Ecco il capitolo 15 di "Ultimo tour sulla Luna", il nuovo romanzo di Ljubo Ungherelli in esclusiva sul blog di Riserva Indie dal 4 Febbraio ogni Giovedì con licenza Creative Commons. Il tour di Guy e Vicni si avvia alla conclusione ed è il momento di fare i conti con quello che sarà il futuro di 2 Dualità. Vi ricordo che potete ritrovare tutti i capitoli già pubblicati sulla tab dedicata al romanzo nella home page di questo blog.
Capitolo 15
Tra i senza patria
dell’underground
Mi
arrivò una folata di fumo dritta in gola. Il suo finestrino era aperto, ma la
nuvoletta grigia era comunque rimbalzata fino al lato conducente, dove sedevo
per il mio turno di guida su un ramo autostradale della bassa padana. Mi
astenni dalle classiche schermaglie sul fumo passivo che rischiava di
compromettere la mia ugola.
Eravamo
in una situazione paradossale. O forse nemmeno più di tanto. Forse era tutto
logico e lineare. Avevamo intrapreso l’esperienza più significativa dacché
avevamo creato 2 Dualità: il tour sulla Luna, che speravo potesse lanciarci ad
alti livelli nel panorama italiano, nonostante l’ostracismo di Indie Italie e
altre menate di cazzo. E nel bel mezzo del tour, ecco che Vicni mi veniva a
dire che voleva prendersi una pausa. Qualcosa nel suo comportamento lunatico
aveva fatto scattare un allarme nella mia testa. Passavo le giornate
inventandomi tattiche che mi permettessero di scansare quel pensiero. Il
pensiero che tutto stesse per finire. L’indomani, non appena fatto l’ultimo
concerto del tour.
Sebbene
fossimo alle strette, continuavo a cincischiare, come se non accettando l’idea
che stessimo per dividere le nostre strade, questo potesse non succedere. Il
che m’impediva di prendere la questione di petto, parlandone con lei e
costringendola a dirmi il perché e il percome. Sempre che lei stessa avesse una
posizione chiara in merito. E neppure di ciò ero sicuro.
L’unico
segnale della presenza di Vicni all’interno della Luna, in quel momento, era il
fumo della sua sigaretta. Oltre al riflesso del display dello smartphone sul finestrino, pesticciato
dalle sue dita smaltate di nero. Ebbi per l’ennesima volta paura d’indagare.
Perciò mi misi a parlare d’altro.
“Stamani
un mio amico ha condiviso su Facebook un video dei Missili Intelligenti, un
gruppo in cui suonavo la chitarra secoli fa. Era una serata di gruppi delle
scuole. Le riprese erano mosse e sfocate, doveva averle fatte la mamma del
batterista, o il papà, non ricordo.”
“Missili
Intelligenti. Bel nome”, si limitò a commentare Vicni.
“Missili
Inconcludenti sarebbe stato più azzeccato. Uno dei tanti gruppi senza
prospettive di cui ho fatto parte. A quindici, sedici anni, m’interessava
suonare il più possibile, la quantità mi sembrava molto più allettante della
qualità. In zona si era sparsa la voce, sicché oltre alle band di cui ero
membro, quando da qualche parte mancava un musicista, chiamavano me a tappare i
buchi. Ho fatto addirittura dei concerti nei pub con una cover band di rock
blues insieme a dei tizi che avevano più del doppio dei miei anni, quarantenni
o giù di lì. Ci suonavo il basso, proprio come quand’ho fatto il provino che
c’ha permesso di conoscerci. Lì per me è cambiato tutto. La prospettiva è
girata dall’accumulare punti sulla tessera fedeltà allo sviluppo di un progetto
musicale con un’identità forte, che non a caso c’ha portato i frutti migliori
della nostra carriera. Almeno fino a questo momento. È stato anche un processo
abbastanza brusco: il giorno prima a cazzeggiare in sala prove, il giorno dopo
mano nella mano con te a plasmare 2 Dualità e invadere gli spazi stantii
dell’indie!”
“Guarda
il cartello Guy, c’è un’area di servizio tra due chilometri, ti va se facciamo
una sosta? Ho bisogno di andare in bagno.”
“Ok.
Ne approfittiamo per mettere benzina”, risposi con rassegnazione.
Scendemmo
dalla Luna. Il piazzale era male illuminato. Poche auto, più che altro tir, che
troneggiavano nello spazio loro dedicato, dal lato opposto rispetto a dove
c’eravamo fermati noi. La coltre di fine nebbiolina non contribuiva a rendere
più ameno lo scenario.
“Mi
sento un’aliena”, disse Vicni a mezza voce, come se avesse remore a squarciare
l’alone di morte che permeava il pit-stop
della Luna in quel lugubre non luogo. Si accese una sigaretta, senza mostrare
l’impulso di fare pipì che l’aveva portata a proporre di fermarci. Guardava
davanti a sé con aria immalinconita, in direzione dei campi al di là della
recinzione.
Appena
fummo dentro l’autogrill, anch’io ebbi la sensazione d’essere un corpo
estraneo. Non solo a lei, ma all’umanità che ci circondava. E se in passato
avevo avuto simili sentori, che tuttavia mi rendevano fiero d’essere diverso,
adesso erano le controindicazioni a prevalere e darmi insicurezza.
Stava
iniziando ad andare in malora. Per di più, senza che riuscissi a capirne il
motivo. Ecco cosa mi angustiava sopra il resto. Dovevamo parlare. Avevo bisogno
di certezze, ma mi sarei accontentato di semplici risposte.
Nella
coppia, ero io quello rassicurante e con la situazione sottocontrollo. Era un
ruolo che mi veniva facile. Avere persone che si mettevano nelle mie mani,
anziché provocarmi pressione, mi spingeva a dare il meglio. Con Vicni aveva
sempre funzionato così: i problemi li risolvevo io, persino quelli creati da me
medesimo. Adesso, però, qualche forza oscura remava contro il regolare flusso
della vita: altri dischi, altri concerti, altre campagne social eccetera. Nulla di più normale, e anche semplice, volendo.
Invece la faccenda mi stava sfuggendo di mano.
Ci
riavviammo verso la Luna. Vicni camminava un passo dietro a me. La attesi alla
portiera del lato passeggero, che aprii con gesto da cavaliere d’altri tempi.
Le porsi la mano, come per aiutarla ad affrontare salite ben più irte dei dieci
centimetri di predellino della Luna. Mi portai la sua mano alle labbra e la
baciai. Ripartiti, ero ancora preda della pesantezza d’animo che mi tormentava.
Però era necessario affrontare quei demoni e provare a capire cosa le passasse
per la testa. Per prima mossa, decisi d’affettare un tono scherzoso.
“Stellina mia bella, potrei sapere
cos’hai intenzione di fare dopo la fine del tour, visto che hai deciso che
dobbiamo fermarci a tempo indeterminato? Desiderio di maternità? No! Sei una
fottuta lesbica che non ha queste velleità, né altre, tipo l’utero in affitto…”
“Piantala con queste cazzate, Guy, per
favore”, cercò di tagliar corto lei, girata ostinatamente verso il finestrino.
“Ho ventisei anni…”
“E io ventitré!”, la interruppi,
sperando di ricondurla alla ragione. “È questo il momento. Dobbiamo cavalcare
l’onda. Siamo in una specie di limbo, molto al di sopra dell’anonimato ma c’è
ancora parecchio lavoro da fare. Eppure, basta poco per perdere quanto abbiamo
conquistato ed essere di nuovo sprofondati tra i senza patria dell’underground.
Tesoro, se ci fermiamo proprio ora rischiamo di compromettere tutto ciò che per
noi…”
“Tutto ciò che per te, Guy”, mi gelò dandomi lo stesso effetto di un cazzotto alla
mandibola. Quindi la sua voce divenne meno ferma. “Io avevo semplicemente
bisogno di una buona scusa per staccarmi da quel giro di simpaticoni, tipo i
tuoi amici del Platino Picchiatore, perché sai cosa?”
Era passata in un istante
dall’irremovibile fermezza con cui si era di fatto chiamata fuori dal gruppo ai
confini della crisi di pianto. Però non capivo cosa c’entrassero quelli del
Platino Picchiatore, un collettivo dark wave abbastanza conosciuto dalle nostre
parti, organizzavano serate, concerti e dj set sotto varie sigle e nomi d’arte
ma erano sempre i soliti a spartirsi le mansioni.
Con uno di loro, a dire il vero, avevo
avuto una relazione. Era bisessuale dichiarato, cosa che in quell’ambiente era
meno sconveniente che altrove, almeno così si diceva. Erano stati più che altro
incontri sessuali, anche piuttosto divertenti, ma dopo un po’ c’eravamo
distaccati.
Vicni aveva collaborato con loro,
suonando sia in studio sia live con uno dei tanti progetti riconducibili al collettivo,
i Platinum Inc., che rappresentavano l’incarnazione più gotica e necessitavano
di suoni percussivi e tribali al posto dell’abituale drum machine.
Attesi che recuperasse un minimo
d’equilibrio e mi spiegasse, ma non lo fece. Riprese a parlare del nostro
presente e futuro.
“Poi le cose hanno preso una piega, sì,
insomma, un piccolo successo, se vogliamo chiamarlo così. E fare musica con te
è fantastico. Tu sei fantastico. Questi anni sono stati i migliori della mia
vita!”
“Però per motivi che ti rifiuti di
spiegarmi hai deciso di far festa.”
“Non lo so”, sospirò, quasi col fiatone,
come stremata dopo una maratona.
Mi sembrava di avvertire la sua stessa
stanchezza, di accumulare dentro di me tutto il malessere che la opprimeva. Mi
venne da piangere, ma tirai su col naso e riuscii a mantenere gli occhi
asciutti.
“Non lo so”, ripeté sconsolata,
reclinando la testa all’indietro.
Feci un gran respiro. Le cose non si
mettevano per niente bene. Stavo per arrendermi, sperando di trovare in seguito
la forza di tornare sull’argomento, quando fu lei a parlare nuovamente.
“Non è il momento di fare certi
discorsi. Guy, io ti adoro e adoro 2 Dualità. Sono eccitatissima per questo
tour, i fan che hanno raccolto i soldi per farci suonare, tutto… mi sembra di
vivere un sogno.”
“Anch’io ti adoro, pazzerella”,
ribattei, lievemente rincuorato dal suo tono più conciliante. “Per questo
vorrei che non finisse mai. Siamo una potenza inarrestabile insieme! Meno male
sei una donna, altrimenti c’è il rischio che m’innamorerei di te e il gruppo
andrebbe in malora!”
“Tu ripeti sempre che musica e amore
devono rimanere separati. Io però preferirei mille volte stare in un gruppo con
la mia partner piuttosto che con finti amici che approfittano di te nei modi
più vili.”
Rieccola con le mezze frasi sibilline da
cui avrei dovuto dedurre ogni dettaglio, mentre potevo solo fare teoremi
campati per aria. Perciò mi rassegnai a non cavar nulla e m’impegnai a
sgombrare la mente. Il sesto e penultimo concerto del tour sulla Luna, al Pino
Wine Bar di Desenzano del Garda, destinazione prescelta per l’area
lombardo–veneta, incombeva e volevo essere sul pezzo con corpo, cuore e testa.
“Vicni”, iniziai a dirle, chiamandola
per nome, cosa che quand’eravamo soli non facevo mai, “io non so cosa ti sia capitato,
e non sono in grado di indovinare. Però sappi due cose: uno, quando vuoi
parlare, io ci sono e ci sarò sempre; due, sai che di me ti puoi fidare. Ti
devi fidare! Ora infatti spengo Spotify e metto un bel cd di quelli che
piacciono tanto a te. Ti fidi, vero?”
“Mi metti i Cure?”, domandò lei,
ravvivatasi d’un tratto.
“Dopo”, sibilai biecamente. “Adesso i
Social Distortion! Salutari come pochi per sgranchirsi il collo incriccato dalle
ore al volante! E a seguire, compilation di revival beat italiano anni
Ottanta!”
“E poi i Cure.”
“Se il traffico rallenterà la nostra
tabella di marcia, sì”, ghignai. “Perché se i miei calcoli sono esatti, ed io
su queste cose sono più preciso del GPS, il tempo di questi due cd dovrebbe
servirci per arrivare a destinazione.”
“E i Cure?”
“Slittano al tuo turno di guida, baby
boom. Conosci la regola. Inutile che te la ripeta: chi guida sceglie la
musica.”
“Tu e le tue regole”, brontolò Vicni.
“Dandosi e seguendo le regole si va
lontano. Per questo devi fidarti di me”, rincarai.
“Io mi fido di te. Il problema è che tu
ascolti musica inaffrontabile.”
“Ha parlato Miss Orecchio Fino. Ma almeno su una cosa siamo d’accordo, vero?”
“L’indie italiano degli anni Dieci è una
cagata pazzesca!”, gridammo in coro. Ci stava tornando un accenno di sorriso e
di buonumore. Al contempo, pensavo a quanto mi sarebbe mancata quella creatura
seduta al mio fianco, se davvero i nostri destini avessero preso direzioni
diverse.
Alzai il volume. I Social Distortion
presero possesso dell’abitacolo. D’istinto, il mio piede fu più solerte
sull’acceleratore.
Testo di Ljubo Ungherelli
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