Unica data italiana alla Unipol Arena per i Queens of the Stone Age e il loro "Villains Tour" che in questi giorni ha la sua appendice europea prima di tornare in America. Introduzione doverosa per la location che, nonostante il sold out, ha dimostrato un'organizzazione impeccabile sia per quanto riguarda la gestione dell'ordine pubblico sia per tutto ciò che ruota attorno a un evento del genere (informazioni del personale, accessibilità alla struttura...). Davvero una bella macchina organizzativa e non me ne vogliano i fans di Bruno Mars che qualche mese fa hanno riempito Tripadvisor di critiche per quello che veniva descritto più come un girone dantesco che come un'arena da eventi nella zona commerciale di Bologna. Ma di certi bamboccioni e dei loro capricci ci siamo già occupati sulle pagine di questo blog. Un concerto però vive soprattutto di suoni, e in questo la Unipol Arena, come la maggior parte dei palazzetti e "Forum" italiani, mostra le proprie debolezze. Praticamente impossibile dalle tribune distinguere i suoni durante l'opening act dei volenterosi Broncho, un po' meglio le cose con i Queens of The Stone Age, complice il fatto di conoscere i brani e l'utilizzo dell'impianto a pieno regime. Quasi due ore di concerto per la band capitanata da Josh Homme che ha aperto le danze con "If i had a tail", tratta da "...Like Clockwork", quindi "Monsters in the Parasol", terzo singolo da "Rated R", e "My god is the Sun".
Poi arrivano i primi brani da "Villains" ("Feet don't fail me" e il "ruffianetto" "The way you used to do") e il momento di liberare le danze in platea con la doppietta "Millionaire" e, accompagnata da un coro liberatorio, una versione lunghissima di "No one knows" con virtuosistico assolo di Jon Theodore (non propriamente l'ultimo arrivato) alla batteria. Inutile dire che i brani escono come perfetti muri del suono con il solo limite di "liberarsi" in uno spazio più adatto a Cesare Cremonini e Jovanotti che a "rock e i suoi fratelli", ma questo passa il convento. Tra un brano e l'altro, prove di comunicazione tra band e pubblico in cui si possono cogliere diversi "fuck", un paio di "motherfucker" e un invito a qualcuno delle prime file a mettere le "fingers in your ass", oltre a dichiarazioni d'amore tipiche di "Un americano a Roma" (in questo caso a Bologna) come l'intramontabile "I love you Italy". Seconda parte del concerto con, tra le altre, "I sat by the Ocean", una meravigliosa "Make it wit Chu", poco "supportata" dal pubblico, "Little sister". Chiusura, prima dei bis, con l'imprescindibile cavalcata "Go with the Flow". Inutile e forse banale dire che non ci sono sbavature e ognuno sul palco fa il proprio compito senza eccessi o inutili esibizionismi. A fine concerto un'amica musicista mi dirà che gruppi come questi sono sempre "una bella scuola". Impossibile restare impassibili di fronte al brano per eccellenza della band, che chiude l'esibizione: "A Song for the Dead". Sette minuti di delirio collettivo e, finalmente, pogo libero sotto il palco. Un concerto che cancella i dubbi legati alla consistenza dei brani di "Villains" e conferma, se ancora ce ne fosse il bisogno, la qualità e il muro del suono dei Queens of The Stone Age, nella speranza di poterli rivedere presto in una location che sappia accarezzare la loro musica e non prenderla a sberle.
Poi arrivano i primi brani da "Villains" ("Feet don't fail me" e il "ruffianetto" "The way you used to do") e il momento di liberare le danze in platea con la doppietta "Millionaire" e, accompagnata da un coro liberatorio, una versione lunghissima di "No one knows" con virtuosistico assolo di Jon Theodore (non propriamente l'ultimo arrivato) alla batteria. Inutile dire che i brani escono come perfetti muri del suono con il solo limite di "liberarsi" in uno spazio più adatto a Cesare Cremonini e Jovanotti che a "rock e i suoi fratelli", ma questo passa il convento. Tra un brano e l'altro, prove di comunicazione tra band e pubblico in cui si possono cogliere diversi "fuck", un paio di "motherfucker" e un invito a qualcuno delle prime file a mettere le "fingers in your ass", oltre a dichiarazioni d'amore tipiche di "Un americano a Roma" (in questo caso a Bologna) come l'intramontabile "I love you Italy". Seconda parte del concerto con, tra le altre, "I sat by the Ocean", una meravigliosa "Make it wit Chu", poco "supportata" dal pubblico, "Little sister". Chiusura, prima dei bis, con l'imprescindibile cavalcata "Go with the Flow". Inutile e forse banale dire che non ci sono sbavature e ognuno sul palco fa il proprio compito senza eccessi o inutili esibizionismi. A fine concerto un'amica musicista mi dirà che gruppi come questi sono sempre "una bella scuola". Impossibile restare impassibili di fronte al brano per eccellenza della band, che chiude l'esibizione: "A Song for the Dead". Sette minuti di delirio collettivo e, finalmente, pogo libero sotto il palco. Un concerto che cancella i dubbi legati alla consistenza dei brani di "Villains" e conferma, se ancora ce ne fosse il bisogno, la qualità e il muro del suono dei Queens of The Stone Age, nella speranza di poterli rivedere presto in una location che sappia accarezzare la loro musica e non prenderla a sberle.
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