martedì 13 aprile 2021

L'HARDCORE DEGLI ANNI '90 IN ITALIA - GIANGIACOMO DE STEFANO RACCONTA "DISCONNECTION" - A CURA DI MAURIZIO CASTAGNA E OLIVIERO GERVASO


E' uscito per la collana Le Tempeste di Tsunami Edizioni un libro che racconta la scena hardcore italiana degli anni '90. Ne abbiamo parlato con Giangiacomo De Stefano che con Andrea "Ics" Ferraris ha curato questo volume.


Ciao Giangiacomo e grazie per la tua disponibilità. Come è nata l'idea del libro e come hai trattato l'argomento "hardcore italiano anni '90" in “Disconnection"?
L’idea è nata circa cinque anni fa da me e Andrea Ferraris, un amico che in passato ha suonato in band importanti come Burning Defeat, Permanent Scar e One Fine Day. L’abbiamo voluto scrivere perché sulla scena hardcore anni Novanta andava fatta chiarezza e perché se una storia a cui tieni non la scrivi tu, la scrive qualcun altro in modo diverso.

La scena hardcore italiana degli anni Ottanta è stata ampiamente documentata, forse in un certo qual modo anche un po’ idealizzata, mentre un risalto di gran lunga inferiore è riservato al decennio successivo. Quale può essere stata la “colpa” della scena dei Novanta? Solo l’essere arrivata dopo l’età dell’oro?
La prima cosa da sottolineare è che si tratta di due momenti che hanno entrambi mille sfumature diverse all’interno del loro sviluppo. Parlare della scena anni Novanta come se si trattasse di un corpo unico è inesatto. Ci sono state numerose evoluzioni al suo interno e molte cose che ne hanno distinto i singoli percorsi. La scena degli anni Ottanta è stata importante e ha espresso gruppi davvero incredibili, anche qui con mille distinzioni. Sicuramente a suo favore ha giocato il riconoscimento che a suo tempo le fu dato all’estero e poi, a mio parere, il conseguente culto alimentato dalle tante pubblicazioni che in tempi recenti ne hanno raccontato la storia. C’è un libro importante che si chiama “American hardcore”, nel quale, colui che lo ha scritto, afferma che la scena hardcore americana è finita addirittura nel 1986. Ovviamente così come non è accaduto negli Stati Uniti, non è accaduto neanche in Italia. Si è conclusa una prima stagione, ma poi le cose sono andate avanti con gruppi straordinari e nuovi contenuti.

È possibile individuare qualche accadimento specifico che funge da linea di demarcazione tra le scene dei due decenni o è un mero scorrere del calendario a segnare il passaggio di consegne?
Il senso del nostro libro è proprio questo, affermare che la scena anni Novanta è interessante perché diversa da quella che l’ha preceduta e questa diversità si è espressa attraverso date simbolo e rotture. Il primo è il concerto che Negazione, Indigesti e CCM fecero nel 1987 al Casalone di Bologna. Quel momento sancì la fine simbolica della vecchia scuola. Altra data simbolo è legata al concerto che gli Youth of today tennero al Leoncavallo nel 1989 e poi, nel 1990, il concerto “It’s pounding in” all’Isola nel kantiere di Bologna, dove suonarono i principali gruppi della nuova scena italiana.


Quali possono essere state le continuità e le discontinuità della scena hardcore degli anni Novanta rispetto a quella degli Ottanta, sia a livello musicale e organizzativo nonché di attitudine?
La continuità c’è quando parli dei valori di fondo come il do it yourself e una serie di rituali e idee di base. La discontinuità è data dal fatto che nei Novanta, chi componeva la scena hardcore, parlava, pur contrapponendosi ad esso, il linguaggio di quel momento storico.

Quali erano i centri nevralgici della scena dei Novanta? Le città, gli spazi e i gruppi più rappresentativi?
La scena più attiva e innovativa gravitava attorno a due etichette: Soa e Green Records. C’era una sorta di triangolo che comprendeva Roma, Padova e Modena. Milano e Torino invece hanno parzialmente fatto storia a sé e si sono relazionate in modo diverso alla nascente scena: Torino attraverso una sorta di continuità con parte di quello che era successo negli anni Ottanta, Milano partecipando attivamente al cambiamento, ma da un certo punto di vista, almeno per un periodo, in modo quasi autosufficiente. Poi di gruppi e situazioni ce ne sono state tantissime: Aosta, Alessandria, Pavia, Genova, Vicenza, Treviso, il Friuli Venezia Giulia, e poi la costa adriatica con Ravenna e Ancona e poi qualcosa ancora anche in Campania, Sardegna, Puglia e Sicilia. La lista dei gruppi è troppo lunga. Quelli che per primi hanno segnato la rinascita, sono stati sicuramente i romani Growing Concern.


A quali aspetti della scena viene dato maggior risalto nel libro? La musica, l’attitudine, l’etica?
Penso che la cosa bella del libro sia che ci siamo concentrati sulle dinamiche che hanno fatto mutare continuamente la scena. Il libro traccia un quadro generale dell’hardcore, anche di quello degli anni Ottanta e poi si focalizza appunto su quello che è avvenuto a livello di linguaggio e argomenti prevalenti.

Lo hardcore ha sempre visto convivere in sé diverse anime anche in apparenza piuttosto distanti, dagli skinhead fino agli hare krishna. C’era nell’Italia degli anni Novanta, una frangia prominente che spiccava per consistenza e coesione nei moshpit a bordo palco? E poteva accadere che certe correnti venissero a scontrarsi tra loro?
Sicuramente lo straight edge ha caratterizzato la rinascita della scena italiana. Magari non tutti coloro che ascoltavano hardcore al tempo erano seguaci delle tre X, ma l’estetica e il suono, per gran parte di quella che è stata la nuova generazione che si è affacciata nei Novanta, faceva riferimento a questa idea. Poi le strade con il procedere del decennio si sono diversificate: da un lato la militanza vegan/straight edge, dall’altra l’avvento del cosiddetto emo, poi chi si rifaceva alla vecchia scuola e a un certo punto il ritorno a una visione più punk delle cose, disegnano una scena ahimè molto divisa.

Il mito della scena anni '80 è cresciuto anche per la forte politicizzazione dei suoi contenuti che troviamo meno negli anni '90?
Per certi versi può essere vero, ma se prendi i testi dei Negazione, a partire da un disco fondamentale come “Lo spirito continua”, oppure gli Indigesti di “Osservati dall’inganno”, segnalo testi nei quali sicuramente ci sarà stata una visione politica e attitudinale espressa in maniera criptica, ma sono fondamentalmente incentrati sulla persona e su argomenti prevalentemente esistenziali. Negli anni Novanta ci sono stati gruppi più diretti e altri meno, così come era appunto avvenuto nella fase matura della scena anni Ottanta. Certo sono emersi altri temi. Non si parlava più di possibili guerre nucleari, ma in fondo l’idea di giustizia e contrapposizione all’autorità è restata con una molteplicità di tematiche diverse.

L’epica dello hardcore anni Ottanta narra di spazi occupati, fanzine fotocopiate, autoproduzioni, autogestioni… insomma di situazioni rigorosamente all’insegna del “do it yourself”. Il retroterra nei Novanta è sostanzialmente il medesimo o vi era stato qualche cambiamento nel “funzionamento” della scena?
E’ fondamentalmente lo stesso anche se a un certo punto, dopo il 1998, alcuni gruppi si sono professionalizzati e una parte della scena hardcore, quella vicina a sonorità più metal, si è di fatto allontanata dagli spazi dell’antagonismo. Io personalmente non ho amato questa deriva.

Negli anni Novanta sono emersi altri movimenti musicali quali il rap e il rock alternativo. Esisteva qualche interazione e condivisione (o magari anche ostilità) con il mondo hardcore?
Anche in questo caso non si può fare una generalizzazione. Ci sono state personalità molto aperte e altre non in grado di andare oltre i confini del genere di appartenenza. Nel nostro libro abbiamo voluto dare risalto alle interazioni tra la scena hardcore e altri generi come il rock indipendente e appunto l’hip hop. Nonostante un presunto settarismo dell’hardcore, c’è stata grande contaminazione tra i generi e forse, anche questa è una delle ricchezze della scena che abbiamo raccontato nel libro.

Musicalmente parlando, lo hardcore italiano dei Novanta segue grossomodo l’evoluzione che il genere stava vivendo oltreoceano?
La risposta è si. La scena hardcore in quel momento si è allineata con quello che succedeva oltreoceano. Questa è una delle critiche che in questi anni è stata fatta alla scena italiana anni Novanta.

Il libro è uscito da pochi giorni e l’editore ha annunciato che la prima tiratura di 1000 copie è già andata esaurita. Innanzi tutto: complimenti vivissimi per l’exploit! Era nell’aria una risposta di questo genere o ha colto tutti di sorpresa?
Abbiamo risposto a una domanda, ma non ci aspettavamo una risposta così buona. La cosa che ti posso dire è che abbiamo rivitalizzato l’idea stessa che si ha di questo genere di musica in Italia. Se ci pensi non è poco.

Detto del notevole successo di “Disconnection”, quale può essere un identikit del lettore a cui si rivolge il testo?
La mia impressione è che si tratti di un libro scritto per una platea di lettori molto più grande di quella hardcore. Penso lo possa leggere chiunque.

Hardcore è qualcosa che va ben al di là della musica, assurgendo a stile di vita a tutto tondo. A più di vent’anni di distanza, cosa è rimasto di quell’esperienza? I protagonisti di quella scena che hanno riversato i loro ricordi nel libro, hanno mantenuto tale approccio nella vita di tutti i giorni, che magari per alcuni è ormai lontana da concerti e occupazioni?
Nonostante le persone intervistate siano tutte una diversa dall’altra, credo che ci sia qualcosa che ha unito gran parte di queste: aver vissuto qualcosa che non possiamo che definire totalizzante e unico. Penso ad esempio all’idea che si possa fare musica partendo dal basso e inventare attraverso di essa un mondo parallelo. A me è rimasto questo. Poi l’hardcore per quel che mi riguarda non è più il mio mondo e con questo libro ho voluto archiviare questa parte del mio vissuto.


Se dovessi consigliare cinque dischi che più hanno caratterizzato quel periodo cosa consiglieresti?
Ci provo anche se per essere esaustivo te ne dovrei consigliare almeno una trentina. Questi quelli che mi vengono in mente sono il 7’ degli Equality. A seguire lp dei Burning Defeat, il 10’ dei Frammenti, il secondo album dei Reprisal e poi un disco nel quale ho suonato io e cioè il 10’ degli Ageing. La lista potrebbe procedere con nomi come Think Twice, Growing Concern, Concrete, By All Means, Eversor e tanti altri.

Grazie ancora per la disponibilità Giangiacomo e prima di chiudere l'intervista vorrei ricordassi ai nostri lettori come si può acquistare "Disconnection" e interagire con te.
Sull’interagire dipende sempre dall’interlocutore e dal contesto. Sono estremante grato con chi mi cerca attraverso i social media, ma allo stesso tempo con grande onestà ti dico che non mi piace comunicare attraverso qualche thread. E’ una deformazione che viene dal mio mestiere. Per quanto riguarda il libro, Tsunami, il nostro editore, distribuisce il libro nelle principali librerie e se non è disponibile, lo si può ordinare direttamente da loro. Per quanto riguarda i canali alternativi, i principali distributori di dischi e libri dell’area hardcore e punk come Hellnation, Shove, Radio Punk, Epidemic, Green e Nutty, hanno tutti nel loro catalogo “Disconnection”.

Giangiacomo De Stefano








 

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