Entriamo nel locale che c’è ancora poca gente. Trascorre qualche minuto e vediamo arrivare un tizio tutto infagottato, in là con gli anni, un improbabile berretto verde di lana calato in testa e in generale l’aria del classico senzatetto a cui mancano parecchie rotelle. Un “badass from South Saint Paul”, com’era uso autodefinirsi, provato da una vita difficile, troncata il 13 settembre 2017 all’età di cinquantasei anni. Fino all’ultimo, ha continuato a esibirsi in giro per mondo, spostandosi in treno attraverso i cinque continenti, sprovvisto di computer e finanche telefono cellulare (almeno così narra l’epica, peraltro da lui stesso foraggiata), concedendosi volentieri all’affetto di un pubblico non certo oceanico ma profondamente riconoscente per essere stato toccato dalla Musica di Grant Hart.
Affrontando l’hardcore e il power pop col piglio di un novello Bob Dylan, liricamente a metà tra lo storytelling e il nonsense, amministrando i pedali della batteria a piedi scalzi e gridando nel microfono, che si trattasse di fare i cori o di essere la voce principale, Hart ha attraversato quarant’anni di storia della musica con la discontinuità e la sregolatezza di ogni Genio che si rispetti, però cercando sempre di reinventarsi e di guardare avanti, benché fosse depositario di un canzoniere che avrebbe potuto farlo campare di rendita (artistica) senza doversi dannare più di tanto per inserire nelle scalette dei concerti composizioni inedite. E, parlando più spietatamente, benché fosse consapevole di avere i giorni contati.
Quel signore apparentemente un po’ svitato di cui si diceva all’inizio, potrebbe comparire in un remake del film di Virzì “My name is Tanino”, quando il protagonista incontra il suo idolo Chinaski, ormai derelitto. Senz’altro meno estremo in tal senso, e comunque lontano anni luce dallo stereotipo della fulgida icona del rock underground che Grant Hart impersona con pieno merito, l’uomo in questione canta, suona la chitarra, concede udienza ai fan prima e dopo il concerto, si accomoda al banchetto merchandise per vendere i suoi stessi cd. Un’umanità finanche esasperata, un’etica del “do it yourself” forse anche obbligata dalle circostanze. Ma poco o nulla, in realtà, può scalfire il fulgore dell’icona. Dell’autore di “2541”, “Never talking to you again”, “Sorry somehow”, “The last days of Pompeii”, “Green eyes”, “Don’t want to know that you are lonely”, “Old empire”, “She floated away” e decine di altre.
“Ho smesso di suonare ‘Diane’ per lo stesso motivo per cui l’ho scritta”, dichiara il signore malmesso di cui sopra, ormai ritrasformatosi nell’icona Grant Hart che torna sul palco, richiamato per il bis. La storia di una donna rapita, violentata e uccisa, narrata in prima persona dal suo aguzzino, ha evidentemente convinto Hart che qualcuno possa interpretare in chiave “eroica” il racconto, disincentivandolo così ad alimentare una rilettura distorta di una tormentata riflessione sul lato più oscuro della natura umana. “Al suo posto, suonerò un altro pezzo tratto dallo stesso disco.”
Il concerto si chiude dunque sulle note di “It’s not funny anymore”. Non è più divertente. Non è più divertente sapere che abbiamo perso Grant Hart.
Tutti i panegirici piovuti a cascata in questi giorni, quantunque scontati e prevedibili, recitano solo la sacrosanta verità. Per convincervene ulteriormente, fatevi un giro sulla giostra di un uomo che ha usato tutti i suoi sensi per tramandare una “legacy” artistica che sopravvivrà a qualunque malattia terrena.
“…somewhere there’s happiness instead of pain…” Grantzberg Vernon Hart (1961–2017)
Testo e foto di Ljubo Ungherelli
Mi hai commosso. Grazie.
RispondiEliminaIl mio modesto post
http://www.sullamaca.it/musica/il-mio-grant-hart/