Ecco l'intervista, a cura di Mattia Corsi, a Luca Villa e Daria Moretti, curatori del sito pearljamonline.it e autori di una nuova edizione di "Pearl Jam Evolution", biografia dettagliata e aggiornata sulla grande band di Seattle.
Partiamo dal titolo del libro. Pearl Jam Evolution. Oltre a essere una citazione di una delle loro canzoni più importanti, può essere presa come un chiaro intento da parte vostra di far capire al lettore che è proprio il bisogno di evolversi, come artisti e come persone, il vero motore della band?
Questa è un’ottima chiave di lettura, che corrisponde anche alla nostra. Diciamo che con Pearl Jam Evolution ci siamo prefissati proprio l’obiettivo di far comprendere meglio la loro parabola umana e artistica analizzando dischi, tour e tutto quello che è ruotato intorno a loro in questi anni. Una band che riesce a stare insieme per tanto tempo non può che crescere, cambiare, quindi naturalmente evolversi. Nel caso dei Pearl Jam, questo è andato di pari passo con il rimanere fedeli a sé stessi e alle proprie radici. Il vero motore? Per usare una metafora che credo piacerebbe a Springsteen, abbiamo cercato di immaginarli come una bellissima auto in movimento da venticinque anni, che dopo tante frenate e ripartenze è ancora lì, pienamente funzionante.
Pearl Jam Evolution è la biografia più accurata della band. Da quanto tempo avevate in testa il progetto? E di quanto tempo avete avuto bisogno per concentrare tutte le testimonianze e i documenti necessari?
La prima stesura risale a fine 2008/inizio 2009 ed è confluita nella prima edizione del libro. Il progetto infatti è nato nel 2008, ma l’idea di fare una nuova edizione è maturata ai tempi dell’uscita dell’ultimo disco, “Lightning Bolt”, esattamente tre anni fa. Per questa nuova edizione la gestazione è stata molto più lunga e laboriosa; abbiamo impiegato in tutto tre anni – dal 2013 al 2016 – per revisionare, correggere e ampliare completamente la prima stesura e includere anche gli ultimi sette anni di carriera. Una mole impressionante di materiale su cui lavorare, come potrai immaginare, ma siamo stati in parte agevolati dal poter attingere al materiale raccolto lavorando al sito negli ultimi quindici anni.
I nuovi fan della band sicuramente troveranno spunti per conoscere e amare ancora di più Vedder e soci. Siete riusciti a condensare nel testo elementi inediti, in grado di suscitare anche nel pubblico della prima ora, la curiosità giusta per acquistare la vostra opera. E' cosi? Era vostro preciso intento?
Sì, abbiamo cercato di bilanciare il testo in modo che sia di facile lettura per i neofiti ma anche intrigante per i fan che li seguono da anni e che conoscono già ogni cosa. Credo che i fan della prima ora troveranno molti spunti e approfondimenti interessanti, soprattutto per quanto riguarda le collaborazioni, le dinamiche interpersonali, l’attivismo e altri aspetti molto importanti della band ma che magari tendono a restare più in secondo piano. Per quanto riguarda i fan più recenti il gioco è stato facile, perché ci siamo accorti che anche chi conosce i Pearl Jam da poco tempo non ci mette molto a diventare un fan accanito. Crediamo che con i Pearl Jam non esistano mezze misure; o li si ama profondamente, arrivando in poco tempo a voler scoprire tutto di loro, o semplicemente li si apprezza come rock band e ci si ferma alla superficie.
Leggendo la presentazione del libro tra le altre cose spiccano le testimonianze di Mark Arm, Richard Stuverud, Jack Irons e Dave Krusen. Com'è stato parlare con chi ha vissuto personalmente la parabola della band e di tutta la scena Grunge?
Tutti gli artisti che abbiamo intervistato si sono rivelati persone alla mano e molto disponibili, totalmente a loro agio a parlare del passato. Per certi versi sembra quasi che quell’epoca l’abbiamo “sentita” e mitizzata molto di più noi fan che non loro che ne sono stati i protagonisti, forse perché vivendola in prima persona la loro percezione era chiaramente diversa rispetto a chi osservava dall’esterno. Curioso, vero?
Oltre a essere autori del libro in questione, siete anche curatori del sito italiano più conosciuto dedicato ai Pearl Jam. Quanta difficoltà richiede essere il punto di riferimento di una realtà con cosi tanta capacità di risalto?
Un po’ di tempo e d’impegno ma grazie alla comodità degli smartphone nessuna reale difficoltà, siamo noi i primi a essere sempre a caccia dell’ultima notizia e dell’ultimo video, e condividere tutto con chi ha il nostro stesso interesse è un grande piacere e una soddisfazione. Offrire un buon “servizio” ci sembra il minimo per una fanbase così attenta, esigente e devota. Tra l’altro tanti ragazzi ci aiutano segnalando notizie, articoli, foto e quant’altro, quindi non si tratta solo di dare ma anche di ricevere. La nostra passione è la stessa che anima le persone che ci seguono. Credo che sia un tipo di scambio in un certo senso incoraggiato dagli stessi Pearl Jam, una band che si è sempre dimostrata molto attenta al rapporto con la propria fanbase.
Tenendo conto del legame duraturo e fortissimo tra i Pearl Jam e l'Italia, si può dire che se esiste un paese oltre l'America dove un libro dei Pearl Jam avrebbe senso di essere pubblicato, sia proprio l'Italia?
Forse sì, il legame tra i Pearl Jam e i fan italiani è tra i più saldi nel loro fandom, e lo percepiscono anche loro. La loro prima volta nel nostro paese risale al febbraio 1992 in un piccolo club milanese, quando ancora dovevano scalare le classifiche di mezzo mondo, e da quel momento si è instaurato qualcosa di speciale. Anche durante il concerto a San Siro di due anni fa Vedder ha ricordato quel primo concerto. Non dimentichiamo poi che all’Italia i Pearl Jam hanno dedicato una pubblicazione intera, “Immagine in Cornice”, il bellissimo DVD diretto da Danny Clinch sulle cinque date italiane del 2006. Un bell’atto d’amore da parte loro, testimonianza di un legame ancora oggi molto stretto.
Dei tanti argomenti trattati si tocca anche l'attività live del gruppo. Le testimonianze dei concerti derivano da vostre esperienze personali? Oppure avete attinto da recensioni “esterne”?
Entrambe le cose. Abbiamo visto tanti concerti della band, in tutta Europa e anche negli USA, e nel libro abbiamo integrato molti elementi tratti dalle nostre esperienze. Chiaramente un approccio biografico così ampio e complesso ha richiesto anche un notevole lavoro di “ricostruzione storica” che ha necessariamente dovuto attingere da fonti esterne, soprattutto per quanto riguarda i primi anni di attività, quando magari per noi europei non era così facile spostarsi per vederli o avere accesso a informazioni di prima mano (inutile ricordare che negli anni novanta non c’era Intenet come lo conosciamo oggi). Tutto sommato pensiamo di aver fatto un buon lavoro di ricerca e contestualizzazione, anche quando ci siamo dovuti basare per forza di cose su narrazioni e testimonianze tratte da fonti giornalistiche o da report di semplici fan.
E' notorio che ci siano stati almeno due o tre episodi che nel corso degli anni avrebbero potuto segnare la fine della band. Quale secondo voi è stato il più difficile da superare?
Roskilde, senza ombra di dubbio. Ho sempre visto la carriera dei Pearl Jam come divisa in due fasi, il “prima di Roskilde” e il “dopo Roskilde”. Mi ha emozionato scoprire – in Pearl Jam Twenty di Cameron Crowe – che anche loro la pensano come me, e credo non potrebbe essere altrimenti. Roskilde è stato il momento più difficile da superare per loro, prima di tutto a livello personale e umano. Nel libro ne parliamo estesamente, giacché siamo arrivati davvero a un passo dallo scioglimento della band. Dopo Roskilde c’è stato un nuovo inizio per i Pearl Jam, il loro legame con i fan è diventato ancora più saldo e anche la band sembra più unita, direi inossidabile. A distanza di sedici anni è quasi commovente vedere come da una così triste tragedia sia scaturito qualcosa di bello, positivo e duraturo.
Secondo voi quanto ha influito nella coesistenza della band il disco Mirror Ball di Neil Young composto con i Pearl Jam senza Vedder?
Questa domanda è molto interessante. Penso seriamente che se i Pearl Jam – senza Vedder – non avessero registrato Mirror Ball insieme a Neil Young nel 1995, probabilmente oggi non saremmo qui a parlare di una band chiamata Pearl Jam. Mirror Ball è stato uno spartiacque fondamentale non tanto per Young, quanto per Stone, Jeff e Mike; quell’esperienza ha dimostrato al mondo e a loro in primis che i Pearl Jam non erano solo Eddie Vedder. Il fatto di fare un disco intero con una leggenda vivente del rock, il loro mentore, e di accompagnarlo in tour come umile backing band ha ridato motivazione alla band e una giusta dimensione alle cose, che in quel periodo stavano un po’ sfuggendo al loro controllo (appena dopo il suicidio di Cobain, con la “guerra” a Ticketmaster, il licenziamento di Abbruzzese etc.), e ha posto le basi per il vero disco della svolta dei Pearl Jam: No Code.
Potrà sembrare una sviolinata, ma il mio amore per i Pearl Jam è nato nel 1998 quando vidi per la prima volta su MTV il video di Do the Evolution. Com’è nata, invece, la vostra passione per loro?
Autunno 1993. Vs. era appena uscito e m’imbattei nel video di Alive su Videomusic, quella che all’epoca era l’emittente musicale di riferimento in Italia. Non sapevo chi fossero ma quella canzone – quella voce – mi entrò subito dentro, colpendomi nel profondo, anche se all’epoca ero solo un brufoloso tredicenne. Dopo due giorni avevo già la discografia “completa” (Ten e Vs.). Anche Daria, la co-autrice del libro, li ha conosciuti nel 1993, grazie alla classica “cassettina” che ci si scambiava tra compagni di classe. Parlare di queste cose oggi fa sorridere e intuire che non siamo più dei ragazzini. Oggi di anni ne abbiamo trentasei, ma l’amore che proviamo per la band non è cambiato di una virgola rispetto al primo giorno. State of love and trust, come direbbero loro.
Intervista di Mattia Corsi
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