Come un Flaubert trascinato di peso nell’iconografia
rock’n’roll. Tre racconti ispirati ai testi di altrettanti LP, ciascuno
filologicamente suddiviso in lato A e lato B.
THERAPY?
– TROUBLEGUM (1994)
LATO A: “KNIVES”
“SCREAMAGER” “HELLBELLY” “STOP IT YOU’RE KILLING ME” “NOWHERE” “DIE LAUGHING”
“UNBELIEVER
Iniziavo
lentamente a tornare in me. Conoscevo bene gli effetti di un trip di mescalina.
Conoscevo bene gli effetti di un trip di mescalina andato storto. Anche chi mi
stava intorno li conosceva. Dai cassetti in cucina erano spariti tutti i
coltelli. Chissà dov’erano stati nascosti. Senz’altro era stata una precauzione
affinché non li usassi per combinare ulteriori disastri, come già avvenuto
durante altri viaggi del cazzo che mi si erano impressi nel cervello a guisa di
un tatuaggio fatto di ghirigori incomprensibili. “Hai bisogno d’aiuto”, era il
monito della mia ragazza. “Sarebbe meglio tu fossi morto!”, imprecava invece il
mio ragazzo. Mi pareva di ricordare discorsi del genere nelle lunghe ore di
delirio che avevo attraversato. Eppure non c’era nessuno in casa.
Stramazzai
sul divano di sala. Alla soglia dei trent’anni, ripercorrere tutto ciò che mi
era capitato mi risultava estremamente doloroso, come ingurgitare una pasticca
che a differenza delle altre portava ad amplificare i problemi. Come se ce ne fosse
bisogno!
Guardandomi
allo specchio, mi rendevo conto che con una faccia come la mia non avrei mai
fatto strage di cuori. Né sarei riuscito a farmi degli amici comportandomi così.
Fanculo. Vivevo in quella condizione sin dai tempi dell’adolescenza, e iniziavo
a credere che non ne sarei mai uscito. Alcol e droga, le uniche presenze
costantemente al mio fianco, non sempre riuscivano a lenire la rabbia e la
frustrazione che mi mangiavano da dentro, anzi, talvolta tendevano ad esacerbare
il malessere.
Neppure
la religione mi era stata di gran conforto. Conobbi un tipo, una volta. Aveva
stampato in faccia il classico sorrisetto falso e viscido da venditore d’auto
usate. Mi abbordò fuori dal solito bar.
“Vedo
che sei terrorizzato all’idea d’andare all’inferno”, mi disse d’un tratto con
voce melensa. Io ero malfermo sulle gambe, reduce dall’ennesima botta alcolica.
Ma con un barlume di lucidità per capire il genere di soggetto con cui avevo a
che fare.
Un
uomo tutto casa e chiesa, devoto a moglie e figli quanto a dio. Chissà i
segreti putridi che nascondeva.
“Ti
piacerebbe essere Gesù senza soffrire, eh?”, gridai mentre mi allontanavo,
caracollante ma deciso. “Dammi quei chiodi, piantali per bene!”
Forse
era anch’egli frutto della mia immaginazione. Il mondo cascava a rotoli, ed io
con lui. Basta, non ne potevo più, quella situazione mi stava uccidendo. Non sapevo
cosa fosse peggio, se la perdita insita nella morte o il beneficio insito nella
nascita. Nel dubbio, seguitavo a sconvolgermi senza tregua.
Il
paradiso mi aveva buttato fuori a calci nel culo. O non m’aveva mai lasciato
entrare? A volte mi sorprendevo a fissare delle foto che raffiguravano cose che
avrei voluto ma che non ero in grado di ottenere. Quell’esistenza straziante mi
stava conducendo verso il nulla.
Mi
ubriacavo ogni notte, ma senza riuscire a ubriacarmi della vita. Eppure
sopravviveva una speranza, una sorta di ostinazione, apparentemente insensata
data la spirale di autodistruzione in cui ero intubato. Insistevo a prepararmi per
qualcosa che non avrei mai raggiunto, e lo facevo con la forza della
disperazione grazie alla quale mi tenevo aggrappato sull’orlo del baratro, in
procinto di perdere anche le più piccole cose che ero riuscito a conquistare.
Per
la maggior parte del tempo, però, mi sentivo talmente alienato e fuori di me da
non ricordarmi neppure come mi chiamavo.
Il
sogno era durato poco, non era nemmeno stato granché piacevole. Ed era finito.
Al risveglio, mi rendevo conto che tutti i miei cosiddetti amici non facevano
altro che raccontarmi balle, e che avrei dovuto morire in ogni caso, prima o
poi.
Le
mie giornate erano dominate da questi pensieri orribili. E avrei dato tutto
l’oro del mondo almeno per dormire tranquillo la notte, anziché distendermi sul
letto con l’atroce sensazione di sentirmi morto.
Tante
volte avevo provato ad attaccarmi a qualcuno. Qualcuno in cui scorgevo, o
m’illudevo di scorgere, una buona ragione per tirare avanti. Purtroppo, ero io per
primo a erigere barriere difensive e negarmi qualunque possibilità. Mi sentivo
goffo e impacciato al tuo cospetto e odiavo tutto ciò che avevo combinato fino
a quell’istante, convinto del tuo biasimo.
Ne
avevo fin sopra i capelli di reinventarmi i ricordi per farli sembrare più
decorosi e poter vivere nell’ombra del tuo fascino; ero finanche disposto a
sopportare insulti e silenzio supponente, sentimenti che la mia scarsa
autostima mai mi avrebbe permesso di metabolizzare, pur di starti accanto.
Ma
alla fine anche tu mi abbandonavi a me stesso, proprio come facevano tutti gli
altri.
Testo di Ljubo Ungherelli
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