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martedì 23 marzo 2021

TRE RACCONTI A TRENTATRE GIRI / "DIRT" DEGLI ALICE IN CHAINS (LATO A) - TESTO DI LJUBO UNGHERELLI

TRE RACCONTI A 33 GIRI

Come un Flaubert trascinato di peso nell’iconografia rock’n’roll. Tre racconti ispirati ai testi di altrettanti LP, ciascuno filologicamente suddiviso in lato A e lato B.


3. ALICE IN CHAINS “DIRT” (1992)
LATO A: “THEM BONES” “DAM THAT RIVER” “RAIN WHEN I DIE” “SICKMAN” “ROOSTER” “JUNKHEAD”


      Il viaggio non iniziò nel migliore dei modi. Diciamo anche che non ero troppo presente a me stesso. Era come se due diverse entità coesistessero in me. Ognuna aveva i propri tratti distintivi, ma talvolta tendevano a intrecciarsi, fino a sovrapporsi. Una di queste due facce, in particolare, era ossessionata dal pensiero della morte. A giudizio di qualcuno, eravamo già nati dentro una fossa. Mi sentivo così solo, un inutile fossile in un nuovo scenario, destinato ad andare a finire in un enorme vecchio mucchio di ossa. Era una tassa da pagare, come i peggiori sogni che diventano realtà. Mi vedevo morto e disteso sotto un cielo spaventosamente rosso. Tutte queste paranoie potevano condurre a fatti incresciosi, come quando feci a cazzotti con uno dei miei migliori amici. Le presi di santa ragione, a dirla tutta. Mi pareva d’essere stato scaraventato in fondo a un canyon, o annegato in un lago, e che la mia testa venisse schiacciata come quella di un serpente. Ero incespicato dopo un suo spintone, e m’ero beccato una pedata in faccia e, a stretto giro, un colpo col rastrello che usava per i lavori in giardino. Cercavo di ostentare uno sguardo di sfida, ma continuavo a buscarle a un ritmo implacabile da omicidio preterintenzionale. Non c’era modo di arginare quel fiume in piena, e alla fine non me ne fregava nulla. Le ferite fisiche sarebbero guarite, prima o poi.


Ad affiancare questa parte di me, ve n’era un’altra, finanche più disperata e distruttiva. Essa si struggeva nel ricordo di amori finiti male e cercava di lenire le proprie sofferenze con rimedi ancor più dolorosi. Dubito che lei fosse pronta per venire a contatto con la mia frustrazione. Del resto, ero un rebus irresolubile per chiunque. Avrebbe potuto provarci, o impedirmi di nascondermi, o dirmi di non piangere. Avrebbe forse perdonato le mie menzogne, e avrebbe a sua volta mentito pur di salvarmi. Avrebbe persino potuto amarmi di nuovo. Ma avrebbe finito per odiarmi, e non l’avrei più sentita chiamarmi fino al giorno della mia morte, sotto il peggior temporale che si possa immaginare. Cosa diamine ero, ordunque? Un uomo malato. Sarei stato fortunato a ritrovarmi stecchito in un istante, piuttosto che subire ancora quel supplizio. Avevo le mani sul timone ma non ero in grado di governarlo. Ormai i miei pensieri erano divenuti le mie paure più grandi. In fondo, che differenza c’era? Sarei morto comunque, prigioniero nel mio mondo di nefandezze assortite, incapace di uscirne. Ero una sorta di lebbroso, lercio e purulento. Vedevo la fine approssimarsi, ma parimenti ero consapevole che non avrei avuto requie finché la mia testa non si fosse ripulita del tutto. Per mitigare tutto questo dolore, fatto dei più oscuri ricordi nascosti negli anfratti della mente, cercavo di camminare a testa alta e con occhi vigili attraverso una valle di rovine e disperazione. Questa valle racchiudeva tutti i miei incubi e le mie sofferenze. Al suo interno, talvolta, capitavano altri reietti, pronti a seguirmi in quell’accettazione della propria perdizione. Le allucinazioni che mi procuravano questi viaggi evocavano visioni inquietanti, come esperienze di guerra ancor più traumatiche delle mie già sgradevoli reminiscenze passate.


Mi muovevo goffamente in mezzo alla vegetazione, mimetizzato nella mia uniforme verde. Il sudore mi provocava un pungente bruciore agli occhi, mentre cercavo di orientarmi lungo sentieri che parevano non portare da nessuna parte. I proiettili sibilavano in lontananza. Avevo ingerito le mie pillole contro le malattie portate dagli insetti, che a quelle latitudini potevano rivelarsi mortali. Intorno a me, tuttavia, la situazione era se possibile più grave. Il mio commilitone stava esalando l’ultimo respiro, mentre un altro era saltato su una mina, che gli aveva portato via una gamba. O dio ti prego aiutami a sopravvivere. Per passare nottate meno desolanti, non più alla mercé di simili orrori, non avevo che da trovare un nuovo amico che mi riportasse sulla retta via. Non c’era nulla di meglio di uno spacciatore dal quale acquistare roba buona. Quella massa di ipocriti perbenisti della società ci giudicava dei disgraziati, quando invece eravamo una razza superiore. Sballati, tossici, mostri. Eravamo presi bene, e questo ci bastava. Mi sentivo felice, in quei momenti. Lo ero eccome! Ne ero pienamente consapevole. E soprattutto guardavo dall’alto in basso gli omuncoli che trascinavano la loro insulsa routine in un’esistenza vuota e misera. Non erano in grado di comprendere noi consumatori di droghe, e di certo non ci sarebbero riusciti con i loro stupidi libri e i loro inutili studi accademici. Sarebbe bastato che si lasciassero andare e aprissero la mente, e c’era da scommetterci che avrebbero iniziato anche loro a fare come me, e non sarebbe stato affatto male!


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