Il senso di circolarità che caratterizza la natura, la nascita e la morte da cui rinasce altra vita è al centro della poetica dei Glimmer Void, band milanese all’esordio con l’album “Echoes Of Life”. Gli echi della vita sono come un ponte che collega la nostra dimensione con l’altrove, perché tutto è connesso e la fine abbraccia l’inizio e viceversa, senza soluzione di continuità. Matteo Marchetti (voce e basso), Veronica Zanchi (voce e tastiere), Francesco Vallerini (chitarre), Paolo Termine (chitarre) e Luca Spezzati (batteria) avevano ben in mente questo concetto quando hanno composto i pezzi, anche se poi il disco ha preso anche altre direzioni seguendo i percorsi che alla band venivano più naturali. Gli otto brani che compongono l’album sono un viaggio dai sapori alternative, stoner e prog metal, ma non solo, che inizia dal canto ammaliante di sirena dipinto dalla chitarra nell’intro strumentale “Siren’s Call”, fino alla title track che chiude il lavoro, inquieta come lo sprofondare in un incubo spaventoso, in cui un esercito oscuro prende vita e centinaia di occhi guardano fissi dalle fredde profondità dell’oscurità. Le voci di Matteo e Veronica sanno prendere per mano il pezzo portandolo in alto fino ad intravvedere una stella nel nuvoloso cielo notturno e riportare la quiete, sottolineata dall’inattesa chitarra acustica che chiude la traccia. Lungo il percorso che si snoda tra “Siren’s Call” e “Echoes Of Life” troviamo diversi brani degni di nota, primo dei quali è “The Lighthouse”, seconda traccia dell’album. Persa in un mare in tempesta un’anima si risveglia priva della cognizione del tempo su uno scoglio che ospita un faro, luce ondivaga tra le onde rabbiose, speranza per navi abbandonate alla deriva. La successiva “Wolf Eats Wolf” ha il suo perno nell’ottima prestazione vocale di Veronica, capace di passare da un cantato grintoso ad atmosfere più eteree. A metà esatta dell’album ecco il brano di punta dell’intero lavoro, “Chirality”, che fa riferimento alla chiralità, ossia la proprietà di un oggetto di non essere sovrapponibile alla sua immagine speculare. Le voci di Matteo e Veronica, complementari ma allo stesso tempo assolutamente diverse, sottolineano il concetto chiave dell’inganno creato da noi stessi davanti ad uno specchio. La traccia contiene anche un parlato di Walter White, protagonista della famosa serie TV “Breaking Bad”, mentre spiega la chiralità ai suoi studenti. “Echoes Of Life” è, nel complesso, un album che sottolinea il lato oscuro, quasi infernale della vita, ma lascia aperta la porta alla speranza di uscire a riveder le stelle.
La band al completo si è confrontata sui contenuti e le suggestioni sonore del disco.
- Il vostro album è, dal punto di vista sonoro, un pezzo di marmo in cui avete scolpito le vostre canzoni.
Se foste degli scultori che forma gli avreste dato?
MATTEO – E’ la prima volta che ci fanno questa domanda, diciamo che io non sono molto esperto di scultura, però secondo me ogni canzone ha una sua forma. C’è un suono che accomuna tutto l’album, questo sì, però mi sentirei di dire che ogni canzone ha una sua costruzione, una sua immagine. Paolo è un artista per cui forse può darci una mano.
PAOLO – A me viene in mente il mare, quindi scolpire il mare. Ognuno ha una sua poetica, a me viene in mente il mare.
- Il discorso del mare si riconnette all’intro, “Siren’s Call” che ha questo andamento ipnotico proprio come il richiamo delle sirene. Ci ho sentito anche un vago eco dei Pink Floyd, se dovessi citare un brano in particolare direi qualcosa di “Breathe”. Li avevate in mente quando lo avete composto?
MATTEO - Diciamo che i Pink Floyd anche se non li abbiamo in mente da qualche parte escono sempre, tutti quanti li conosciamo, il abbiamo ascoltati, quindi è ovvio che quella vena un po’ prog, anche se non si può definire propriamente così, diciamo questa vena psichedelica viene da lì. Quella intro in particolare è nata da un’idea di chitarra che aveva scritto il nostro chitarrista Francesco e, comunque sì, qualcosa un po’ alla Pink Floyd c’è.
FRANCESCO – Se mi metto a scrivere un’intro che deve essere in un determinato stile come “Siren’s Call” diciamo che i Pink Floyd sono l’ispirazione che viene più fuori. Quindi confermo l’impressione che hai avuto.
- Il primo pezzo vero e proprio dell’album “The Lighthouse” sembra il risveglio da uno stato di coma. La musica, secondo voi, può essere una cura che ci permette di riconnetterci alla realtà?
VERONICA – Assolutamente sì, ma penso che sia così per tutti, cioè la musica è un modo di esprimerci importante per tutti noi, qualcosa che ci accompagna nella nostra vita e anche nei momenti più difficili ha un potere curativo enorme. Ci sta che sia un po’ un risveglio perché noi abbiamo cambiato nome, abbiamo scelto una nuova identità ed è come se ci fossimo svegliati da una crisalide e fossimo usciti dal bozzolo. Sento anch’io questo senso di risveglio, di rinnovamento.
- “Wolf Eats Wolf” alterna momenti di furia a trame più eteree intessute dalla tua voce, Veronica. E’ quando il pezzo rallenta che c’è la presa di coscienza di aver seguito la strada sbagliata?
VERONICA – Sì, è un brano che è partito proprio così, mi sono ispirata a quello e avevo in mente questa linea di basso che è un po’ il filo della ragione che torna. Però anche nell’esplosione di rabbia c’è della verità e, secondo me, è un modo sano di incanalarla. Poi Francesco ha fatto un riff che è davvero pazzesco ed è riuscito ad esprimere tutte quelle emozioni. E’stato comunque un lavoro di squadra come per tutte le canzoni, ognuno ha messo del suo e questo è un punto di forza per tutte le canzoni che facciamo.
MATTEO – Giusto un piccolo aneddoto. “Wolf Eats Wolf” prima la chiamavamo “Messa” (ndr. gruppo doom metal della provincia di Padova) semplicemente perché la linea di voce che citavi prima ci ricordava i “Messa”, che sono una band fantastica del Veneto. All’inizio quindi volevamo ispirarci a loro, poi la canzone ha preso tutt’altra direzione, ci abbiamo messo più del nostro, però diciamo che la ricordiamo con quel nomignolo.
- Vi confrontate molto con i gruppi che fanno più o meno il vostro stesso genere? Oltre che far musica voi frequentate molti concerti?
MATTEO Sì assolutamente. Ognuno di noi ha i propri riferimenti, poi io mi considero prima di tutto ascoltatore, prima ancora che musicista. La musica innanzitutto mi piace ascoltarla, andare ai concerti ed è lo stesso anche per gli altri. Appena arriva la notizia di un concerto che ci piace la condividiamo poi a volte ci andiamo assieme, a volte ognuno per sé perché abbiamo anche idee differenti, però sì siamo prima di tutto ascoltatori.
- Andando a cercare il significato di “Chirality”, il titolo del vostro brano, ho scoperto che è la proprietà di un oggetto di non essere sovrapponibile alla sua immagine speculare. Volevate sottolineare questo concetto degli opposti speculari? Nel testo ricorrono questi opposti “Bright/blind”, “dark/light”.
MATTEO Diciamo che quel testo è ispirato principalmente a un videogioco che si chiama “Death Stranding”, cioè diciamo “morte spiaggiata”, che è stato creato dallo stesso autore della saga “Metal Gear Solid” che è un pilastro dei videogame. Quel gioco parla fondamentalmente di questo concetto di chiralità, cioè di vita e morte, di cose che sono viste in un’ottica simile, ma sono diametralmente opposte e non sovrapponibili. Il termine viene dal greco chiros (χείρ) che è la mano ed è proprio un’idea calzante perché le mani sono due figure specchiate ma che non sono uguali e questo è un concetto che si ritrova molto in chimica, ci ha giocato Lewis Carroll ad esempio in “Alice attraverso lo specchio”. Lui si immaginava un mondo al di là dello specchio che era simile, ma completamente opposto per quel che succedeva. Il concetto viene poi anche citato in un episodio della serie “Breaking Bad”. Infatti a metà del brano si sente la voce di Walter White. Nel momento in cui abbiamo scritto quel pezzo abbiamo scoperto una serie di connessioni tale per cui ci è esplosa letteralmente la mente ed abbiamo detto “dobbiamo mettere assolutamente quell’audio”, perché in uno dei primi episodi lui sta parlando alla classe del concetto di chiralità in chimica (ndr. nella serie Walter White è un insegnante di chimica), quindi di due molecole che hanno la forma quasi uguale, ma all’opposto, una che serve a curare delle malattie e l’altra che può causare addirittura la morte del feto in una donna incinta. Questa scena l’abbiamo riportata proprio nel pezzo. Quindi è un pezzo che parla di un viaggio in cui comunque vengono affrontate varie realtà opposte. E si ricollega un po’ a tutto il discorso del disco, “Echoes Of Life”, cioè gli echi della vita dopo la morte.
- Tra l’altro “Chirality” contiene anche una delle mie strofe preferite, cioè “non importa quanto ci voglia a costruire questo ponte e raggiungere il nostro sogno di essere di nuovo liberi”. E’un verso di speranza in una vita quotidiana in cui siamo schiavi di tante cose, dei cellulari, dei social ad esempio?
VERONICA – Sì non è solo la libertà ma il punto focale è lavorare insieme. Perché appunto trovo che con i social ci sia tanto individualismo, tanto su di sé ma poco su quello che è la comunità, che secondo me è importante. Sono stata a vedere i Ministri a Milano e loro ad un certo punto hanno fatto sedere tutti quanti per terra come una specie di partecipazione e si sono concentrati sul fatto che è poi la comunità che cambia le cose, lavorare insieme, ascoltarsi. Quello è il ponte per arrivare alla libertà.
- In “Nothing Gold Can Stay”, tra l’altro curioso quell’inizio con il fischio, che è un pezzo di quasi nove minuti, c’è anche qui questa fusione tra anime opposte. Sono le anime che rappresentano gli elementi che voi portate nella band per dare vita ai pezzi?
VERONICA – Sì è una canzone che ha sicuramente tanti momenti diversi. Diciamo che c’è dentro un po’ di ognuno. C’è l’intro di Paolo che ha avuto questa idea di usare una tempistica dispari che ci ha lasciato senza parole. Poi ci ha lavorato anche Francesco che ha aggiunto del suo, c’è stato un lavoro incredibile sulla batteria di Luca, un gran lavoro sul testo sia mio che di Matteo, c’è stato un pezzo di piano e poi è stata costruita pezzo per pezzo e sicuramente emerge che ognuno ha portato qualcosa di sé, delle proprie influenze musicali, del proprio modo di vedere la musica. Ne è uscita una canzone lunghissima che però è stata personalmente una di quelle che mi ha dato più soddisfazioni quando l’ho sentita finita nel mastering.
MATTEO – Mi ha fatto sorridere quando mio padre mi ha detto addirittura “mi piace molto la suite “Nothing Gold Can Stay”. Non so se si possa definire una suite però mi ha fatto sorridere che l’abbia chiamata così, quindi diciamo che è una suite. Comunque sì è il pezzo più elaborato.
- Invece “Stained With Red” suona quasi come il grido di un ferito a morte che sta cercando di scappare.
MATTEO – Quello è un concept che è nato in una maniera particolare, da un nomignolo che era “Ivory”, avorio, che avevo dato a un riff perché mi ricordava quella pesantezza dell’elefante e quindi volevo qualcosa che rappresentasse l’elefante. Da lì abbiamo poi deciso di sviluppare un testo che parlasse degli animali e del bracconaggio. Mi piace molto che sia passata questa cosa che musicalmente possa rappresentare questo grido di dolore, di disperazione da parte di un animale, ma può essere magari anche un popolo che viene soggiogato, represso. Questo è un po’ il concept su cui abbiamo lavorato. C’è questa cosa dei colori, che prima era avorio, adesso c’è del rosso, rappresenta proprio questo aspetto animalesco, vivo e ci piace immaginarcelo così.
- Il pezzo finale dell’album, che è poi la title track “Echoes Of Life” sembra dare all’album un senso di circolarità. La luce fioca potrebbe essere quella del faro di “The Lighthouse”. Possiamo definire il vostro come un concept album sull’inquietudine, sul trapasso?
LUCA – E’parte integrante della tematica principale dell’album che è il cambiamento anche attraverso la morte, il ciclo della vita, la morte di un essere vivente che porta poi alla vita di molti altri organismi. E’stato un concetto che anche parlando nei mesi precedenti alla scrittura, Matteo il nostro bassista aveva già portato ed era già un’idea già avuta in passato. E soprattutto nell’ultimo brano si è espressa appieno. La circolarità dell’album è stata un concetto che ci ha influenzato, anche Paolo ha portato spesso il tema della circolarità e la parte finale più calma che può riconnettersi poi alla parte iniziale di “Siren’s Call” è qualcosa su cui abbiamo lavorato e che, in effetti, ci è sempre piaciuto. All’inizio c’era questa idea della circolarità del disco, nel senso che si potesse iniziare ad ascoltare da qualsiasi punto per andare avanti senza problemi. Diciamo che non siamo poi riusciti a portarla a termine, anche se per caso è riuscita una cosa simile senza che fosse realizzata in modo forzato, intenzionale. Però c’è questa cosa per cui volendo si potrebbe iniziare ad ascoltare partendo da metà ritornando nello stesso punto e avere comunque un senso di continuità. Quindi ci piace perché non era un concept album, ma poi alla fine in fondo lo è. C’è un filo conduttore che collega tutte le canzoni sia a livello musicale che di liriche e quindi diciamo che ci piace così. E’ riuscito come un concept non concept molto ciclico.
Possiamo dire, riallacciandoci alle parole di Luca, che la creatività spesso prende strade impreviste, ma alla fine trova sempre il modo giusto per dare voce a chi ne è artefice. Quindi anche un album pensato come concept, ma della cui direzione artistica gli autori sembravano aver perso il filo, alla fine è divenuto concept comunque. Con un esordio di questa caratura i Glimmer Void possono legittimamente aspirare a divenire una band di spicco nel panorama indie nostrano.


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