UN CAZZOTTO MORTALE DI METALLO PESANTE
“Mega Death Punch Tour”: un concerto itinerante che sin dalla sua annunciazione portava seco concreti rischi di impraticabilità. I Five Finger Death Punch (da qui in avanti 5FDP), numero principale del carrozzone, non sono esattamente gli U2 a livello di stabilità di formazione. L’ultima defezione precedente all’abbrivio del tour era stata quella del batterista e cofondatore Jeremy Spencer, prima arruolatosi in polizia e in seguito tuffatosi più saggiamente nel mondo dei video a luci rosse. A inizio mese, col giro di concerti europei già avviato, è stato invece il chitarrista Jason Hook a dare forfait e rimpatriare negli States, rimpiazzato al volo da tale Andy James.
A tutto ciò si aggiunga la perenne Spada di Damocle del frontman Ivan Moody, i cui eccessi alcolici hanno causato problemi a non finire al gruppo di Las Vegas, tra risse sul palco con i colleghi, dimissioni rassegnate durante i concerti (poi sempre rientrate), performance poco edificanti, arresti e chi più ne ha più ne metta. E qui c’è chi si lamenta di Morgan… Sul fronte del gruppo di supporto, un Dave Mustaine alle prese con un tumore alla gola non era certo il più rassicurante dei gregari, seppur di extralusso. Cinquantuno sedute di radio e undici di chemioterapia più tardi, il già chitarrista dei Metallica si è rimesso in pista dopo il semaforo verde dei medici che lo hanno dichiarato guarito dal cancro.
Esaurito da qualche settimana, l’Alcatraz di Milano il pomeriggio del 16 febbraio, la classica tiepida domenica invernale tipica del settentrione tricolore, è massicciamente circondato dai metallari in coda per entrare nel noto locale di Via Valtellina. È bene precisare che l’assembramento non consegue soltanto dall’imponente afflusso di pubblico. In Italia infatti vige la pessima abitudine di stabilire orari troppo ravvicinati tra apertura porte e inizio spettacoli. Spesso e volentieri, inoltre, detta apertura viene ritardata, il che crea immancabili disagi e il rischio di perdere parte dell’evento per il quale è stato pagato un biglietto oneroso. Alle diciotto e cinquanta, venti minuti dopo che chi scrive è infine riuscito ad accedere alla zona a ridosso del palco, quello principale in fondo alla sala e non quello laterale, impiegato in occasione di concerti meno gremiti, è tempo di Bad Wolves. Il gruppo californiano orbita intorno agli headliner, giacché il chitarrista dei 5FDP è il loro manager.
Conflitti d’interessi a parte, il quintetto si produce in un robusto alternative metal sulla scia delle produzioni nordamericane a cavallo tra Novanta e Duemila quali Staind e primi Nickelback, con schemi compositivi piuttosto lineari che prevedono l’alternanza di parti irruente a ritornelli melodici e breakdown alla Linkin Park. In coda ai trentacinque minuti loro concessi, la cover “maledetta” di “Zombie” dei Cranberries, prevista in origine sottoforma di duetto con Dolores O’Riordan, la cantante del gruppo irlandese che morì poco prima di incidere la sua parte vocale. A livello musicale, è una riproposizione abbastanza didascalica, vivacizzata dall’incursione in mezzo alla platea del frontman Tommy Vext, uno dei vari supplenti di Moody nel suo lungo curriculum di assenze dai 5FDP. Alle venti spaccate, nerovestiti, i Megadeth scaricano l’abituale “Hangar 18” sull’Alcatraz. La risposta del pubblico, che come ovvio presenzia per lo più in ottica 5FDP, è positiva e calorosa e si potrebbe dire che i ’deth ottengono un buon pareggino in trasferta. Il thrash chirurgico messo a punto da Mustaine nella fertile Bay Area degli anni Ottanta è una brusca digressione dalla comfort zone sonora in cui probabilmente si culla buona parte dei presenti, ma non per questo manca di smuovere qualche testa e qualche sporadico moshpit.
Il quartetto ormai cosmopolita, completato dal sempiterno bassista David Ellefson, dal virtuoso chitarrista brasiliano Kiko Loureiro (che bontà sua sembra non invecchiare mai) e dal batterista belga Dirk Verbeuren, tiene il palco per un’ora scarsa, mescolando brani recenti a classici del calibro di “Symphony of destruction” e “Peace sells”. Su quest’ultima, come da copione, appare Vic, l’orrorifica mascotte della band. Mustaine, che rientra per il bis applaudendosi da solo alla maniera del presidente USA Donald J. Trump, pur indebolito dalla malattia non dà grossi segnali di cedimento, anzi è più o meno lo stesso di sempre. Mostra un pizzico di commozione solo quando racconta del momento in cui ha appreso la diagnosi e della conseguente determinazione a non mollare.
Certo, canta a malapena, un fioco rantolo che è quasi un fruscio intermittente tra le trame strumentali, ma è così da anni, non a cagione dei problemi di salute. Alle ventuno e trenta la tavola è apparecchiata per il piatto forte. Uno stuolo di fan molto giovani, alcuni con l’effigie della mano rossa simbolo dei 5FDP dipinta in volto, si prepara ad accogliere i propri beniamini. Il sollievo è evidente nel trovare sul proscenio un Moody in buona forma, che canta e tiene le redini dello show tra cambi di casacca e incitamenti alla folla. Che ricambia con entusiasmo, anche con un coro a lui dedicato, peraltro pronunciando mestamente il suo nome all’italiana anziché all’inglese. La sincera speranza è che questo sconfortante episodio non faccia ripiombare l’artista nel tunnel del bere. Per circa novanta minuti i 5FDP mostrano le varie sfaccettature del loro metal, che pesca tanto dall’ondata “nu” quanto dalle sonorità più tradizionali degli anni Ottanta (un po’ come fatto dagli Avenged Sevenfold), con assoli di chitarra in primo piano, senza tralasciare l’impronta prettamente a stelle e strisce in bilico tra post grunge e metalcore, nonché le power ballad che rappresentano un frangente non trascurabile dello spettro sonico del gruppo. Non a caso, verso la metà del set regolare viene aperto un capitolo acustico, con una scenografia che rimanda a una situazione intima, ove Moody in camicia da notte e il chitarrista Zoltan Bathory (fondatore e colonna portante del progetto) sono stravaccati su un divano, illuminati da un abatjour. Tra giochi di luce, con laser proiettati perpendicolarmente sopra le teste degli astanti a mo’ di stendipanni, piogge di coriandoli e di banconote personalizzate, a spiccare resta la musica, che in un arco di tempo relativamente breve non concede cali di tensione e attinge a una discografia già corposa, incamerata in tre lustri di carriera e prossima a essere rimpolpata da “F8”, in uscita il 28 e anticipato da una manciata di singoli, uno dei quali, “Inside out”, è il primo pezzo proposto nel bis, che si chiude con “The bleeding”, brano trainante del disco d’esordio “The way of the fist”; un cazzotto che debuttava nel 2007 e che continua a infliggere colpi mortiferi, talvolta, come in questo tour azzardato ma vincente, in combutta con illustri “padrini” del metallo pesante.
Testo di Ljubo Ungherelli
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