Premessa: spesso e volentieri, i giornalisti musicali recensiscono dischi che non hanno ascoltato e concerti che non hanno visto. Io, che non sono un giornalista musicale, ascolto dischi che non esistono e vedo concerti che non hanno mai avuto luogo...Ljubo Ungherelli
HONEYBIRD & THE BIRDIES “GREY ’TIL THE GRAVE”
Il lungamente atteso successore dell’acclamato “You should reproduce” è in dirittura d’arrivo e mi è stato concesso di ascoltarlo in superanteprima per inaugurare col botto questa rubrica!
Giusto per contestualizzare, negli ultimi due anni la band ha suonato in lungo e in largo per l’Italia e l’Europa (se dichiaro d’aver presenziato a circa un quinto dei loro concerti, sembro un poco di parte?), delocalizzandosi infine in quel di Brooklyn, dove ha preso forma questo nuovo lavoro discografico.
Premetto che la copia advance in mio possesso riporta solo i titoli dei brani e null’altro, non ho dunque la più pallida idea di chi abbia effettivamente suonato sul disco eccetera. Quello però che posso affermare senza tema di smentita è la spaventosa bontà di quanto vado a descrivervi!
Già dal titolo, si denota un certo incupimento nelle atmosfere (quando “colorful” era uno dei termini con cui il gruppo stesso era uso definirsi). La title-track, che apre le danze col suo inquietante incedere pianistico, è una maestosa cavalcata di otto minuti, un inarrestabile crescendo di intensità, con svariati strumenti a percussione che furoreggiano nelle lunghe divagazioni della parte centrale, per lasciare poi spazio a una dolorosa litania vocale, intenta a declamare un testo che tratteggia le zone d’ombra della mente umana in prossimità della morte.
Giù il cappello per questo pezzo clamoroso che da solo vale il biglietto. Un simile esperimento rischiava di attorcigliarsi in un’inutile magniloquenza onanistica e risultare indigeribile.
Il lungamente atteso successore dell’acclamato “You should reproduce” è in dirittura d’arrivo e mi è stato concesso di ascoltarlo in superanteprima per inaugurare col botto questa rubrica!
Giusto per contestualizzare, negli ultimi due anni la band ha suonato in lungo e in largo per l’Italia e l’Europa (se dichiaro d’aver presenziato a circa un quinto dei loro concerti, sembro un poco di parte?), delocalizzandosi infine in quel di Brooklyn, dove ha preso forma questo nuovo lavoro discografico.
Premetto che la copia advance in mio possesso riporta solo i titoli dei brani e null’altro, non ho dunque la più pallida idea di chi abbia effettivamente suonato sul disco eccetera. Quello però che posso affermare senza tema di smentita è la spaventosa bontà di quanto vado a descrivervi!
Già dal titolo, si denota un certo incupimento nelle atmosfere (quando “colorful” era uno dei termini con cui il gruppo stesso era uso definirsi). La title-track, che apre le danze col suo inquietante incedere pianistico, è una maestosa cavalcata di otto minuti, un inarrestabile crescendo di intensità, con svariati strumenti a percussione che furoreggiano nelle lunghe divagazioni della parte centrale, per lasciare poi spazio a una dolorosa litania vocale, intenta a declamare un testo che tratteggia le zone d’ombra della mente umana in prossimità della morte.
Giù il cappello per questo pezzo clamoroso che da solo vale il biglietto. Un simile esperimento rischiava di attorcigliarsi in un’inutile magniloquenza onanistica e risultare indigeribile.
Qui, viceversa, l’esito può ricordare i Jane’s Addiction più ispirati (quelli di “Three days”).
Per il resto, la titolare del monicker c’ha succulentemente abituati ad una (lucida?) follia musicale dove nulla è scontato e dove la ricerca di nuovi stimoli è all’ordine del giorno. La nostra eroina, assieme ai suoi compagni d’avventura, spazia disinvoltamente tra ballate semiacustiche dominate dal charango (“When sinners escape from hell”; se Elliott Smith non fosse morto, forse adesso sarebbe vivo e senz’altro apprezzerebbe), schizofrenia zappiana (“Jumpin’ on the winners’ cart”: un treno ad alta velocità che sfreccia su un binario a zigzag fino all’inevitabile scontro frontale), world music in salsa punk (la sfrenata “Saru no moto ynklintzi”; non chiedetemi in che lingua sia cantata!), fino alla psichedelia cosmica di “Sturm und drugs”, che in meno di tre minuti condensa in sé qualunque genere musicale io detesti ferocemente, ma chissà come è il mio pezzo preferito dell’album!
Non mancano episodi più in linea con la precedente produzione, ad esempio “The toothless shark”, dove gli intrecci vocali sovrastano un impianto strumentale che richiama il classico wall of sound di spectoriana memoria, seppur demarcato da una ritmica funky che esplode vigorosamente in prossimità del ritornello. Hit single in un mondo migliore…
Per il resto, la titolare del monicker c’ha succulentemente abituati ad una (lucida?) follia musicale dove nulla è scontato e dove la ricerca di nuovi stimoli è all’ordine del giorno. La nostra eroina, assieme ai suoi compagni d’avventura, spazia disinvoltamente tra ballate semiacustiche dominate dal charango (“When sinners escape from hell”; se Elliott Smith non fosse morto, forse adesso sarebbe vivo e senz’altro apprezzerebbe), schizofrenia zappiana (“Jumpin’ on the winners’ cart”: un treno ad alta velocità che sfreccia su un binario a zigzag fino all’inevitabile scontro frontale), world music in salsa punk (la sfrenata “Saru no moto ynklintzi”; non chiedetemi in che lingua sia cantata!), fino alla psichedelia cosmica di “Sturm und drugs”, che in meno di tre minuti condensa in sé qualunque genere musicale io detesti ferocemente, ma chissà come è il mio pezzo preferito dell’album!
Non mancano episodi più in linea con la precedente produzione, ad esempio “The toothless shark”, dove gli intrecci vocali sovrastano un impianto strumentale che richiama il classico wall of sound di spectoriana memoria, seppur demarcato da una ritmica funky che esplode vigorosamente in prossimità del ritornello. Hit single in un mondo migliore…
Non oso neppure immaginare la resa live di questi nuovi brani, considerando che l’ambiente-palco decuplica il già superlativo potenziale di Honeybird e soci. Per quel che mi riguarda, bastò uno showcase di pochi minuti a farmi letteralmente innamorare di loro (se lo spiattello così, sembro un poco di parte?).
V’invito in conclusione ad uscire dalle pastoie delle soluzioni musicali più prevedibili per immergervi in questo formidabile caleidoscopio sonoro, che conferma l’immane talento di un’Artista semplicemente unica. One of a kind!
(Nella prossima puntata: retrospettiva sui dischi pubblicati dai Ritmo Tribale nei primi anni Duemila)
Ljubo Ungherelli fa parte del progetto Cronaca e Preghiera e la rubrica"Bangers Music Academy"è ispirata a un'idea di Lester Bangs
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