martedì 30 marzo 2021

STEFANO SOLVENTI (SENTIREASCOLTARE) E IL "MONDO NUOVO" CHE CI ASPETTA - INTERVISTA A CURA DI MAURIZIO CASTAGNA E GUY


Abbiamo fatto qualche domanda a Stefano Solventi, scrittore E critico musicale, anche se a lui la definizione non piace , sulla scena musicale attuale e sul futuro più o meno distopico che ci aspetta. 


Ciao Stefano e grazie, come sempre, per la disponibilità. Partiamo da questa pandemia e dalle sue conseguenze anche e non solo in ambito musicale. La paralisi dell'attività live penalizza soprattutto quel settore di musica meno commerciale che, da sempre, ha bisogno di "circuitare" nei club per sopravvivere. Può la musica "altra" trovare una sua strada senza il suo naturale sbocco su un palco?

Domanda difficilissima, da un milione di dollari o anche di più. A pelle verrebbe da rispondere di no. Per quanto si possa ancora contare su un circuito radiofonico non allineato a quello dei grandi network commerciali, e malgrado le possibilità offerte dai social, il live rappresenta senza dubbio il momento in cui i musicisti alternativi abbattono i gradi di separazione tra se stessi e il pubblico, segnando la differenza tra la loro proposta e quella di un prodotto confezionato a misura di algoritmo. I live in streaming su FB - che mi pare siano un po’ passati di moda durante la seconda ondata pandemica - hanno ribadito questo aspetto: nel concerto la vicinanza fisica, la presenza, è un aspetto fondamentale. Purtroppo gli esperimenti come quello recente di Barcellona - test e mascherine per tutto il pubblico, monitoraggio capillare... - prevedono una macchina organizzativa costosa, applicabile solo ai grandi eventi. In ragione di ciò, se nel medio periodo non sarà possibile tornare anche solo parzialmente alla normalità, per la musica alternativa francamente la vedo dura. Tuttavia mi consola pensare che in campo musicale molte profezie siano state smentite dai fatti. Ad esempio, venti anni fa in molti eravamo convinti che l’inevitabile crollo delle major dovuto alla smaterializzazione dei supporti avrebbe provocato una forte riduzione degli investimenti e di conseguenza l’impoverimento delle produzioni discografiche, quindi meno dischi e meno ricerca sonora. Le cose sono andate assai diversamente.        

Nel tuo ultimo, bellissimo libro, "The Gloaming", parlavi della musica liquida e del fatto che tutte le rivoluzioni musicali, soprattutto a livello di supporto, hanno bisogno di tempo per essere assimilate, specie dalle "vecchie generazioni". Come Netflix sta cambiando il cinema, anche Spotify sta cambiando la musica? Avere un archivio illimitato a 9,99 al mese è un'opportunità o un limite per i ragazzi di oggi?

Credo che un archivio del genere rappresenti una grande opportunità per un “ascoltatore”, ma possa rivelarsi una trappola per un “utente”. Le piattaforme di streaming sono più o meno quello che sognavamo a cavallo tra vecchio e nuovo secolo, quando già gli sviluppi tecnologici lasciavano intuire che la possibilità di un catalogo contenente tutto lo scibile a cui poter accedere on demand era realizzabile. Ma lo sognavamo da ascoltatori, ovvero da individui appassionati di musica che si erano costruiti delle mappe mentali attraverso le discografie, le quali prevedono contesto, sviluppo e inesauribili intrecci. Avere a disposizione questo mare di titoli, continuamente aggiornati sia riguardo le novità che le ristampe, è una prospettiva esaltante per chi può contare su una bussola e su un metodo che gli consente di “manovrare il timone”, perché sa riconoscere i punti di riferimento, i segni stilistici, gli snodi storici eccetera. Ma va tenuto conto innanzitutto di un aspetto: lo streaming è progettato per attrarre e fidelizzare un utente. Quest’ultimo non è necessariamente un appassionato di musica, anzi spesso non lo è affatto. La maggior parte dei “clienti” di Spotify e compagnia non concepisce neppure il concetto di discografia. In questo mare di possibilità, un utente è un naufrago in balia delle correnti, ma è un naufrago felice perché le correnti lo portano da un villaggio vacanze all’altro. Il limite è proprio questo: lo streaming tende a produrre divertimento e un delizioso, implacabile conformismo. Quest’ultimo è un obiettivo possibile grazie ai feedback su preferenze e modalità di ascolto, che determinano il costante adeguamento dei “parametri” per conferire più appeal alla canzone. Può sembrare una semplificazione eccessiva, ma è così: Spotify sta cambiando la forma delle canzoni come Netflix sta cambiando la forma dei film. Accade per un motivo molto semplice: perché è possibile.     

 La musica vive anche e soprattutto di immagine e "leggenda" oltre che di suoni. Penso, ad esempio a Iggy, Bowie, Bono, Cobain. Fino a poco tempo fa essere fan voleva dire possedere qualsiasi cosa girasse intorno alla propria rockstar preferita. E tutto questo alimentava un giro fatto non solo di supporti musicali ma anche di riviste, fanzine, memorabilia. Faccio fatica negli ultimi dieci anni, ma forse si potrebbe tranquillamente andare ancora più indietro, a trovare artisti che abbiano lasciato sia a livello di immagine che di storia personale un'impronta in questo senso. Il rock ha bisogno di personaggi oltre che di musica per sopravvivere?

Ho riflettuto molto sul fatto che il rock stia vivendo più del potenziale mitologico delle sue vecchie icone che non delle novità discografiche, che peraltro non mancano. Fiction e non-fiction, cinema e letteratura, continuano a pescare dal repertorio del rock, dal suo serbatoio di storie e leggende, ed è comprensibile che lo faranno a lungo. Più che nostalgia del rock, mi pare la nostalgia di quando esisteva una cosa come il rock capace di generare personaggi e vicende tanto potenti. Il rock riusciva a farlo perché era cruciale, rappresentava un riferimento culturale per quasi tutti i ragazzi, che oltre a connotarsi individualmente si organizzavano come tribù in funzione della musica che ascoltavano. Le rockstar erano una proiezione ideale seppure esasperata dei sogni, ma incarnavano anche le fragilità, erano conflittuali, controverse, uno scontro irriducibile tra conformismo e rivolta, così evidente nell’adolescenza ma destinato a sedimentarsi anche con la consapevolezza della maturità. Il rock è figlio della “affluent society”, ne rappresenta in un certo senso il riflesso ma anche lo spettro, nasce per essere carburante del motore ma aggiunge sempre un po’ di sabbia nella benzina. Purtroppo questa capacità di stare assieme dentro e contro il sistema, di esserne corpo e ombra, è stata drasticamente depotenziata dalla marginalizzazione del rock a vantaggio di forme sonore più, come dire, funzionali. Oggi pop, neo-soul e hip-hop dominano playlist e airplay, nel bene e nel male. E il rock sembra avere interiorizzato questa marginalizzazione. Canzoni e album rock sembrano portarsi dentro la consapevolezza che anche nella migliore delle ipotesi non saranno in grado di incidere significativamente sulla realtà. I musicisti rock, di conseguenza, incarnano questo basso profilo. Agli antipodi stanno gli pseudo-rocker che enfatizzano al massimo l’impatto visivo, ma sembrano più disposti a fare sensazione sul palco dell’Eurovision Song Contest (o Eurofestival che dir si voglia) che non a macinare rock’n’roll in un club o in un palazzetto.         


La musica attraverso i social si è trasformata in una sorta di "Bar Sport"? La tendenza di molti, troppi, ad omaggiare i propri "influencer di riferimento", qualsiasi cosa scrivano, spesso per godere di un po' di attenzione mediatica di riflesso a volte ricorda l'applauso degli impiegati al direttore generale  durante la famosa partita di biliardo del "coglionazzo" Fantozzi. E' cambiato anche il modo di "godere" la musica?  Non dovrebbe l'ascolto essere prima di tutto un momento di emozione e assimilazione della proposta di un musicista piuttosto che uno skip incontrollato tra una novità e l'altra da condividere compulsivamente su facebook e derivati?

Tocchi un punto assai delicato. Sui social assistiamo spesso a delle versioni potenziate e accelerate di vecchie abitudini. Come ad esempio, appunto, la condivisione delle sensazioni di ascolto e la ricerca di un disco o di una canzone consigliata da qualcuno: ovviamente si tratta di pratiche tutt’altro che negative in sé, che spesso e volentieri eseguivamo anche in epoca pre-internet. È però lecito chiedersi: quanto la traduzione social di quegli atti è “solo” un loro aggiornamento e non uno stravolgimento? Sono in fondo la stessa cosa o sono sostanzialmente altro? Credo che si torni al tema di cui ho detto prima: dipende da cosa si porta dentro quel gesto di condivisione. Dipende se pianti il fulcro sulle sensazioni (sulle emozioni) relative all’ascolto o sulla condivisione stessa come “moneta” da spendere nel juke box dell’esistenza social. Dipende, in ultima analisi, se sei più ascoltatore o utente. Aggiungo un ulteriore livello di riflessione: pensare che si possa ascoltare un disco (o guardare un film, o leggere un libro) solo per poter in seguito condividere l’esperienza può apparire sconfortante, però è anche interessante proprio perché suggerisce un cambiamento di paradigma, la possibilità di una mutazione profonda dell’esperienza. La tecnologia ci cambia in molti modi, lo fa da sempre. La stampa, ad esempio, non ci ha solo fornito dei potenti mezzi di sviluppo, diffusione e conservazione della cultura, ma ha modificato la nostra architettura mentale, il nostro modo di pensare, nonché - di conseguenza - il corso stesso della Storia. Oggi abbiamo accettato che sia stato un bene, ma all’epoca non tutti la pensavano così. I social stanno facendo lo stesso: ci cambiano in profondità. Nel caso specifico, il fatto che accanto a me che ascolto (o leggo, o guardo un film) si aggiunga un altro me “social” - la versione speculare/spettrale di me - che elabora l’esperienza nella prospettiva della condivisione, un po’ mi sconcerta, certo, ma non escludo che si tratti di una situazione destinata a sviluppi insospettabili, forse persino positivi.      

Recentemente hai firmato un pezzo tagliente e disincantato sul disco del gruppo vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo. Dato che chiaramente non ti accodi alla vulgata secondo cui il successo di certi nomi può (ri)portare interesse intorno al rock e magari incuriosire l’ascoltatore a spingersi nell’approfondimento della storia e dell’attualità del genere, che cosa a tuo avviso potrebbe aiutare il rock a recuperare quella rilevanza che non riesce più a rivestire al giorno d’oggi?

Non mi interessava scrivere la recensione del disco dei Maneskin, ma il direttore di Sentireascoltare mi ha invitato caldamente a occuparmene e così… Sulle prime volevo rifiutare, poi però ho capito che potevo sfruttare il meccanismo per parlare d’altro, ad esempio di quello che hai sottolineato tu: chi sostiene che i Maneskin facciano bene al rock perché i loro ascoltatori potrebbero risalire alle “fonti”, si illude e non ha capito granché di cosa stiamo parlando. Quello dei Maneskin è indubbiamente rock dal punto di vista formale, ma è appunto questo: un rock costruito con le parti utili del rock. Utili a chi? A chi deve agganciare l’attenzione di quelli che del rock si sono fatti un’idea, appunto, formale, priva di stratificazioni e risvolti. Un rock “senza fronzoli” - come recita una formula abusatissima e che personalmente detesto - però ben definito, inequivocabile, divertente come una scossa al giusto voltaggio, abbastanza eccitante e soprattutto innocua, come un giro sull’ottovolante che ti riporta nello stesso identico punto di partenza (vuoi fare un altro giro?). È rock che si rivolge a chi del rock può benissimo fare a meno, a chi di Lou Reed magari si prende Rock’n’Roll Animal ma Berlin anche no, grazie, che cazzo è ‘sta roba? In realtà penso che quel rock-burletta (di cui i Maneskin non sono stati certi gli inventori) finisca per danneggiare il rock proprio perché ne ostracizza la complessità, pastura l’utente con canzonette adrenaliniche senza implicazioni, poi vai a fargli ascoltare PJ Harvey o i Big Star, e vediamo cosa succede. Venendo al tuo interrogativo, credo che il rock potrà tornare al centro dell’immaginario solo nella misura in cui saprà essere il linguaggio più adatto per esprimere determinate situazioni. Certi rigurgiti di rock a base di chitarra che provengono dalla Detroit devastata dalla crisi economica (Protomartyr) o dalla Gran Bretagna della Brexit (Shame) sono abbastanza convincenti da farci credere che quel tipo di disagio possa trovare nel rock la forma espressiva ideale. Mi intriga molto anche il rock “al femminile”, ovvero come per molte ragazze il rock somigli a un modo per smarcarsi dai parametri di genere, strutturandosi come linguaggio assieme aspro e sottile, vedi Courtney Barnett, Adrianne Lenker o Julien Baker. Però a questo punto è necessario tornare all’importanza del contesto: forse il rock potrà recuperare posizioni solo se riuscirà a trasmettere il gusto per le implicazioni, per la complessità che va ben oltre la sensazione, per un discorso che può svilupparsi solo nel tempo e all’interno di un contesto imprescindibile, e non a esaurirsi nel non-luogo dei tre minuti delimitati dalla canzone. Missione difficilissima.   


Alla tua autorevole attività di critico musicale, negli anni hai affiancato pregevoli incursioni nella narrativa sotto forma di racconti e romanzi. Hai avvertito particolari differenze nell’approccio alla materia scritta rispetto alla saggistica? E quale delle due branche ti ha dato le maggiori soddisfazioni (anche a livello di riscontro presso i lettori)?

Ti ringrazio per i complimenti, ma è doveroso precisare: non mi sento, non sono un critico. Per rispetto dei critici veri, verso i quali nutro un’ammirazione profonda, preferisco ritenermi un recensore. Vale anche per la qualifica di “scrittore”: penso che lo sia solo chi si guadagna da vivere scrivendo, e - ahimé - non è assolutamente il mio caso. Detto questo, scrivere fiction (romanzi e racconti) è una disciplina assai diversa rispetto alla saggistica, anche se dal mio punto di vista è giusto conservare sempre un approccio narrativo. Del resto, non avendo una formazione accademica non potrei, neanche volendo, scrivere saggi con un taglio - appunto - accademico. Tanto per la monografia su PJ Harvey che per The Gloaming è stato fondamentale avere individuato una chiave narrativa prima ancora di iniziare a scrivere. In piccolo, è quello che cerco di fare anche con le recensioni: quando scrivo di un disco penso innanzitutto a dove mi ha portato, alle connessioni che ha innescato, solo dopo vengono gli aspetti musicali. Non sempre è facile, c’è il rischio di travisare, di metterci troppo di mio, ma quando colgo nel segno - in qualche caso è il musicista stesso che mi scrive per confermarlo - è una grande soddisfazione. La narrativa è chiaramente un altro sport, devi creare tu quello a cui giri intorno, ed è importante che abbia forza altrimenti puoi essere anche un martello degli dei come scrittore ma non riuscirai a rendere densa e sostanziosa l’emulsione. Credo che i miei due romanzi abbiano molte imperfezioni ma se non altro si sviluppino attorno a una buona idea centrale. Mi piacerebbe avere la possibilità di riscriverli ma non accadrà: che dire, la vita è breve. Con i racconti in qualche caso è andata meglio, ho ricevuto apprezzamenti anche da alcuni addetti ai lavori che mi hanno davvero gratificato. In ogni caso, a livello di pubblico i migliori riscontri sono arrivati dai saggi: non che abbiano venduto molto, ma dopo anni continuano ad arrivarmi messaggi da parte dei lettori. Quasi sempre privi di insulti, tra l’altro.   

Ho visto sui social che hai letto il famoso "Brave New World" di Aldous Huxley. Pensi che, senza cadere nel becero complottismo da bar sport, ci possa essere qualcuno che "ai massimi livelli" sicuramente non ha provocato ma che stia comunque "indirizzando" questa emergenza planetaria verso i propri interessi? Dobbiamo temere le conseguenze più che la pandemia stessa?

Sto cercando di colmare le lacune, anche perché il mio Nastri fu paragonato a tanti romanzi distopici che mi vergognavo molto di non avere letto, tra cui appunto Il mondo nuovo di Huxley. A breve leggerò anche Noi di Evgenij Zamjatin, Il tallone di Ferro di Jack London e L’uomo è forte di Corrado Alvaro: sono in attesa sulla mensola. Venendo all’emergenza pandemica, appunto in Nastri - uscito nel 2017 - parlavo di un’Europa colpita da un virus che mieteva milioni di vittime, anche se lo scopo era riflettere sul dopo, sulle forme di controllo, sull’inevitabile tendenza al complottismo, su come appunto controllo e complottismo sembrassero nutrirsi a vicenda, provocando ulteriori vittime sul versante delle libertà. Cosa dire del controllo: credo che il potere tenda sempre a servirsi ai massimi livelli dei mezzi e delle tecniche a disposizione, perciò in tempi di psicometria applicata alla politica - forse abbiamo dimenticato troppo in fretta il caso Cambridge Analytica - è persino ovvio che governi e grandi gruppi industriali mettano in campo tutta la loro potenza per gestire questa situazione con lo scopo di ridurre i danni o di trarne vantaggio (come la Storia insegna, anche nei conflitti più disastrosi c’è qualcuno che ci guadagna). Riguardo al complottismo, ho un’idea abbastanza triste: credo che nasca essenzialmente per l’incapacità di accettare in un evento quello che forse gli stessi complottisti intuiscono, ovvero la sua assoluta insensatezza. Interpretare l’attuale pandemia come un complotto criminale ordito da chissà quali “poteri forti” serve a ricondurla in un ambito umano, serve a strapparla alla sua indifferente e imponderabile dis-umanità, o alla sua disarmante, tragica naturalezza, se preferisci. La catastrofe che stiamo vivendo ci obbliga quindi a fare i conti sia con l’eccessivo controllo che con l’impossibilità del controllo: una combinazione letale. È comprensibile che questa situazione provochi la risposta schizofrenica da parte di molti. Si spiega così ad esempio l’ondeggiare (spesso opportunistico) tra invocazioni all'inasprimento delle misure di sicurezza e richieste di maggiori aperture da parte dello stesso individuo, figura istituzionale o soggetto politico nel giro di pochi giorni. Grande è la confusione sotto il cielo. Sono convinto che ne usciremo, ma dovremo fare i conti a lungo con le conseguenze.                 

Sempre in tema di narrativa, sei sembrato piuttosto silente in tempi recenti. C’è qualcosa di nuovo che bolle in pentola o sei effettivamente inattivo su questo fronte?

Di idee e ideuzze me ne vengono molte, ma nulla che mi abbia convinto abbastanza da spingermi all’impresa. Scrivere un libro - romanzo o saggio che sia - è bello ma, porca miseria, devi mollare tutto il resto. In questi mesi ho letto molto, ho davvero tanta voglia di leggere. Poi ovviamente scrivo, ho ripreso a occuparmi di recensioni con regolarità, c’è pure il mio blog - Pensierosecondario - a cui ormai mi sono affezionato e su cui pubblico uno o due post alla settimana. Ho partecipato a un paio di raccolte di racconti a tema, sto lavorando a un bellissimo progetto sempre di racconti ma è top secret. Di esclusivamente mio al momento non c’è niente all’orizzonte. Forse sono diventato più selettivo: non mi basta che un’idea sia interessante, deve arrivare, entrarmi dentro e rivoltarmi come un calzino. Se mi imbatterò in una roba del genere, non avrò altra scelta che mollare tutto e affrontare l’impresa. Cos’altro potrei fare?  

Cosa ti sentiresti di suggerire a un giovane che oggi decidesse di formare un gruppo rock, e a uno che viceversa volesse cimentarsi nella scrittura?

Molto banalmente: suonare e scrivere. Senza darsi tregua. Ma prima ancora leggere, ascoltare, vedere film, informarsi. L’autore deve essere prima di tutto un ascoltatore, un lettore, un cinefilo, un melomane eccetera. Deve essere curioso. Deve volersi innamorare di tutto, come diceva quel tale. 

Prima di chiudere Stefano inevitabile chiederti qualcosa sui tuoi ascolti e letture recenti. Tre libri e tre dischi che ti senti di suggerire ai nostri lettori e che ti hanno emozionato.

Nell’ambito della narrativa in tempi recenti ho letto poche nuove uscite, mi sono orientato con decisione sui classici. Avevo sempre evitato Hemingway, per chissà quale meccanismo mentale, ma dopo Addio alle armi credo che lo leggerò tutto: è asciutto, spietato, chirurgico, eppure dotato di una sensibilità straordinariamente crepuscolare. Di Pasolini finora avevo letto le raccolte di articoli, mai nessun romanzo: Ragazzi di vita mi ha colpito al cuore, è struggente e crudele, pietoso nel senso più laico possibile. Cerco di alternare i romanzi ai saggi, spesso di argomento musicale, in questo caso escono in continuazione volumi molto intriganti. Tra questi, la raccolta di monografie di un grande critico come Ian Penman mi ha dato grandi soddisfazioni, con la sua ironia e la lucidità sferzante. Quindi, ecco i tre titoli:

Ernest Hemingway - Addio alle armi

P.P. Pasolini - Ragazzi di vita

Ian Penman - Mi porta a casa, questa curva strada 


Quanto agli ascolti, mi è sembrato molto valido il ritorno degli Arab Strap, col quale dopo tanti anni dimostrano di essere ancora loro ma decisamente in linea coi tempi, così come il nuovo di Amerigo Verardi - psych e onirico come al solito, forse mai tanto ispirato - e l’esordio dei torinesi Smile sotto il segno dei R.E.M. carburati a Replacements. I titoli:

Arab Strap - As Days Get Dark

Amerigo Verardi - Un sogno di Maila

Smile - The Name Of This Band Is SMile

Grazie ancora per la tua attenzione e ricordiamo tutti i contatti per interagire con te e leggerti.

Chi vuole può trovare le mie recensioni su https://www.sentireascoltare.com/ e tutto il resto (sproloqui su musica, letture, cinema, varie ed eventuali) su https://pensierosecondario.wordpress.com/
Grazie a te, è stato un vero piacere. Come sempre. 


Nessun commento:

Posta un commento