A inizio anni Novanta, nel picco della breve epoca aurea del rock alternativo, Andy J. Cairns e Michael McKeegan si recano in visita presso una band di amici e colleghi che tiene un concerto dalle loro parti. Chiacchierando nel backstage a fine serata, costoro, a propria volta sottocontratto con una major, non fanno che lamentarsi dei disagi e del tedio della vita on the road.
Tornando verso casa, i due giovani musicisti nordirlandesi stringono un patto: quando dovessero ritrovarsi a fare discorsi di quel genere, interromperanno immediatamente le attività. Il 2020 sarà il trentesimo anno di carriera per i Therapy? Con la ricorrenza alle porte, Cairns e McKeegan sembrano tutto fuorché prossimi a tirare i proverbiali remi in barca. Assaporata la gloria mainstream nel biennio 1994–1995 grazie al successo di “Troublegum” e “Infernal love” (e relativi tour mondiali), i due hanno proseguito imperterriti e incuranti dell’avvicendarsi delle mode musicali e dei batteristi alle loro spalle, dei contratti di edizione sempre meno remunerativi e degli slot non proprio di prestigio nei grossi festival estivi. Produzioni discografiche e tournée a nome Therapy? si sono susseguite senza soluzione di continuità per l’intera durata degli anni Zero e Dieci, e anche l’Italia li ha visti spesso e volentieri.
Almeno fino al 2012, quando il non proprio formidabile (a esser buoni…) “A brief crack of light” fu presentato nel corso di tre concerti, tra cui quello al Rock Planet di Pinarella di Cervia, testificato da chi scrive. Da lì in avanti, lo zoccolo duro dei fan tricolori dei T? è rimasto a bocca asciutta, regolarmente ignorato nei vari giri effettuati in lungo e in largo per l’Europa.
La recente pubblicazione di “Cleave”, solido lavoro di mestiere con qualche sprazzo dell’antica classe, crea finalmente l’occasione per un paio di date italiane, la prima delle quali ha luogo il 4 febbraio 2019 al Serraglio, locale milanese assai ben congegnato per la musica live, che a dispetto di una sala non enorme offre un palco e soprattutto un impianto audio di prima fascia. Oltre a un lodevole rispetto della tabella oraria preannunciata; in un paese normale non vi sarebbe bisogno di annotarlo, mentre in Italia tocca rilevare l’eccezione virtuosa che conferma la regola cialtronesca. Alle ventuno e dieci di un lunedì fuori dall’ordinario sono gli Shame a entrare in scena. Il quartetto, già in azione la scorsa estate a Padova nel ruolo di supporter di un altro peso massimo del rock moderno di nome Alice in Chains, propone per circa quaranta minuti la classica personificazione del gruppo italiano che si rifà alle sonorità hard rock, grunge, stoner e dintorni di fine Ottanta–primi Novanta.
Ad ogni modo, convincenti nell’esecuzione e sufficientemente credibili. Il cambio palco disvela la “scenografia”, limitata a un backdrop nero con la ragione sociale e l’effigie del “Gemil”, l’amorfa mascotte del gruppo, che nel 2019 è un trio completato dal batterista Neil Cooper, in organico dal 2003. Sul palco, in disparte, anche il roadie Big Stevie Firth, da anni quarto elemento in veste di backup vocale e chitarristico. Alle ventidue e venti i convenuti al Serraglio hanno modo di vedere o rivedere una rock band che ha fatto della maestria in sede concertistica il proprio marchio di fabbrica. Dei Ramones, o Motörhead in scala ridotta, insomma. Un’armata che non fa prigionieri per i cento minuti durante i quali domina la scena. Senz’altro, la capacità di Andy Cairns di scrivere canzoni memorabili aiuta nel costruire un set che poco ha da invidiare a più blasonati coevi (Pearl Jam, Foo Fighters, Radiohead…) che riempiono spazi ben più capienti del pur grazioso club meneghino. A livello d’intensità psicofisica, il concerto dei Therapy? è un esame non semplice da affrontare: rasoiate di chitarre elettriche, groove ritmici ossessivi, melodie coinvolgenti. Il tutto, compresso in canzoni per lo più brevi, impregnate di cupezza post punk e alternative metal così come di contagiosi ritornelli power pop.
Una musica suonata da un gruppo di professionisti del settore che sa il fatto proprio quando si tratta di mettere a ferro e fuoco una sala da concerti. A conferma di ciò, ad aggirarsi instancabile per il palco è una sorta di satanico quanto gioioso istruttore di aerobica con basso a tracolla: il quarantottenne “sacerdote del male” McKeegan interpreta il suo ruolo come una Duracell con adrenalina a mille, tra salti, piroette e numeri da circo con lo strumento al quale fa assumere pose coreografiche, senza mai rinunciare al sorriso costantemente stampato in volto. E all’elogio che puntualmente riserva agli spettatori: “Fan–fuckin–tastic!” Sulla destra, meno estroso ma con presenza scenica altrettanto magnetica, il cinquantatreenne Cairns, in ottima forma e ormai ripulito dagli abusi di alcol e droga sostenuti in gioventù, grida nel microfono parole che sono autentici inni generazionali.
Il primo di questi momenti di estasi collettiva arriva sulle note di “Die laughing”, terzo brano in scaletta che inizia a surriscaldare l’ambiente dopo l’attacco di “Wreck it like Beckett” e “Expelled”, nuove composizioni che rivisitano con efficacia, per quanto un po’ col pilota automatico, i solchi vinilici che resero grandi i Therapy? La scelta dei pezzi da eseguire dal vivo è dunque una rigorosa dicotomia: vengono proposte esclusivamente canzoni degli anni Novanta, oltre a una corposa sezione dedicata a “Cleave”. I singoli “Kakistocracy” e “Callow” sono senz’altro degni di trovare spazio accanto ai cavalli di battaglia della band dell’Ulster.
A farla da padrone, ça va sans dire, “Troublegum”, irresistibile raccolta di gemme musicali che dopo un quarto di secolo non ne vuol sapere di stancare. Ad esempio, l’inquietante “Turn” e la disperata “Trigger inside”. “So come si sente Jeffrey Dahmer”, spergiura Cairns in contrapposizione alla ragazza dai denti perfetti che di sicuro non gli sorriderà. I diffusori echeggiano anche quattro estratti da “Infernal love” e due a testa dal debutto “Nurse” e persino dallo sfortunato “Semi–detached”, ultimo lavoro su major, tassativamente da rivalutare. L’eccelso e amplissimo canzoniere di Cairns consente pure di attingere a soluzioni meno scontate: “We sold our souls to the man!”, ringhia il frontman a guisa di proclama introduttivo di “Opal Mantra”, vecchio singolo che è un piacere ascoltare live. Non mancano neppure le cover “istituzionali”: “Isolation” dei Joy Division e “Diane” degli Hüsker Dü, che dopo la morte del suo autore Grant Hart viene rivisitata similmente alla versione originale di “Metal circus”, piuttosto differente rispetto alla lugubre ballata scandita dal violoncello elettrico che Cairns e soci reinterpretarono nel 1995.
Per il resto: “Troublegum”, sempre “Troublegum”, fortissimamente “Troublegum”… Inutile sottolineare come l’eccitazione degli astanti si fomenti al solo evocare il disco in questione. Non a caso, novello imbonitore, il cantante e chitarrista aizza a più riprese il pubblico, presentando la tal canzone come proveniente “da un album chiamato ‘Troublegum’”. “Con una faccia così non farò breccia in nessun cuore”: “Screamager” esplode sin dalla prima strofa in un inarrestabile crescendo di rabbia e voglia di rivalsa, mentre lo scintillante power pop malinconico di “Stop it you’re killing me” chiude il set regolare. Poco prima, una lunga e sfaccettata versione di “Potato junkie”, il cui break centrale presta il fianco a un inconcludente assolo di batteria di Mr. Neil Cooper nel giorno del suo compleanno (costui peraltro compie gli anni quasi a ogni concerto: una pantomima francamente stucchevole) e un sentito tributo alla memoria del piccolo grande uomo del punk inglese Pete Shelley con una buona metà di “Ever fallen in love” dei Buzzcocks implementata per l’occasione. Ovvio però che il clou dell’esecuzione di “Potato junkie” resta il coro, leggendario, che l’intero Serraglio intona a pieni polmoni: “James Joyce is fucking my sister!” Il bis è un flusso ininterrotto di emozioni che mettono a durissima prova chi è cresciuto con questa musica e ne è rimasto indelebilmente segnato. Il concerto riparte dove si era fermato: “Troublegum”, con la plumbea “Unbeliever”, il cui assolo su disco era suonato da Page Hamilton degli Helmet. “Benvenuti nella chiesa del rumore!”, è il contagioso ritornello della susseguente “Church of noise”, che torna meritatamente in scaletta dopo lunga assenza. Gli argini stanno cedendo, la piena è inarrestabile e va tracimando di pari passo con “Bad mother”, gioiello presente su “Infernal love”, album che a stretto giro tornerà a erompere sottoforma di “Stories”: “Happy people have no stories”, ripete McKeegan nel celeberrimo refrain. L’area adiacente al palco è ormai una tonnara di attempati fautori del moshpit, che non attendono se non l’attacco iniziale dell’ennesimo pezzo storico per scalmanarsi com’era prassi un tempo. Il siparietto, anch’esso consolidato, della cover di parte di “Breaking the law” dei Judas Priest, precede la canzone più rappresentativa dei Therapy?: “Nowhere”, manifesto di una giovinezza allo sbando, destinata a perdere e perdersi tra alcol, droghe, rimpianti e disillusione. Quelle semplici due parole (“Going nowhere”) rimbombano con l’impeto di un martello pneumatico, amplificate dal rock’n’roll al cardiopalmo suonato della band e dall’entusiasmo dei fan. E quando sembra che il climax sia stato raggiunto, senza troppe cerimonie l’ineffabile Cairns, sardonico nel suo look total black che non si risparmia neppure una cresta da moicano, guida l’assalto conclusivo, armato di coltelli e sostanze allucinogene. “La mia ragazza dice che ho bisogno d’aiuto, il mio ragazzo dice che sarebbe meglio che fossi morto”, sibila nella strofa iniziale di “Knives”, i due minuti di paranoia e delirio che rappresentavano il perfetto biglietto da visita di “Troublegum”. Interpellato su cosa fosse per lui il successo, Leonard Cohen rispose con una frase divenuta il titolo di un brano di “Cleave”: “Success? Success is survival” pare essere il motto dei Therapy? di oggi, tant’è che sigilla il concerto di un gruppo che ha superato inenarrabili traversie e non cessa di regalare gioie a chi è rimasto fedele nei secoli al culto di questa “Chiesa del rumore”, nella buona e nella cattiva sorte.
Testo, foto e video di Ljubo Ungherelli
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