Ecco l'intervista che Edipo
ha concesso a Riserva Indie in occasione del suo live al Theremin di Massa lo scorso 11 Dicembre.
Iniziamo partendo subito dalla questione
dell’etichetta, la Universal.
Io gravito nel mondo dell’underground, ho abbracciato
un management - che è quello di Giada Mesi - che mi ha portato effettivamente
ad avere un contratto con Universal. Tutti mi hanno sempre detto ‘guarda che un
musicista indipendente inserito in quel circuito fa fatica, perché quel
tipo di mondo lavora con delle energie focalizzate su alcune cose che forse non
sono proprio quelle di un musicista che vive le cose nel piccolo sulla sua
pelle, che costruisce la sua fanbase, che gira per i locali con la macchina,
che mette l’amplificatore nel furgone’, e io dicevo ‘ma no, secondo me c’è una
bella energia’ e invece alla fine era vero. Sono entrato in questa lavatrice di
input, talune volte propositivi, ma su un bilancio finale ti dico che
effettivamente forse abbracciare la major nel mio caso non so se sia stata la
migliore delle scelte, però adesso non voglio sollevare polemiche, andiamo
avanti insomma, ecco.
Tu non sei facilmente catalogabile, da una
parte sei un cantautore in tutto e per tutto, da una parte sei una pop star (in
quanto fai musica pop), e dall’altra sei un rapper. Tu come riesci a far
convivere tutte queste tue anime?
Io faccio anche un mea culpa su questo per il discorso
che facevo prima. Effettivamente se io riesco a dosare le componenti della mia
opera, forse riesco ad andare a catturare meglio la gente. Immagino che
lavorare su di me possa essere faticoso, ci vuole una sensibilità molto fine,
un equilibrio molto fine che forse va vissuto proprio dall’artista in primis.
Nel mio caso riesco a far convergere tutto perché il rap rimane il mio primo
amore e la palestra in cui ho imparato a scrivere, l’idea di uno schema metrico
che ti porta a scrivere le parole in un certo modo. L’hip hop è cantautorato,
solo che è fatto in modo diverso, però alla fine è la stessa cosa, esprimi
delle emozioni poetiche in rima o in quartine. Appartenendomi i due mondi a volte
esagero da una parte, esagero dall’altra perché mi piacciono entrambe le cose.
A volte ci sono delle cose che secondo me sono talmente poetiche che quando
vengono scritte su una base rap penso che quello non sia il loro vestito più
adatto, mentre portarle su una chitarra o su un pianoforte trovo che quella sia
la loro dimensione. Sarà anche che io non mi ritengo un musicista, ma un
paroliere, quindi non avendo un approccio didattico con gli strumenti forse per
me una drum machine e una chitarra sono la stessa cosa, sono vestiti che do
alla canzone. Dal mio punto di vista ha senso, da quello dell’ascoltatore forse
destabilizza un po’. Però non deve piacerti tutto, tutte le mie canzoni, magari
scegli quelle che sono più nel tuo mondo. Alla base c’è una grande libertà, si
spera che anche questo sia recepito. La vita è fatta di momenti tristi e
momenti allegri e tutti noi abbiamo una compilation in macchina o sull’iPod o
sul telefono e non siamo sempre monotematici, quindi io cerco questo da me
stesso, di dare varie sfaccettature, c’è il giorno che mi sveglio allegro, il
giorno che mi sveglio triste e questo si trasforma in musica e quindi non c’è
progettualità, ma una grande spontaneità e insomma…sono canzoni.
C’è una certa direi quasi riluttanza nella
scena indipendente di fare musica pop, tu, da dentro, come la vedi?
Secondo me, semplicemente è una devianza della società
moderna, secondo me pop vuol dire cercare di aumentare la probabilità di essere
ascoltato. Se una cosa è un pochino più gradevole, un po’ più - diciamo –
“addomesticata” nella classica forma strofa - ritornello, è più facile arrivare
a persone che non sono avvezze ad alcuni generi. Nel mio caso è un po’ un
esercizio di stile, non mi sento così sacrificato quando trasformo le canzoni
in una chiave più pop, perché il messaggio dentro è lo stesso. Mi sembra un
discorso un po’ obsoleto quella cosa lì di dire no non mi piace perché è pop,
mi sembra vecchio, cioè basta.
Parlavamo prima de Lo
Stato Sociale, che non è pop, giustamente, ma ha un grande successo
e forse alla fine lo diventa. Quindi, diventa pop quello che ha successo?
Figata loro che sono riusciti con una poetica che non era prettamente pop, però
pop vuol dire arrivare alle persone, il ragionamento porterebbe a dire che sono
pop…
Quando uno fa musica semplicemente lancia un segnale,
come se fosse una barca in mezzo al mare che lancia un fuoco d’artificio e dice
‘io sono qua, se c’è qualcuno che ha voglia’. Cerchi di trovare persone simili
a te con cui fondamentalmente condividere le tue emozioni, le tue esperienze, e
per creare un contatto e un dialogo, a questo serve la musica secondo me. Poi è
vero che io mi definisco pop, ma da me a Marco Mengoni c’è ancora un grande
abisso per attitudine, per tipo di operazione discografica, quindi penso si
capisca che anche il dire “io sono pop” sia anche provocatorio se vuoi.
Sembra, almeno a leggere certi scritti, che
voi trentenni abbiate questa cosa della questione generazionale che non
riuscite a togliervi di dosso, sembra così anche a te?
Oggettivamente la nostra generazione, ahimè, è stata
una delle più difficili forse perché siamo passati dai quindici anni chiamare a
casa ai genitori della tua ragazza per chiedere “signora salve c’è sua figlia?”
al liceo dove c’erano i primi telefonini. L’imprinting forte è legato molto
sulla piazzetta, sul trovarsi e strimpellare la chitarra, adesso siamo ancora
qui, siamo ancora in piedi, ma in questo baraccone di internet e di quel tipo
di comunicazione che a me piace e diverte, però con quel sapore da “ah c’è
questo, che figata, è nuovo mi ci appassiono!” però il cuore rimane là.
Oggettivamente, se tu cerchi di portare qualcosa che non appartiene a questa
epoca, automaticamente si crea questo dissidio ed è intrinseca la malinconia,
per forza. Secondo me, come dici tu, hanno rotto le balle questi trentenni
malinconici, ma se un trentenne non è malinconico secondo me ha dei grossi
problemi perché se non lo sei vuol dire che hai il cuore di ghiaccio.
Anche i cantautori che citavamo prima [De Andrè,
Guccini, De Gregori etc…], seppur quarant’anni fa, trovavano il loro acme di
canzone di protesta comunque sui trent’anni, magari un po’ prima, però siamo
lì. Alla fine non è tanto diverso poi gli anni passano, ma fondamentalmente i
trent’anni sono l’età della maturità.
La maggior parte delle tue canzoni, ad un
primo ascolto, sono canzoni d’amore, ma se ascolti con un orecchio un po’ più
attento c’è un messaggio diverso, non è solo l’amore quello di cui tu parli,
spesso c’è anche un po’ di cinismo di fondo. Come si contrappongono questi due
sentimenti?
Si cresce e si ci trasforma, Bacio Battaglia sicuramente
era molto cinico, era un disco contro, questo disco invece è stato un disco un
po’ più ispirato, un disco d’amore fondamentalmente. Di là c’era un cinismo
all’80% e una poetica al 20 e di qua è il contrario. Non lo so, io faccio
fatica a fare una canzone che parla esclusivamente di un argomento, quindi se
io affronto un tema mi viene automatico di metterci dentro qualcos’altro, per
questo un sottocodice c’è sempre. Poi sai, il cinismo alla fine è forse più
realismo e disillusione ed è anche quella chiave che ti permette di usare
l’ironia, il sarcasmo, perché se no nel buonismo trascendentale si fa fatica a
infilare quel passaggio un po’ più pungente che poi è quello che rimane. Io
penso che le canzoni siano sempre d’amore, anche quelle di politica sono
canzoni d’amore, poi sta a chi le fa, trovare una chiave personale.
Il tuo disco si intitola “Preistorie di
tutti i giorni”, il concetto del tempo è molto partecipe delle tue canzoni, c’è
sempre un prima e un dopo, c’è un maturare della canzone che rispecchia,
immagino, un maturare tuo mentre la scrivi e mentre componi tutto un disco.
Beh sì, questo disco è stato scritto in tanto tempo,
infatti l’idea di Preistorie di tutti i giorni è di una raccolta di tutti i giorni, scritta in un anno e mezzo, sono racconti che dopo tutto quel tempo
hanno finito per mischiarsi. Per questo, questo disco non va da A a B.
Crescendo si cambia un po’ e l’idea della preistoria è
l’idea di questo limbo temporale che ti fa capire che, nonostante una cosa
possa risalire fino alla preistoria, fino all’alba dei tempi, gli archetipi di
dinamiche che poi sono quelli di: sono felice ti amo/ sono triste mi hai
lasciato. Alla fine la musica si sintetizza in queste due frasi, poi puoi
metterci tutto quello che vuoi, ma quelle due robe lì erano così ai tempi di
Beethoven, che magari era malinconico e scriveva una composizione, esattamente
come lo sono oggi. E quindi il discorso del tempo è semplicemente una diversità
di codici, ma i significati, l’emotività, è ciò che scaturisce. Soprattutto
l’emotività e la partecipazione con le persone che l’ascoltano rimane
invariato, ed è la cosa bella che ti fa capire che siamo esseri umani, siamo
una razza che nonostante si stia imbruttendo, abbiamo ancora un istinto
primitivo, appunto, che è quello che ci muove e sono i sentimenti.
Dicembre è tempo di classifiche, qual è un
disco per te imprescindibile di questo 2015, anche un disco del passato ma che
ti fa pensare a questo anno.
Sicuramente il disco dei TheGiornalisti è un disco che ha portato una bella freschezza.
Adesso sulla bocca di tutti c’è Calcutta che è
bravissimo, ha fatto questo disco di ballate stralunate ed è figo, è molto
personale però, i TheGiornalisti sono riusciti a fare invece un disco molto
aperto, arioso, dove c’è più catarsi, dove ci si riconosce di più perché vai a
prendere quello che ti piace, poi le sonorità sono belle, è scritto bene,
quello è stata una bella scoperta. Poi anche Massaroni Pianoforti, un cantautore che ho
scoperto poco fa grazie al mio coinquilino, e ho scoperto delle belle canzoni,
è molto in gamba. Anche Truppi mi è piaciuto, il suo Stai andando bene Giovanni
è forte.
C’è una leva che spinge, è stato un buon anno. Dobbiamo resistere alle
intemperie della discografia che purtroppo fa i grossi numeri su altri tipi di
operazioni. Però finché appunto Lo
Stato Sociale riesce a imballare il Paladozza io sono fiducioso che
qualcosa possa cambiare.
Intervista di Flavia
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