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martedì 23 novembre 2021

"I'M ALREADY DEAD" - UN RICORDO DI HANK VON HELVETE E DEI SUOI DEMONI - TESTO A CURA DI LJUBO UNGHERELLI


“Morto, sono già morto”, cantava nemmeno un anno e mezzo fa nella canzone “Dead”, che intitola il suo secondo disco a nome Hank Von Hell. Oltre un quarto di secolo addietro, si era unito a una gang di orridi debosciati dedita a strimpellare un suono fracassone ribattezzato “death punk” e a presentarsi in scena giocando su un’estetica che univa ineffabilmente nazisploitation e omosessualità sopra le righe stile Village People, in più utilizzando una ragione sociale che gli avrebbe precluso in via preventiva qualunque alta rotazione radiotelevisiva. Ecco, se vi eccitano i gruppi che salgono sul palco in maglietta, felpa o peggio ancora maglione, scarpe da ginnastica ai piedi, impalati sulla pedaliera e/o l’asta del microfono, Turbonegro non fanno proprio per voi. Un baraccone che definire kitsch è eufemistico, un ripugnante trionfo di cattivo gusto orchestrato da dei degenerati capitanati per l’appunto da un esuberante gran cerimoniere, trucco sugli occhi un po’ alla Alice Cooper, capelli neri arruffati, a torso nudo intemerato del fisico tutt’altro che scultoreo, sovente provvisto di ulteriori orpelli di scena tra cappelli, bandane, bastoni, spade e chi più ne ha più ne metta. Alterna svariati nomi d’arte, uno più improbabile dell’altro, fino ad assumere quello con cui assurgerà al rango di leggenda del rock’n’roll: Hank Von Helvete, il carismatico frontman la cui presenza scenica catalizza l’attenzione degli spettatori delle incendiarie esibizioni della band. Nel frattempo, il nome Turbonegro inizia a farsi strada nell’underground, ma sono parimenti gli atavici problemi di salute mentale e di tossicodipendenza di Hank a frenarne la rapida quanto effimera ascesa, tanto che, tempo di pubblicare il capolavoro “Apocalypse dudes”, sordida pietra miliare del genere, il circo toglie le tende e lascia la città. Triste dettaglio sciovinista, pare che la decisione di smettere venga presa a margine del ricovero in psichiatria cui Hank va incontro in quel di Milano. Giusto qualche anno per rimettersi in sesto, mentre le azioni Turbonegro accrescono il loro valore postumo, ed è tempo di reunion! Nuovo disco e tour.


Chi scrive, da fine Novanta adepto del culto dei reietti norvegesi del death punk, non si lascia sfuggire l’occasione: 2 giugno 2003, Arena Parco Nord di Bologna, seconda giornata dell’edizione inaugurale del Flippaut Festival, che annovera titani del calibro di Audioslave, Queens Of The Stone Age e The White Stripes (pari pari la medesima qualità che si poteva trovare agli impresentabili raduni open air recenti nell’Italia precovid…). L’estate 2003 è ricordata come una delle più roventi dai tempi della guerra del fuoco. Già a inizio giugno si volteggia intorno ai cinquantasei gradi all’ombra; ombra peraltro inesistente nel catino bolognese, quindi. A metà di un pomeriggio madido, i sei rifiuti della società prendono possesso del loro armamentario: impossibile non entusiasmarsi al cospetto della mise del chitarrista Euroboy, il naso aquilino di un Pete Townshend effeminato e truccato, una pesante divisa militare e in testa un colbacco con buona pace della canicola (trattasi di un uomo che pochi anni più tardi avrebbe sfidato e sconfitto il linfoma Hodgkin; che gli fa un’insolazione?), e quella istituzionale del bassista Happy Tom nei sempiterni panni del gaio marinaio, salpato dalle coste dei natii Stati Uniti per diffondere il verbo del death punk in Norvegia e nel resto del mondo. E ovviamente a troneggiare sul palco un ritrovato Hank Von Helvete: giacca aperta sul petto villoso e poco tonico e, al netto di una prova canora non scintillante, il suo solo essere lì rende speciale la giornata, abbrustolita viepiù dal set al fulmicotone degli eminenti balordi scandinavi ricoperti di denim come da tradizione. Dopo diciotto anni, arde ancora un vivido ricordo di quel concerto, trascorso saltando, sudando e urlando a pieni polmoni gli irresistibili ritornelli di “Don’t say motherfucker motherfucker”, “Back to Dungaree High” (che vedeva schierato l’amico e compagno di stravizi in tournée Nick Oliveri dei Queens Of The Stone Age), “Get it on”, l’inno alla pizza “The age of Pamparius” e l’apoteosi finale di “I got erection”, inno all… ok, avete capito. 


La perversa favola si interrompe alla fine degli anni Zero. Hank getta nuovamente la spugna, mentre i suoi compari proseguono con sfrenata dignità a portare a spasso la sigla Turbonegro con la complicità del cantante inglese Tony Sylvester (non risultano parentele con il negromante del rock italiano Steve).
L’ultimo decennio della sua vita, Hans-Erik Dyvik Husby lo spende tra poco convincenti progetti industrial rock, adesioni a Scientology, eremitaggio, ruoli da attore protagonista al cinema, uscite e rientri nel tunnel delle dipendenze, apparizioni televisive in qualità di giudice di talent musicali, divagazioni da crooner, autobiografie in lingua madre e un’ostinata e ostentata volontà di prendere le distanze dal suo passato intriso di perdizione e ambiguità sessuale. In tal senso, giova ricordare che, anticipando le attuali istanze lgbt, non binarie, gender fluid ecc, portate avanti per lo più da eterosessuali monogami che abusano di asterischi e altri simboli insulsi e straparlano di quanto sia ripugnante l’eterosessualità, Husby con afflato prettamente omosessuale si accoppia con una modella norvegese, con la quale concepisce pure un’erede. Tutto appare ormai compromesso, e probabilmente è davvero così, tant’è che, a sorpresa, nel 2018 il vate torna a occupare il suo lubrico pulpito sotto la sigla Hank Von Hell, regalando ai fedeli che mai lo avevano dimenticato due ultime fatiche discografiche, capaci di riattizzare la fiamma oscura che sempre ha pervaso l’opera e l’esistenza di un sublime giullare del rock’n’roll. Una patina di tracotante grossolanità che celava le debolezze dell’uomo spogliato dalle vesti sgargianti dell’Artista e del performer. Al momento, l’improvvisa scomparsa di Hank lo scorso 19 novembre 2021 a soli quarantanove anni è coperta da un comprensibile riserbo. Si può forse immaginare, se è lecito, che i demoni che implacabili gli davano la caccia siano infine riusciti ad acchiapparlo e gli abbiano presentato il conto di un’esistenza condotta costantemente sull’orlo dell’abisso. “…come una bestia feroce, non ho bisogno di distruggermi, aspetto solo il mio momento, aspetto solo il mio turno…”









 

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