Metà dell’uomo che ero
Ricordando Scott Weiland (1967–2015)
1993. L’inizio di
questa storia. Un cd preso a noleggio. Un minaccioso manifesto programmatico
gridato attraverso un megafono.
2015. La sera
del 3 dicembre (fuso orario USA), il grande circo del rock’n’roll perde uno dei
suoi funamboli più spericolati.
Scott Weiland,
oltre che un autentico campione dello stile di vita autodistruttivo del rock,
era un cantante eccezionale, un frontman enormemente carismatico, capace di
unire l’aggressività lasciva di Iggy all’innata classe di Bowie, e un paroliere
brillante e mai banale, i cui testi affrontano tanto le classiche tematiche
introspettive e di relazioni interpersonali, quanto lo scomodo ruolo di
marionetta manovrata dallo show business (“Sell your soul and sign an
autograph… I wanna die but I gotta laugh”), fino a giocare con le rime in
assurdi calembour (“I really love to fish but don’t like superficial people”)
che talvolta assurgono a dichiarati nonsense (“All’s I gots is time, got no
meaning, just a rhyme”); senza dimenticare la corrosiva parodia del machismo nella
celeberrima “Sex type thing” (“Anche a me piace scopare!”, affermava
candidamente all’epoca, quasi a discolparsi del messaggio pseudofemminista del
pezzo in questione).
Ho amato gli
Stone Temple Pilots sin da principio, e non ho mai smesso di ascoltarli. Li ho
visti scalare le classifiche di tutto il mondo, pur osteggiati dagli ottusi
puristi del grunge, che li accusavano di scopiazzare i big della scena (in realtà,
con viscido afflato leghista, non gli perdonavano di essere originari di San
Diego, oltre mille chilometri a sud di Seattle). Li ho visti poi risucchiati in
una spirale indotta principalmente dall’ingestibilità dello stesso Weiland. Il quale per un
ventennio ha tenuto banco nelle cronache musicali e non solo tra droga, concerti
annullati, droga, capricci, droga, carcere, droga, rapporti turbolenti con i
compagni di band, droga, rehab, droga, violenza domestica, droga, interviste
deliranti, droga… Insomma, ci siamo capiti.
Tutto quanto da
debita distanza, però. In poche parole, al momento dello split nel 2002, il mio
rapporto con gli STP si limitava all’ascolto dei dischi, ai videoclip e agli
articoli sulle riviste. Mai stato a un loro concerto. 2004. Il
contentino: nel cartellone dell’Independent Days Festival di Bologna, domenica
5 settembre figurano i Velvet Revolver, supergruppo con tre ex Guns N’ Roses,
il chitarrista–carneade Dave Kushner e un redivivo Weiland. Nella bolgia
delle prime file, mi viene il sospetto che io e l’editor dei miei romanzi, con
cui condivido la trasferta, siamo i soli fan degli STP nel raggio di cento
chilometri. Per fortuna siamo anche grandi fan dei Guns sicché non ci sentiamo
troppo discriminati. Per i primi due pezzi
non capisco nulla. La calca è insostenibile. Pian piano riprendo il controllo
della situazione.
Weiland è
magrissimo, conciato a metà tra Freddie Mercury e Rob Halford, con una mise
gay–fetish–nazi oriented. Canta più che degnamente, benché a causa degli abusi
di droga abbia da anni perduto quel ruggito che agli esordi lo poneva sullo
stesso piano di Vedder e Staley. Ma soprattutto la sua presenza sul palco
oscura persino musicisti leggendari come Slash e Duff. Il momento clou
arriva al penultimo brano in scaletta: incastrata tra un’acclamata “It’s so
easy”, con la partecipazione del fondatore dei GNR Izzy Stradlin, e il
singolone “Slither”, ecco una roboante cover di “Sex type thing”. La distanza si è
un po’ accorciata, ma non del tutto.
2010. Le
speranze si sono riaccese alla fine del decennio. Gli STP si sono riformati nel
2008. Nel 2010 pubblicano un nuovo album. Lunedì 28 giugno è prevista l’unica
data italiana, al Carroponte di Sesto San Giovanni, in seguito spostata
all’Alcatraz di Milano. La sera precedente rimpatrio da una breve vacanza in
Spagna, azzoppato da una lancinante tendinite all’alluce sinistro. L’indomani
sono miracolosamente in piedi e pronto all’evento di una vita. A trentuno anni,
così come a quindici e a venticinque, e ancora adesso che inizio ad avvicinarmi
ai quaranta, sono pressato sotto il palco. La distanza è quasi azzerata. Li ho
a pochi metri da me. Dean DeLeo, chitarrista dal gusto raffinato, è l’anima
melodica del gruppo. Il fratello Robert pare appena uscito dall’ibernazione:
identico, con le stesse movenze dei Novanta. Eric Kretz mi è sempre piaciuto un
sacco: batterista di notevole efficacia senza mai strafare. E poi c’è un
indescrivibile Weiland: canta, balla, suda copiosamente, si arrampica sugli
amplificatori, arringa la folla. Una delle Voci più rappresentative per la mia
generazione, il cantante, l’animale da palco, l’icona, l’eroe maledetto, le
canzoni immortali del suo gruppo. L’entusiasmo e l’eccitazione, trattenuti per
diciassette lunghi anni, mi bruciano il cuore. Il concerto
privilegia la qualità a discapito della quantità. Suonano meno di novanta
minuti, ma consegnano ai posteri una memorabile serata di rock’n’roll. Il crescendo
sulla seconda strofa di “Creep” vale da solo l’intero prezzo del biglietto.
Escono di scena sulle note di “Sex type thing”. Rientrano per il
bis. Una ragazza del pubblico viene chiamata sul palco per gridare dal megafono
il minaccioso manifesto programmatico di cui si diceva all’inizio. Cincischia
tragicamente, forse per l’emozione, forse per la scarsa dimestichezza con
l’inglese. Nel corso degli
anni, ho spesso ripetuto alla persona che era con me quella sera quanto eravamo
stati fortunati a vivere un’esperienza simile, che non ero affatto sicuro
potesse ricapitarci.
Se questa storia
avesse un lieto fine, potrebbe concludersi all’uscita del concerto milanese
degli STP, col rientro notturno a Firenze, l’adrenalina a palla e i ricordi
vividi impressi sulla pelle. Invece vi chiedo
di concedermi giusto il tempo di piangere qualche ultima lacrima, dopo di che
il circo potrà ripartire per nuovi mirabolanti spettacoli.
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