A vent'anni da "Bahamas" tornano i Ritmo Tribale con il nuovo album "La rivoluzione del giorno prima". Ne abbiamo parlato con il cantante-chitarrista Andrea Scaglia.
Un ipotetico ascoltatore dei Ritmo Tribale va in letargo a fine maggio 1999, all’indomani della pubblicazione di “Bahamas”, e si risveglia nell’aprile 2020, in concomitanza dell’uscita di “La rivoluzione del giorno prima”. Cosa gli possiamo raccontare per riassumergli a grandi linee quanto accaduto nell’universo tribale in questi 21 anni?
Abbiamo vissuto. Siamo arrivati a fine anni Novanta intimamente esausti, il progetto Ritmo Tribale aveva detto quel che doveva, “Bahamas” è stato l’album – come dire – che ha chiuso il cerchio, lo si sente, profondo e compiuto. Poi ognuno ha cercato di domare i suoi mostri e di mettersi a posto, ce n’era bisogno. Sono nate famiglie, figli, lavori nuovi. Anche se, in realtà, fra di noi siamo sempre rimasti in costante contatto. Io sono amico degli altri Tribali, i Tribali sono i miei amici. E comunque la musica non se n’è mai andata del tutto.
Nei lanci promozionali, al titolo del nuovo disco viene data una chiave di lettura autoironica e senza rimpianti di un percorso che vi ha portato a NON fare quella rivoluzione che a un certo punto sembrava quasi a portata di mano. Questa consapevolezza di cui parlate oggi è maturata con gli anni o già ai tempi iniziavate a rendervene conto?
Mah, di certo all’epoca eravamo troppo occupati a vivere giorno per giorno, e soprattutto notte per notte, per riflettere sul quel che ci stava accadendo. E’ una cosa che si può dire ora: siamo quelli degli anni Novanta, quelli che dovevano fare la rivoluzione ma gli è scappata l’ora, impegnati com’eravamo a specchiarci e a distruggerci. Ma niente nostalgie, non le sopporto. Solo una presa d’atto. E l’autoironia anche feroce, per quanto ci riguarda, non manca mai.
Il disco è introdotto da un frammento estrapolato da “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, un film che resta rilevante anche a cinquant’anni dalla sua uscita nelle sale. Similmente, alcuni vostri album come “Mantra” o “Kriminale” vengono considerati pietre miliari del rock italiano. Credete che anche “La rivoluzione del giorno prima” riuscirà a prescindere dall’epoca attuale, superando la prova del tempo e affermandosi al pari dei lavori degli anni Ottanta e Novanta che tuttora sono ricordati?
“Indagine” per me, per noi, è davvero una pietra miliare, una riflessione sull’arroganza del potere che resta attuale, come tutti i classici. Per quanto riguarda quest’ultimo album, sappiamo bene che il rock non è più la musica che interpreta il sentire delle nuove generazioni. Ma è il nostro alfabeto, il suono che abbiamo dentro, e di cose da dire riteniamo di averne ancora parecchie, anime in pena che siamo. Dunque, non so in che termini l’album si affermerà, in realtà nemmeno m’interessa granché. Dovevamo dire queste cose, l’abbiamo fatto: se piace bene, se non piace bene lo stesso, piace a noi.
Musicalmente parlando, come si pone “La rivoluzione del giorno prima” all’interno della vostra discografia? Credete rappresenti un elemento di coerenza o di rottura nel vostro percorso, vedete affinità o divergenze col tale disco o con il talaltro…
Anche qui, non vuol essere una posa, ma è difficile per noi riuscire a definirlo con tanta esattezza, certe cose si giudicano meglio da fuori. Diciamo che era un attimo, questo, che andava fissato, noi che torniamo a suonare regolarmente dopo tanto tempo, prima dal vivo, poi in studio per un pezzo, e poi il secondo, e poi via via gli altri. Poi è ovvio, ogni album è figlio di quel determinato momento. Diciamo allora che lo si può in qualche modo paragonare a “Bocca chiusa”, il primissimo: l’abbiamo fatto perché ci scappava, senza sapere che cosa accadrà dopo.
Si narra che “Bahamas” sia stato concepito in un casolare di campagna sperso nel nulla. Come/dove/quando è nato “La rivoluzione del giorno prima”? Il fatto che alcune canzoni siano state pubblicate già nel 2018 e ’19 potrebbe far pensare che le sessioni di registrazione siano state molteplici. È effettivamente così?
Come ti ho detto, questo album non è il risultato di un progetto programmato. Vero, per realizzare “Bahamas” ci siamo chiusi in un casolare molto malmesso ma affascinante, ci siamo chiusi lì dentro per suonare e arrivare alla fine. In questo caso direi che è stato il contrario: un passo dopo l’altro, una registrazione dopo l’altra. Anche se, in effetti, l’ultima parte dell’album è stata registrata insieme, di getto, in un’unica soluzione pochi mesi fa. Abbiamo finito poco prima di ‘sto stramaledetto lockdown.
Parlando invece del processo creativo, le nuove canzoni abbracciano uno spettro sonoro piuttosto variegato, pur mantenendosi nelle coordinate di un rock guidato da chitarre distorte e ritmiche energiche. Come nascono e si sviluppano le composizioni dei Ritmo Tribale?
Guarda, in realtà nella fase compositiva sono io con me stesso, piuttosto solitario, mi chiudo in camera di notte e suono e scrivo e registro dei provini, che poi faccio sentire agli altri già piuttosto strutturati. Però, quando poi i brani vengono suonati tutti insieme, ognuno ci mette il suo e prendono vita, sostanza. A volte anche un nuovo volto. Questo è il bello di un gruppo.
Facciamo un giochino ispirato al film “Sliding doors”, che in parte si può ricollegare al discorso sul titolo del disco. Vi sono stati degli eventi nella vostra storia di fronte ai quali avete preso decisioni dove vi siete poi pentiti di non aver agito altrimenti, o viceversa?
No, direi di no. Non è presunzione, solo che proprio non mi viene di lamentarmi per quel che poteva essere e non è stato, lo canto anche nel primo pezzo di questo album, “Le cose succedono”. Certo, posso dire che ai tempi eravamo molto convinti di noi stessi, piuttosto chiusi a eventuali suggerimenti che ci venivano anche da persone che ci volevano bene. Un atteggiamento che, in effetti, poteva sembrare anche presuntuoso. Abbiamo mandato a quel paese più o meno tutti, nell’ambiente. Ci siamo voluti andare a schiantare da soli.
Avete la possibilità di stampare solo due biglietti da visita per presentare “La rivoluzione del giorno prima”: la canzone più rappresentativa e il testo più significativo.
Azz, me lo chiedi ora, nel momento in cui ovviamente all’album voglio bene dall’inizio alla fine. Già lo sai, ogni scarrafone… Comunque. Per quanto riguarda la canzone, credo che “Autunno” si avventuri in territori sonori per noi stimolanti: un po’ cantautorali, un finale quasi dub, tutto miscelato insieme. Per i testi, ecco, facciamo che ti cito delle frasi che secondo me illustrano bene quel che volevo dire, lo spirito complessivo. Nella “Rivoluzione del giorno prima” dico “Non mi ricordo cosa ho promesso ma sono sicuro che non manterrò”: ecco, vuole proprio dare il senso di chi, come noi, ha questa maledizione di qualcosa che brucia dentro, e che cambia di momento in momento, e quindi non pretendere da me linearità di comportamento, che non è possibile. E poi, due frasi di “Cortina”: “Un uomo in gabbia che si pettina”, e “Se l’anima brucia basta un’aspirina, a Cortina”, dove Cortina è il nostro bel mondo, e non solo in senso generale, anche la nostra piccola isola autoreferenziale – la famiglia, la casa, il matrimonio, le “responsabilità” - in cui ci siamo autoreclusi. E che non riusciamo né a cambiare né ad abbandonare, nemmeno se lo desideriamo. Meglio prendere un’aspirina e far finta che il malessere passi…In realtà, il tema centrale attorno a cui ruotano tutti i testi è proprio il desiderio e l’eterna insoddisfazione e la conseguente ricerca di chissà che cosa, che a 50 anni – al contrario di quel che si crede – non si placa affatto, anche se soddisfarla pare ormai impossibile. “Voglio i capelli di Jim Jarmusch”: e non è per dire, ma io sono pelato…
“La rivoluzione del giorno prima” vede la luce in tutti i formati possibili e immaginabili (cd, vinile, download, streaming). Qual è il vostro approccio alle varie modalità di fruizione musicale tanto da musicisti quanto da ascoltatori e che idea vi siete fatti del modus operandi con cui l’industria musicale nel suo complesso sta affrontando gli inesorabili cambiamenti favoriti dalle tecnologie e quant’altro?
Per quanto riguarda la fruizione, io sono sempre stato un po’ estemporaneo. Ora la cosa più facile è ascoltarla sul telefono, che c’hai sempre dietro, e così faccio. Altri di noi, tipo Alex (il batterista) e Briegel (il bassista), sono invece degli appassionati audiofili, hanno non so quanti vinili e cd, li collezionano. A me sin da ragazzino mi chiamano “il solcatore”: mi prestavano i dischi e io, immancabilmente, li restituivo rigati e rovinati. No, diciamo che ascolto la musica dove la trovo.
Ci sono degli input extramusicali particolarmente ricorrenti che finiscono per influenzare la musica dei Ritmo Tribale (altre forme d’arte, vita quotidiana/lavorativa, religione, politica…)?
Mah, non saprei: c’influenza quel che ci accade tutti i giorni. E ti assicuro che di materiale ne fornisce parecchio… Tranquilli no, in particolare io e Fabri (Rioda, il chitarrista) non lo siamo mai stati.
All’incirca a metà strada tra “Bahamas” e “La rivoluzione del giorno prima”, alcuni componenti dei Ritmo Tribale hanno dato vita ai Noguru. C’è qualcosa che vi portate dietro da quell’esperienza e/o qualcosa che invece preferite lasciarvi alle spalle?
E’ stato un progetto esaltante, davvero. Io, Alex e Briegel, e sul disco ha suonato pure Talia, insieme a due musicisti del calibro di Xabier Iriondo degli Afterhours (che però è quasi riduttivo, viste le decine di progetti di cui è protagonista) e Bruno Romani, sassofonista e jazzista e componente di una band seminale come furono i Detonazione. Ci portiamo dietro tanto, soprattutto una nuova apertura mentale. In molti mi hanno detto che in questo disco dei Ritmo ci sentono anche qualcosa dei Noguru.
In anni recenti, avete collaborato in veste di “gruppo di accompagnamento” con alcuni vecchi amici come Graziano Romani e Pino Scotto. Invertendo i ruoli, quali artisti riterreste adatti o meritevoli di far parte di un ipotetico tributo ai Ritmo Tribale?
Ah bè, questo davvero non saprei. Diciamo che, vista l’attitudine che ritrovo piuttosto simile, mi piacerebbe che un pezzo dei Ritmo fosse suonato dai Ministri.
In Italia il rock non gode al momento di una salute particolarmente buona. Tolti pochi nomi che riescono a fare discreti numeri, spesso i concerti sono sparute adunate di vecchi nostalgici e non vi è ricambio generazionale sul palco e soprattutto sotto di esso. Siete d’accordo con questa visione e, se sì, avete qualche preoccupazione al riguardo o tirate dritti per la vostra strada?
Bè, la tua, più che una visione, è proprio cronaca. L’ho già detto prima: il rock non è più la forma musicale che interpreta il sentire dei più giovani. Ma, e anche questo l’ho già detto, ognuno ha il suo alfabeto, il suo modo di esprimere quel che sente. Non è che “decidiamo” di tirare dritti per la nostra strada: è quello che siamo. Poi certo, a me piace ascoltare altre cose, contaminarmi. Ma resto io, un cinquantenne che ne ha vissute di ogni e suona la chitarra e canta con la voce roca e a volte, per fare un po’ il moderno, si appassiona al synth e alla drum machine. Ma sempre con la mia attitudine. Non c’è verso.
Intervistata di recente, la campionessa di nuoto Federica Pellegrini ha dichiarato in merito alle Olimpiadi di Tokyo inizialmente in calendario quest’estate e prima posticipate al 2021 e adesso a rischio di cancellazione definitiva, che il rinvio di un anno le avrebbe permesso di gareggiare comunque, mentre in caso contrario avrebbe meditato di ritirarsi dalle competizioni. Posto che i rocker hanno un’aspettativa di carriera ben più lunga rispetto ai nuotatori, come state vivendo questa situazione che vede il mondo della musica dal vivo, già non particolarmente florido per quanto riguarda i piccoli club (che potremmo considerare il vostro habitat naturale), tra le principali vittime delle conseguenze dovute alla pandemia?
Ecco, questo è davvero un disastro. Per tutto il settore: i locali, i gruppi, le persone che lavorano ai live act. C’è questa mentalità assurda, troppo diffusa, in base alla quale lamentarsi del fatto che concerti – ma anche rappresentazioni teatrali, set cinematografici e quant’altro . non possono più tenersi, è qualcosa di superficiale, tipo «eh, adesso dobbiamo preoccuparci perché Tiziano Ferro e Jovanotti non suonano più…». E’ una visione davvero arida, provinciale. E poi cazzo, aspettiamo vent’anni a far uscire un album, e quando succede scoppia la più grave epidemia da cent’anni a questa parte. Speravamo di farci l’estate in giro a suonare, inevce niente… Sarà un segno? Sfiga sfiga sfiga.
L’uscita del disco avrebbe dovuto coincidere con un concerto di presentazione al Legend di Milano il 18 aprile e, presumibilmente, a ulteriori appuntamenti live. Che tipo di spettacolo stavate preparando? Una scaletta con ampio spazio ai nuovi brani, un “greatest hits”, qualche ripescaggio di pezzi eseguiti raramente o che altro?
A noi non piace, non è mai piaciuto fare la cover band di noi stessi. Dunque, prima di tutto i brani nuovi, e magari anche qualche inedito. E poi certo, anche i nostri classici, ovviamente. In ogni caso, una festa fra noi e il pubblico, com’è sempre stato.
In quanto gruppo con una lunga carriera, sentite qualche particolare responsabilità nei confronti di chi vi segue e, in caso affermativo, come si riflette sull’attività dei Ritmo Tribale (nella musica, nei concerti, nelle pubbliche relazioni/social…)?
No, responsabilità no: già facciamo fatica a tener dietro a quelle nostre personali… Certo, l’entusiasmo e le manifestazioni di affetto che sono emerse dopo quest’uscita ci hanno emozionato. Ecco, quando ti rendi conto di essere stato parte, con la tua musica, della vita di qualcuno che non conosci personalmente, di avere accompagnato le sue gioie e le sue delusioni, di essere stato per periodi più o meno lunghi la sua colonna sonora, bé, è impressionante. Emozionante, appunto. L’altra volta ho letto il commento di un ex ragazzo che, riferito a noi, ci definiva “la colonna sonora della mia adolescenza”. Non so, ti lascia la piacevole impressione di aver fatto qualcosa, qualcosa con un senso.
“La rivoluzione del giorno prima” include diverse cover “italianizzate” di canzoni anglofone. Come nasce questa fascinazione, specie per un gruppo che sin dagli esordi si è caratterizzato nel proporre per lo più pezzi autografi?
E’ un mio divertimento. Io con l’inglese cerco di arrangiarmi ma insomma, non è che la mia pronuncia sia impeccabile, anzi… Allora mi è sembrata una sfida divertente quella di italianizzare brani di artisti che fanno parte del mio - come si dice? – del mio bagaglio personale. E poi, così posso anche farle dal vivo, ‘ste canzoni, sembra esibire il mio inglese maccheronico.
Siete stati protagonisti di un libro biografico, “Uomini”, scritto da Elisa Russo per Odoya nel 2014. “La rivoluzione del giorno prima” rappresenta senz’altro un nuovo capitolo della storia dei Ritmo Tribale. Quali sono le vostre aspettative per lo sviluppo di questo e magari dei successivi capitoli del “libro”? Al netto dei problemi legati al virus, avete già dei progetti per il futuro o vivete alla giornata?
Alla giornata, sempre. E comunque. Come diciamo sempre, citando i Galli di Asterix: l’unica cosa che ci fa paura è che il cielo ci cada sulla testa. Per il resto, pura vida, e vediamo quel che succede. Tu lo sai?
Intervista a cura di Maurizio Castagna (con qualche piccolo contributo esterno)
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