Ecco il capitolo 14 di "Ultimo tour sulla Luna", il nuovo romanzo di Ljubo Ungherelli pubblicato in esclusiva da Riserva Indie ogni Giovedì dal 4 Febbraio con licenza Creative Commons. Il tour di Guy e Vicni, in arte 2 Dualità, giunge al Thunder Room di Carpi per condividere il palco con i "local heroes" I Visitors. Vi ricordo che potete ritrovare tutti i capitoli già pubblicati sulla tab dedicata al romanzo nella home page di questo blog.
Capitolo 14
Una band di geniale pop
elettronico
Mi
pareva d’essere in giro da una vita. Parcheggiai la Luna, mi sganciai la
cintura di sicurezza e rimasi immobile, con la testa appoggiata all’indietro e
gli occhi chiusi.
“Tesoro,
tutto bene?”, fece Guy, dandomi un colpetto sulla mano.
“Sì,
sì, solo un calo di pressione. Ora mi bevo un caffè e mi ripiglio. Poi
scarichiamo la roba.”
“Certo.
Non c’è fretta. Intanto però micina mia mettiti qui accanto a me a fare un po’
di fusa.”
Passai
dal posto di guida al doppio sedile passeggeri. Mi adagiai sul suo petto. Lui
mi massaggiò piano, prima le spalle, poi sul capo, quindi di nuovo giù, come un
pranoterapeuta. Stavo per abbandonarmi a quel beato torpore, quando sentii il
suo respiro più vicino, che soffiava nella zona del mio orecchio. Al quale
dette un morso, affondandomi i denti nella cartilagine.
“Ahi!”,
strillai ritraendomi dalla sua presa. Ebbi l’impulso di mollargli un ceffone,
ma non feci altro che sollevare leggermente il braccio e farlo ricadere inerme.
“Visto?
Son bastati pochi istanti per farti tornare tutta l’energia!”, mi disse
sorridendo angelico.
“Che
cretino che sei.”
“Questo
martedì promette scintille”, divagò lui. “Non qui, temo. Se hanno reintrodotto
il coprifuoco, come sembra a vedere le strade deserte che c’han portato al
Thunder Room, auspicare un pubblico numeroso mi pare utopistico.”
“Sull’evento
Facebook c’erano sessantuno partecipanti confermati. Ne venissero anche solo
trenta–quaranta, il posto da fuori sembra piccolo, ci andrebbe bene. In più, I
Visitors porteranno qualcuno.”
“Dal
crowdfunding quanti? Nove?”
“Otto.
Uno dice che ha un impegno.”
“Chiaro,
chi non è pieno d’impegni a Carpi e dintorni il martedì sera?”
“E
Carpi sia”, sospirai, come se si potesse cambiare la location del quinto concerto
del tour sulla Luna.
Il
Thunder Room era inserito al primo e ultimo piano di una palazzina nel centro
del paese. Da fuori, aveva l’aspetto di un edificio qualsiasi, non c’era
neppure l’insegna. Solo sul portone a vetri, un foglio a4 appiccicato dall’interno segnalava l’esistenza di un circolo
ricreativo, col logo e una freccia rivolta verso l’alto a significare che c’era
da fare le scale per arrivarci. Il pianoterra era la classica casa del popolo,
con l’ampia sala bar e i vecchini che leggevano il giornale o ragionavano a
voce alta tra loro o col barista.
“Ancora
giusto quei sessant’anni e farò la loro stessa fine”, mi disse Guy precedendomi
lungo le scale.
“Il
rock mantiene giovani.”
“Sì
ma l’indie italiano al contrario fa invecchiare precocemente!”
Quanto
aveva ragione. Mi capitava spesso di pensarlo, girando per concerti oppure nei
locali della nostra città; vedevo ragazze e ragazzi più o meno della mia età,
tra i venti e i trenta e qualcosa insomma, ma che parevano morti dentro. La
nostalgia iniziava ad ammazzarli già da piccoli, poi si ritrovavano nel mondo
dei grandi e si rifiutavano di farsene una ragione, sicché seguitavano a
rifugiarsi nei ricordi del passato che spesso distorcevano per farli sembrare
più belli. Il risultato di questi giovani–vecchi che non viaggiavano, che non
facevano esperienze fuori dal loro guscio, barricati nelle false certezze del
loro piccolo mondo, si ripercuoteva anche sul ristagno della scena musicale.
Di
sopra, emerse il concetto di room del
Thunder Room. Era una stanza, giusto un po’ allungata, col soffitto basso e le
pareti rivestite di un orribile laniccio grigiastro. In fondo c’era una pedana
striminzita a fungere da palco. A metà strada tra l’ingresso e il palco, il
mixer. Per il resto, fatta eccezione per le panche a contrasto con le pareti
laterali, era tutto disadorno.
“Non
c’è nessuno”, feci notare a Guy, che se n’era accorto pure da sé.
“Iniziamo
a portar su la roba. Poi chiediamo al bar se sanno qualcosa.”
“Chiediamo
prima d’iniziare a portar su la roba.
Potrebbero aver annullato la serata; meglio evitare la fatica dello scarico se
poi è tutto saltato.”
“Ohi
ohi quanto pessimismo buttato lì a caso. Chiediamo subito al bar se sanno qualcosa!”
“Ottima
idea, Guy.”
In
realtà, quando risalimmo, trovammo due tizi, uno dei quali era il fonico. Come
prima cosa, ci dettero i buoni consumazione, da utilizzare proprio al piano di
sotto. Ci spiegarono che non avendo la licenza per gli alcolici, si erano
convenzionati col bar, facendo cassa mediante una percentuale sulle bevute che
i frequentatori del Thunder Room facevano di sotto.
“Così
tutta la sera vedremo gente schizofrenica che va su e giù di continuo, anche
durante il concerto”, dissi mentre scaricavamo dalla Luna la prima mandata di
strumentazione.
“Io
sarei contento se succedesse. Vorrebbe dire che è venuto qualcuno.”
Verso
la fine del soundcheck arrivarono I Visitors. Erano in cinque, una ragazza e
quattro ragazzi, intorno alla trentina a occhio e croce. Sull’evento Facebook
erano etichettati come “una band di geniale pop elettronico”. A giudicare dai
pezzi che accennarono al check, appena noi completammo il nostro, sembravano il
classico complesso indie folk svagato, con strumenti per lo più acustici. Erano
anche descritti con l’epiteto di “local heroes”, che voleva dire tutto e nulla.
Soprattutto nulla.
Cenammo
tutti insieme, al piano di sotto. A quell’ora, i pensionati habitué del circolo
erano rientrati dalle mogli e la sala era deserta. Il cantante dei Visitors,
che ogni tanto suonava la chitarra e l’ukulele, tenne banco con frizzi e lazzi.
Era stato il primo a venirci incontro e presentarsi appena eravamo scesi dal
palco dopo aver provato i suoni. Era uno di compagnia, e come lui i suoi
colleghi, i tipici maschi gioviali e amichevoli che c’erano in quelle terre. Al
contrario la tipa, che doveva essere la ragazza di Ronald Vegan e che aveva
delle pose da bad girl emancipata, se
ne stava in disparte guardandosi intorno con aria torva. Vista da vicino, aveva
i lineamenti di una ragazzina, pareva una diciottenne che si atteggia in modo
poco credibile a donna matura.
Ronald
Vegan, spalleggiato dagli altri Visitors, ci raccontò di quando avevano suonato
alla Festa dell’Unità di Modena nel delirio generale, con la gente che ballava
sui tavoli, rovesciando in terra piatti di lasagne e di culatello, tortelli al
ragù e bocce di lambrusco. Guy, da copione, gli dava spago, pungolando un ego
già debordante che magnificava i meriti dei Visitors ben oltre lo standard di
raccattati che sospettavo ricoprissero, persino nel loro distretto, dove lui
lasciava intendere che le masse si muovessero non appena iniziavano ad
accordare gli strumenti.
La
camicia di Ronald Vegan, un drappo variopinto di fiori psichedelici, pareva
l’uniforme di un fricchettone andato a svernare alle Hawaii. Riuscii a
inquadrarlo appieno solo dopo un bel pezzo che ci stava intrattenendo. Notai i
capelli brizzolati, strategicamente scompigliati, il pizzetto invece curato e a
sua volta sale e pepe, gli occhiali con le lenti sfumate di azzurro, le
sopracciglia finissime, i tratti del viso quasi effeminati. Mi concentrai su di
lui quando la sua fidanzata sparì dal mio campo visivo.
“Amore,
posso uscire un attimo fuori a fumare?”, gli chiese con un certo timore della
sua risposta.
“Ma
sì, bambina, vai. Rimani vicino alla porta, però.”
Lei,
improvvisamente succube del fidanzato–leader, lasciò la sala a piccoli passi.
La patina da ruvida donna vissuta era stata raschiata via da un semplice
scambio di battute. Provai un po’ di tenerezza, e di pena, per quella piccola
femmina che si sgretolava come un grissino nonostante l’apparenza tosta e
fiera. Poi pensai a come io stessa cercavo di apparire agli altri, mentre mi
nascondevo dietro l’ombra protettiva e rassicurante di Guy, anche se non era il
mio ragazzo, ed ebbi pena di me. Mi venne voglia di uscire anch’io a fumare, ma
preferii aspettare il suo rientro.
Lasciai
I Visitors a tirare acqua al loro mulino e mi accesi la sigaretta già
nell’ingresso della palazzina. Fuori, vidi avvicinarsi una dozzina di persone.
Pareva una classe delle medie in gita per la prima volta fuori dalla loro
città. Solo che erano grandicelli. Intuii che fossero i fan, come li reputava Ronald
Vegan, o gli amici, come credevo io, venuti a dar supporto ai Visitors. Feci
finta di starmi accendendo in quel momento la sigaretta, riparandomi dal vento
per non far spegnere la fiamma dell’accendino, così gli voltai la schiena
mentre arrivavano all’ingresso. Mi superarono come se non esistessi. Durò poco,
però. Ero rimasta fuori anche dopo aver schiacciato la sigaretta nel vaso,
quando fui raggiunta da tutta la banda. Nel mezzo c’era pure Guy. Venne da me
trascinandosi dietro uno dei tizi entrati pochi minuti prima.
“Ecco
il nostro fan che doveva venire a cena ma è stato rapito dagli alieni, che per
fortuna ce l’hanno restituito a tempo per il concerto!”, mi annunciò gaio,
presentandomi Sottogorino. Capii al volo le sue mire. Sottogorino era alto pressappoco
quanto lui e all’incirca della stessa età. Era vestito un po’ dimesso, da nerd,
e appariva a disagio, intimidito dall’euforia collettiva e forse di più da
quella di Guy. Però aveva un viso intenso, espressivo nei tratti più marcati
come le labbra e il mento, e lo sguardo era vivido.
Io
me ne stetti per conto mio senza interagire granché. Ebbi solo la presenza di
scattarmi un selfie di modo che sullo
sfondo si vedesse il capannello di gente pronta a gremire il Thunder Room di
Carpi. Pubblicai la foto a reti unificate su Instagram, Facebook e Twitter e
proseguii il mio isolamento. Guy e Sottogorino, poco distante, parlavano fitto.
Uno sorrideva e dava di gomito, l’altro faceva di sì con la testa, scrollando
il caschetto nero.
“Forza
ragazzi, basta fare le persone serie: è ora di giocare alla musica!”, proclamò
Ronald Vegan, richiamando all’ordine la brigata e comandando di tornare di
sopra. Il suo scopo era chiaramente serrare le fila e avere i suoi legionari
sottopalco. Lo status di trascinatori di folle che millantava non avrebbe
dovuto farlo abbassare a quei mezzucci.
Tutti,
compreso Sottogorino per la disperazione di Guy che con l’inizio del concerto
avrebbe avuto margine di manovra per lavorarselo con calma, furono costretti a
seguire le direttive di Ronald Vegan. Noi due ne approfittammo per prenderci
qualche minuto di stacco dal chiasso che si stava trasferendo su.
“Dev’esser
divertente far parte del giro dei Visitors, sul serio”, disse Guy. “Fanno pena
musicalmente, però sono simpatici. Il problema è che diventa un club privè, dove sei onorato d’essere
ammesso però non ti lasciano più uscire. C’è il concerto di 2 Dualità, che ti
piacciono un sacco e non li hai mai visti, hai addirittura la possibilità di
cenarci insieme, ma non puoi farlo perché tutti gli altri arrivano a una
cert’ora e sei costretto a star appresso ai loro comodi. Riesci infine a
conoscere il gruppo, il cantante ti fa un sacco di feste, ma sul più bello
inizia il concerto dei tuoi amici e sei costretto a star appresso ai loro comodi.”
Guy
mi propose poi di unirci alla festa e
salire a vedere cosa combinavano I Visitors. Con l’abituale pantomima, mi prese
per mano, e come bambini iperattivi facemmo le scale saltellando a due a due i
gradini.
In
effetti, la musica dei Visitors era atroce. Quanto erano spigliati e cazzoni
prima di salire sul palco, tanto pesantemente si prendevano sul serio
nell’imbastire canzoncine senz’arte né parte.
La
ragazza di Ronald Vegan stava in penombra, a testa bassa in piedi accanto alla
batteria. Picchiettava su uno xilofono, che si sentiva a malapena, e su una
tastierina synth tipo la mia, più amalgamata nel suono, ma la usava talmente di
rado che risultava inutile al livello dello xilofono. Come in precedenza, tornò
a farmi pena. Stavolta però mi vidi sul palco, nelle parole dei fan e dei live report delle webzine, e non ebbi lo
stesso rigetto avuto a tavola, quando lei aveva chiesto il permesso d’uscire. 2
Dualità erano stati una ventata di novità per la scena indie, e i nostri
concerti lasciavano il segno per la qualità delle canzoni e dell’esecuzione ma
anche per come ci ponevamo noi.
Il
batterista, che durante la cena aveva un giubbetto da paninaro, se l’era tolto
e sfoggiava una maglietta blu con logo giallo stampato all’altezza del cuore.
Non capivo cosa fosse, forse il nome della ditta per cui lavorava. In ogni
caso, era un pessimo modo di presentarsi di fronte a un pubblico, pur se
composto di amici e parenti, oltre ad alcuni nostri fan che finalmente
iniziavano ad apparire nel locale, qualcuno era venuto a salutarci mentre
assistevamo al concerto subito dietro la claque
dei Visitors.
“Io non capisco”, dissi all’orecchio di
Guy, senza nemmeno urlare, dato che il volume della musica non era troppo
potente. “Perché devono sforzarsi di sembrare così sciatti? Il batterista è
vestito come dovesse fare un trasloco.”
“Oppure come il backline che monta e smonta il palco. Forse è proprio lui. Il
batterista non poteva venire e come rimpiazzo non hanno trovato di meglio del
tipo del backline!”
“Scendo a bere una cosa, Guy. Ho visto e
sentito abbastanza dei Visitors. Per stasera e per il resto dei miei giorni.
Vieni con me?”
“Se non ti spiace ti aspetto qui,
tesoruccio.” Nel rispondermi, scrutava il volto di Sottogorino, girato di tre
quarti e rivolto verso il palco.
Presi
l’ultima birra giù. Il concerto dei Visitors stava per finire. Era tempo di
cambiarsi d’abito. Per la seconda e ultima volta, avrei suonato tutta in nero,
gilet, gonnellino e collant, tranne la camicetta bianca.
Testo di Ljubo Ungherelli
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