo dell’album “Iscream”, gioca sulla pronuncia di “I scream”, io urlo e gelato “Icecream”, infatti anche sulla copertina del disco c’è un gelato. Questo gioco di parole mi ha fatto venire in mente quella gag del film di Jarmusch “Daunbailò” con Benigni che dice “I scream, you scream, we all scream for an icecream”. Quando hai scelto il titolo ti è venuta in mente o non c’è nessuna parentela con la tua scelta?
- Non c’è una parentela con quello, ma c’è una parentela con un libro di Freud che ho letto e che, se non ricordo male, è “Psicopatologia della vita quotidiana”. Freud descrive una sua paziente che esprimeva il suo disagio interiore chiedendo il gelato, mentre lo psicanalista capiva che la signora stesse dicendo “io grido”. Credo che Jarmush abbia preso spunto anche lui dalla stessa fonte. Quindi nel mio caso è l’esempio di una sorta di “tilt linguistico”, di un tranello linguistico che per me è lo specchio della realtà in cui viviamo, che è fatta di giochi di parole e anche inganni di parole. E’ il tema che domina tutto il disco, un album più scarno rispetto ai precedenti in cui ho cercato di raccontare la storia di quest’uomo, che in realtà sono io, che genera dentro di sé delle nevrosi con le proprie parole e perché è bombardato dalle parole altrui. 
- Dal punto di vista musicale l’album è decisamente elettropop, anche i precedenti erano pop, ma c’è un’evoluzione nelle sonorità, in particolare nelle armonizzazioni vocali che sono molto più complesse. Quando l’hai composto avevi un’idea precisa dell’obiettivo da dargli o diciamo che l’album ha preso la sua direzione man mano che si andava completando?
- Avevo una direzione precisa per quanto riguarda la scrittura. Ho riflettuto sul fatto che le canzoni più belle che ho scritto sono state composte in poco tempo, con musica e parole che nascevano nello stesso momento. Quindi ho pensato di ricreare una situazione simile. Le ho scritte in un breve periodo di tempo, circa 18 giorni, chiudendomi in una stanza con il solo pianoforte e alcuni appunti vocali. Si tratta quindi di un disco che è nato piano e voce. Non partendo da un testo già scritto ho badato più alla musicalità delle parole che non al loro senso e cercavo di individuarlo mentre costruivo la frase melodica, quindi praticamente nello stesso momento. Per completare i brani mi sono dato dei tempi molto precisi, per dire “entro oggi pomeriggio il pezzo deve essere finito”, perché mi è successo troppe volte di scrivere una strofa bellissima o anche un ritornello che mi piaceva molto e poi fermarmi pensando di riprendere la scrittura in un secondo momento senza però più riuscire a catturare quel mood che era alla base della canzone. Quindi, ripeto, questi brani erano piano e voce finché non ho ascoltato “The Slow Rush” di Tame Impala ed ho avuto l’impressione che quei pezzi fossero i miei arrangiati. A quel punto ho capito che quella era la direzione. Di “The Slow Rush” mi piaceva tutto, il trattamento delle batterie, quello delle voci e ritrovavo in ogni brano una parentela con uno mio. Mi sono accorto che la mia scrittura era diversa dal solito e che essendo testi composti di poche parole, benché fossero brani piano e voce, sia la voce che il piano erano piuttosto ritmici. Quindi è stato naturale imboccare quella direzione svelando il ritmo, armonizzando le voci trattandole come uno strumento e allontanandomi da quella centralità della voce che è tipica dei cantautori facendo sì che fosse invece essa stessa a perdersi nella musica. 
- In “Entra pure” scrivi “dobbiamo ricordarci di essere felici”. Noi oggi viviamo un’esistenza spesso di finta euforia e iperconnessione. In realtà secondo te siamo tutti un po’ depressi davanti ai nostri schermi?
- Direi, più che depressi, inconsapevoli. I mass media ci hanno formato e ciò vale ancora di più per le nuove generazioni. Io sono stato formato dalla televisione, i ragazzi da internet, dai social e siamo totalmente imprigionati in quel sistema. Facciamo sempre più fatica a comunicare, manca la mindfulness. Ho visto un comico che mi ha fatto molto ridere e riflettere perché diceva “la mindfulness va spiegata ai ventenni, perché noi cinquantenni la conosciamo”. La mindfulness era, ad esempio, aspettare l’autobus alla fermata nel 1995 quando potevi solo guardare l’orizzonte e seguire il filo dei tuoi pensieri. Ora devo stare attento a tenere sotto controllo l’impulso allo scrolling e porre un limite su Instagram. A causa del bombardamento di notizie mischiate alle opinioni, nonché dalle opinioni di influencer, generali, politici, si è creato un sistema linguistico che genera confusione, smarrimento, la perdita di un centro. E’ un sistema che di fatto ti costringe ad avere un’opinione ben determinata, precisa, quasi una fede calcistica, anche nel caso in cui non sarebbe necessario averla. Questo sistema porta inevitabilmente all’inconsapevolezza delle persone. Per semplificare è un sistema sempre più simile al Grande Fratello di Orwell. E’ per questo che mi interessa parlare di linguaggio anche nel disco perché la vedo soprattutto nel linguaggio questa vicinanza al Grande Fratello. Alcuni magari lo vivono più in relazione al fatto che con i social viviamo tutti osservati da telecamere, io lo vivo di più in relazione a questa problematica del linguaggio, il sistema mediatico ormai ci ha formato con il suo linguaggio che, analizzandolo, trovo spesso distorto con piani logici che si mischiano in modo casuale con una naturalezza sconvolgente.
- Parliamo di “Frammenti”, il primo singolo che hai fatto in collaborazione con Andy dei Bluvertigo. Ci sono questi versi che recitano “ripetiamo insieme ti amo, il ti amo che vuole l’anch’io”. Questo pezzo è una sorta di rieducazione sentimentale?
- In realtà quella frase si lega a quella dopo, “fino a non capire più di cosa parliamo”. E’ quella sensazione che si prova ogni tanto quando ripetendo una parola all’infinito perde di significato nella tua testa. La canzone è legata alla lettura di un saggio di Roland Barthes in cui si analizza il linguaggio dell’amore e mi ha colpito il fatto che quella frase “io ti amo”, che tenta di esprimere quello che abbiamo dentro e descrive una realtà totalmente interiore diventa realtà viva nel momento in cui è corrisposta. Questo è lo spunto da cui è partita la canzone.
- La collaborazione con Andy come si è sviluppata? Avete scritto il pezzo insieme o Andy si è limitato ad interpretare ciò che hai scritto tu? 
- Avevo scritto il pezzo, lo ho arrangiato sempre pensando a Tame Impala, ma in quel caso anche a un famoso brano degli Alan Parsons Project, “Eye in the sky”. Da subito quindi il brano mi ha richiamato un po’ le atmosfere pop anni 80 ed ho capito come il sassofono abbia avuto un ruolo nella mia formazione. Dai 10 ai 15 anni, l’età in cui la mente è più aperta è anche l’epoca dei primi grandi amori musicali e, quando avevo quell’età, c’erano molti brani con il sassofono che sono rimasti impressi nella mia memoria, brani in cui era uno strumento con un ruolo importante. Tornare a quel tipo di sonorità per me era una cosa necessaria per quel pezzo e quindi ho pensato di chiamare il miglior sassofonista che conosco, perché lo conosco da trent’anni, lo stimo da sempre, abbiamo suonato insieme varie volte in passato e ultimamente in alcune occasioni mi sono accorto che il suo gusto, il suo suono di sax è molto migliorato con il passare del tempo. Era già bello, ma ha sviluppato uno stile, un gusto di cui mi fido molto e quindi l’ho chiamato. Ero anche abbastanza impacciato perché erano sei mesi che volevo fare quella telefonata, sapevo che l’avrei fatta, ma era confinata nella to do list diciamo. Alla fine è stato molto gentile, molto carino ed ha fatto la battuta “facciamola fittata” gioco di parole tra frittata e featuring. Sono andato a casa sua, nel suo laboratorio dove abbiamo registrato prima il sax e poi il cosiddetto “disegnino alla Andy”, cioè una sorta di suo marchio di fabbrica vocale, che ricorreva spesso anche nei Bluvertigo, per cui riesce a creare un’armonizzazione molto personale, molto obliqua sotto la voce principale. 
- Nel brano “La mia felicità” canti “la vita è troppo bella per non essere vera”. Qual è la tua idea di felicità?
- La felicità per come la vedo in questo momento nella mia vita è cercare di essere un po’ più consapevole. Forse mi sono reso conto compiendo 50 anni che ho acquisito un’idea più precisa, centrata, di quello che sono, di come posso correggermi, come posso migliorarmi, come posso essere meno travolto dalle passioni, dall’ira, dalla nevrosi, come posso stare lontano da quei meccanismi che spesso durante la vita ho generato nella mia mente oppure ho lasciato che fosse il mondo esterno a generare in me. 
- Ci sono dei versi che mi hanno colpito anche in “Tanto è solo oggi” cioè “io credo troppo nel domani”. E’ vero siamo sempre proiettati verso un eterno futuro, la dimensione che per noi sembra più importante è il futuro. Pensi che cosi facendo ci perdiamo l’unico tempo che conta oggi, cioè il presente?
- Sì il procrastinare l’idea di una possibile felicità è spesso deviante, quindi sì è quello che dice in sostanza la canzone. Il concetto che voglio esprimere è che spesso mi sono perso rimandando le cose.
- Ho notato dei segni di vitalità dei La Sintesi perché nel 2024 sono usciti due inediti. C’è voglia di riportarli in pista, magari accanto alla tua carriera solista?
- Si è trattato in parte di chiudere un cerchio che non si era chiuso. Ci siamo separati nel 2002 in una fase in cui eravamo reduci da un Sanremo andato male, da conflitti sia interni che generati da queste grandi cose che ci erano successe. E’innegabile che certe esperienze abbiano avuto un impatto sia positivo che negativo sulla band, però era sopravvissuta l’amicizia. Ci siamo ritrovati un paio di anni fa in occasione di una ristampa fatta da Saifam dei nostri album che non erano mai usciti in vinile per autografare le copie e io, che ci pensavo da un po’ di tempo, ho proposto “ragazzi ho un brano da farvi sentire da cui potremmo ricominciare” e da lì è nata questa reunion e questa partnership con Saifam che è l’etichetta che ha prodotto sia quel singolo che poi il mio album. Per La sintesi si trattava di una stampa su 45 giri e quindi Saifam ci ha chiesto due brani, uno per il lato A e uno per il lato B. Poi ognuno si è reimmerso nella propria vita però tutti sentiamo che quell’occasione ha riaperto un canale, perché è stato sicuramente bello a livello umano, ma siamo anche riusciti a trovare un suono nuovo anche grazie all’aiuto di Davide Ferrario che è stato il produttore dei due pezzi e che ha avuto un ruolo importantissimo nella definizione del sound. Siamo riusciti a non fare una cosa vintage riproponendo una formula di 20 anni fa, ma trovando una chiave diversa che ci ha entusiasmato. Poi abbiamo fatto diverse ipotesi tra cui quella di continuare a pubblicare 45 giri. Però dato che ognuno ha i propri impegni, ad esempio Giorgio Mastrocola suona con Max Pezzali, Giuseppe Sabella fa lo scrittore e il giornalista non è facile incastrare gli impegni di tutti. E’ stato magico riuscirci in quella maniera, curando tutto bene. E’ stato un bel modo di ritrovarsi. 
- Hai partecipato come produttore musicale a X Factor. Vari musicisti, ad esempio ricordo un’intervista a Manuel Agnelli al riguardo, lo ritengono l’unico Talent capace di portare in primo piano la musica. Confermi?
- Non è in primo piano la musica, io lavorandoci ho constatato la distanza tra quello che sembra un contenitore di musica, ma che alla fine si rivela prima di tutto uno spettacolo televisivo sopra ogni altra cosa. Io ho avuto un approccio musicale così come Morgan ma poi in realtà contano di più le scenografie, quindi la musica non è il vero e proprio centro essendo un programma televisivo. Resta vero il fatto che oggi abbiamo solo più Sanremo e X Factor.
- Un’ultima domanda. Se dovessi descrivere la tua musica attuale come se fosse un quadro come la dipingeresti?
- Sicuramente sceglierei un quadro espressionista perché è musica fatta a pennellate, più istintiva che in passato, il tratto è meno definito e anche meno barocco, il disegno è meno preciso, un po’ sfocato. Un quadro come quelli di cui si commenta “sembra fatto da un bambino”. In realtà è come se l’adulto avesse voluto reimparare a fare il bambino dopo aver imparato a dipingere bene. 



Effettivamente i brani che compongono “Iscream” sono suggestioni sonore che, con i tratti essenziali di un dipinto espressionista, riescono a stabilire una connessione empatica profonda con l’ascoltatore toccando le corde dei sentimenti. Non sempre occorre essere a fuoco per risultare chiaramente visibili.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra




 

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