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giovedì 10 dicembre 2020

"PALLONE, ASFALTO E BETONIERE" - FRANCESCO BERLINGIERI RACCONTA FOGGIA E I SOGNI DI UNA CURVA (E NON SOLO) // INTERVISTA DI MAURIZIO CASTAGNA


Il calcio, i sogni, i ricordi d'infanzia e la realtà, filtrata dal tempo, di una città come Foggia. Francesco Berlingieri racconta "Pallone, asfalto e betoniere" a Riserva Indie. Intervista di Maurizio Castagna. 


Ciao Francesco e grazie per la tua disponibilità. Parliamo di "Pallone, Asfalto e Betoniere", uscito in queste settimane. Quale è stata l'idea o la scintilla che ti ha fatto venire voglia di scrivere il libro?
Scrivo da sempre, è un bisogno irrinunciabile. Scrivo quel che faccio, quello che mi piace e vivo, che mi appassiona. Scrivo del Foggia, del mio amore incondizionato per la maglia rossonera e di quello, assai più variabile, per la mia città, praticamente sempre. Anche quando non me ne accorgo. Durante il primo lockdown mi sono ritrovato davanti ad un computer, nel più completo isolamento dal mondo, circondato dal dramma collettivo che stavamo vivendo. Ero pieno di riflessioni. “Pallone, asfalto e betoniere” è figlio di quell’isolamento e di quelle riflessioni.

Secondo te c'è una specificità della tifoseria foggiana rispetto ad altre, specie nel sud Italia?  
Tutte le tifoserie del mondo pensano che la propria fede sia imparagonabile ad altre e, in qualche maniera, specifica. Per quanto riguarda noi, non si può comprendere la passione per la squadra di pallone se prima non si spiega che, per la storia che abbiamo avuto, a Foggia il Foggia è l’unico elemento identitario di un’intera comunità. Tanto da poter azzardare che ciò che ci rende foggiani è il Foggia calcio. 

Il legame tra città e squadra di calcio è sicuramente molto forte, specie in provincia, dove gli ultras difficilmente sono sparsi in tutto il territorio nazionale come succede per le grosse squadre. Riesce la curva a essere anche oggi il "rifugio" delle ambizioni e dei sogni, spesso infranti, di una comunità?
La curva è ambizione, è sogno, è progetto, è gruppo. Ma è anche la cartina di tornasole di quanto avviene fuori. È un microcosmo. E se una città ha cento problemi fuori, ne avrà cento anche dentro. E, di solito, saranno gli stessi. Per cui, no: la curva, nonostante la sua importanza, non potrà mai riscattare nessuno. La battaglia è fuori.

Da ultras militante come hai visto cambiare la curva in questi anni? Ci sono stati cambiamenti anche politici tra i tifosi?
Le curve sono cambiate moltissimo, sì. Ma, senza dilungarmi – anche perché non sono un antropologo sociale – credo che il raffronto (a perdere) con i primi Novanta si possa sintetizzare in un paio di fotogrammi: i giovanissimi parlano troppo senza pratica e i vecchi stanno sulle balaustre a cinquant’anni. Prima, prima di parlare, di dire come dovrebbe essere, dovevi fare chilometri, prenderti la tua dose di gavetta e guardare i “grandi” all’opera, tentando di emularli. E a cinquant’anni se stavi ancora a guidare dei ragazzini di diciotto più che un “capo” sembravi uno con dei problemi. Era meglio prima. 
 

Da sportivo credo sia inevitabile non ricordare i tempi del Foggia di Zeman, un antieroe del calcio che ha fatto del lavoro e della lotta ai "poteri forti" il suo credo. Cosa rimane di quella esperienza? Ha avuto quel Foggia un impatto sulla città come poteva essere, facendo ovviamente i dovuti distinguo, un Maradona a Napoli?
Sportivamente sono un catenacciaro, ma ho vissuto l’intera epopea zemaniana e oggi, a distanza di trent’anni, non posso che riconoscere al Boemo – così come, ahimè, a Casillo – di avermi fatto vivere in una città elettrizzata e magnifica. Irripetibile. Per comprendere l’impatto di Zeman sulla nostra cultura popolare, basta dire che mio padre, per citarlo, dice “Il profeta” o “Il maestro”? Basta?


La squadra di calcio e la città. "Asfalto e betoniere" fuori dallo stadio. Come vivevi gli anni della tua gioventù? Quali erano i tuoi miti extracalcio e cosa sognava un giovane di Foggia allora e cosa sogna oggi, alla luce dello sviluppo della città negli ultimi 20 anni?
Nel 1989, quando il Foggia tornò in B con Giuseppe Caramanno, avevo dodici anni scarsi. Mi piaceva il Subbuteo, la tedesca in strada, Emil Butragueno, il Commodore 64, I Ragazzi della terza C, Telecapodistria e – scioccamente – preferivo la Bouchet alla Fenech. Nel 1991, all’esordio a San Siro con l’Inter, avevo già 14 anni. La sera mi aggregavo all’immenso alveare umano che si creava in centro, a piazza Italia. C’era un grande fermento, anche grazie al calcio. C’era un mare di gente in giro e tanti locali e moltissimi negozi inauguravano. Nel 1995, quando siamo retrocessi in B, avevo già scoperto il fuoco della militanza politica. Sei anni fa ero più o meno lo stesso di adesso. Ma sei anni, in quegli anni di formazione, sono un’infinità. Oggi, per la mia città, spero che riesca ad opporsi al vuoto valoriale che la sta ingoiando. Rendendo quelli come me dei musoni nostalgici, che piangono quando se ne vanno i vecchi.

Negli anni 80-90 la musica e il calcio spesso offrivano i "miti" a cui ogni giovane si ispirava. Nella piccola provincia italiana i concerti e le partite diventavano un grande momento di aggregazione, spesso anche politico. Come vedi i giovani di oggi che spesso hanno sostituito la militanza coi social e il raduno rock con la serie tv su Netflix?
Non li giudico, ma neppure li capisco. Sono ancora troppo legato all’idea della materialità: un concerto è viaggio, contatto, sudore; la politica è adrenalina, passione, presenza. La virtualità non mi incanta, ma non la biasimo. Certo, se ripenso al mio primo concerto da solo – a sedici anni, i Litfiba a Vasto – o alla mia prima trasferta in speciale al “Dorico” di Ancona, o alle notti d’occupazione o – perché no – all’odore dei lacrimogeni, alle cariche e alle controcariche della celere, istintivamente mi sento fortunato. E felice. E, francamente, non vorrei fare a cambio.

Se potessi tornare indietro e rivivere un momento particolare della tua militanza in curva quale sceglieresti e perché?
Rivivrei i ritorni. Praticamente tutti. Perché devi sapere che io sono tra quelli che adora(va) la domenica pomeriggio, specie autunnale o invernale, quando a partita finita si risale (o si risaliva) sui furgoni. E toccava tornare indietro, con il buio che circonda il mezzo, i ragazzi che hanno sonno, o che mangiano, o che bevono, e si dà un occhio alla strada mentre il lunedì già incombe. E per radio non vanno più le canzoni dell’andata, ma una radiocronaca di basket o di pallavolo. Vi è mai capitato di commuovervi pensando alla grandezza poetica di quel momento?

Nella vita di tutti i giorni gestisci una libreria. Come si sviluppa l'attività culturale a Foggia? E' una scena viva?
Come per molte altre città di provincia – che poi, alla fine, tolte due o tre piazze, tutta Italia è provincia – l’attività culturale è una specie di feticcio borghese. Abbiamo un teatro molto importante riaperto da poco, con delle stagioni concertistiche dense e apprezzate; abbiamo presentazioni di libri ed eventi simili. Ma bisogna sempre distinguere l’appassionato dal presenzialista per status. Per quanto mi riguarda, è una “cultura” che non mi interessa. Da me, in libreria, vengono tanti ragazzi e tante ragazze. Sono interessati, appassionati. Gramscianamente, preferisco parlare un’ora per consigliare un tascabile a loro che ascoltare le vanagloriose stronzate degli intellettuali.
 
Grazie ancora Francesco per la tua disponibilità e prima di chiudere ti invito a dire ai nostri lettori come possono acquistare "Pallone, Asfalto e Betoniere" e interagire con te.
Il libro, essendo un’autoproduzione, lo vendo direttamente io. Quindi: contattare me o la libreria. E spedisco ovunque. Grazie a voi, davvero.


Francesco Berlingieri






 

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