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domenica 26 ottobre 2025

PLASTICDROP - LIFE, DEATH AND MIRACLES - RECENSIONE, INTERVISTA E REPORT DEL LIVE AL BLAH BLAH DI TORINO IL 16-10-2025 A CURA DI LUCA STRA PER #DIAMANTINASCOSTI


La tenacia e il desiderio di realizzare i propri sogni sono la benzina che alimenta il motore dei Plasticdrop. La band sarda, nata come terzetto, si è stabilizzata dal vivo, nel recente mini tour italiano, in una formazione a quattro elementi ed è composta da Paolo Pani (voce e chitarre), Martina Manca (basso e cori), Andrea Bandino (chitarra) e Alessandro Brundu (batteria e cori). A gennaio 2025 è uscito il loro primo vero album, intitolato “Life, Death and Miracles” per l’etichetta Argonauta Records-Octopus Rising, che ha un roster internazionale e, quindi, apre loro importanti possibilità di farsi conoscere anche all’estero. “Life, Death and Miracles” è interamente dedicato ad un amico speciale per la band che ha deciso di togliersi la vita lasciando una ferita nei loro cuori che non può rimarginarsi. Un concept album, quindi, che riflette sull’esistenza, sulla morte e sulla rinascita con l’autenticità che solo un’esperienza così dolorosa vissuta in prima persona può dare. Il disco, molto compatto e coerente nel suono, ha il pregio di saper unire il post grunge e l’heavy rock con uno spiccato gusto per la melodia. L’apertura è affidata a “Life (I Want You To Hear me)”, prima canzone del trittico dedicato alla vita, alla morte e ai miracoli che segnano la nostra esistenza quotidiana. Il riff in primo piano si fonde con elementi inattesi come il coretto iniziale che richiama alla mente il britpop e la citazione di Daytripper dei Beatles. “Death (Not for you)”, secondo pezzo del trittico, affonda invece le proprie radici, in particolare nel refrain, nei Foo Fighters più diretti di album come “Wasting Light” rielaborando però il suono della celebre band americana in un’interpretazione personale. Uno dei punti di forza dei Plasticdrop sono i cambi di tempo e, da questo punto di vista, la traccia più emblematica è “2016”, un pezzo che spiazza l’ascoltatore con l’estrema dinamicità e che è uno dei pilastri dell’intero lavoro. Altri brani degni di nota sono “Simply beautiful” con il suo incedere da pezzo hard rock melodico anni 80 e la conclusiva “Miracles (Alive)”, terza e ultima parte del trittico vita-morte e miracoli. Con le sue chitarre compatte che costruiscono un vero wall of sound è una canzone dedicata alla rinascita ed ha una sezione centrale in cui, da una breccia nel muro del suono, affiora un momento intimo voce e chitarra.
L’intervista, realizzata al Blah Blah la sera della loro data torinese, si è sviluppata in una piacevole chiacchierata e, come avviene spesso in questi casi, ha rivelato molti aspetti dei Plasticdrop non solo come musicisti, ma come persone.


- Partiamo dal titolo dell’album “Life, death and miracles” che si può tradurre con “Vita, morte e miracoli”, un’espressione che in genere si usa quando si vuole raccontare tutto di una persona. E’ un album in cui volete mettervi a nudo, raccontare molto di voi?
MARTINA – E’ legato al concept dell’album che volevamo fosse composto da tre elementi. “Life”, “Death” e “Miracles” sono tre brani e tre personaggi che vanno poi a comporre anche la copertina dell’album. 
ALESSANDRO – Le tematiche affrontate nel disco sono la vita, la morte, in particolare ci sono alcuni testi che parlano di suicidio, quindi tematiche abbastanza delicate. Molti testi sono infatti dedicati a un nostro amico che purtroppo si è tolto la vita. Poi ci sono i miracoli, “Miracles”, perché nell’album affiorano anche tematiche sul superamento di certi problemi e quindi la rinascita, il miracolo dopo i periodi bui. Il disco quindi è strutturato su questi tre concetti, la vita, la morte intesa come i problemi che fanno parte della vita e poi la risoluzione di questi problemi. 
- Nel 2024 avete firmato con “Argonauta Records – Octopus Rising” che è un’etichetta che ha nel proprio roster, tra le altre, anche band americane e del Nord Europa. Questo vi dà una visibilità internazionale? Ho visto che compaiono vostre recensioni anche su blog e siti stranieri. 
MARTINA – Sì, dopo aver firmato con l’etichetta c’è stata tutta la campagna di promozione dell’album che ha spinto il disco su diverse piattaforme, diversi blog e effettivamente gli ascolti sono molto aumentati e abbiamo ricevuto tanti contatti dall’estero, ci hanno anche chiesto di andare a suonare negli Stati Uniti o in Germania. Il problema è che l’etichetta non ha un booking e quindi per fissare le date dobbiamo fare da noi. Date come questa di Torino le ho fissate io, ma per le date all’estero ci vuole un lavoro ben strutturato oppure si deve ricorrere a una Booking agency. Stiamo cercando qualcosa di valido ma per ora non abbiamo ancora trovato la Booking agency perfetta cui affidarci per le date in Europa. 
- Nell’album ci sono i tre brani di cui parlavamo, cioè “Life”, “Death” e “Miracles” che sono gli unici tre ad avere delle parentesi, rispettivamente “I want you to hear me” per “Life”, “Not for you” per “Death” e “Alive” per “Miracles”. Non penso che sia una scelta casuale.
ALESSANDRO – Sono i tre brani chiave del disco che più si accostano alla visione che ciascuno ha. “Life” parla delle aspettative di vita che una persona può avere.
MARTINA – Prima il brano si chiamava “I want you to hear me”, che ora è tra parentesi. Il titolo quindi è stato ripensato dopo che la canzone aveva già un titolo ed è stata scelta per impersonare la vita. Quindi le tre canzoni, in realtà, avevano già un titolo nell’album e poi abbiamo deciso quale fosse “Life”, quale “Death” e quale “Miracles”. 
ALESSANDRO – “Death” parla di una rottura, una problematica che fa parte della vita e “Alive” parla di rinascita.
MARTINA – “Death” in realtà può essere letta in diversi modi e ha delle sfumature in cui una persona può rivedersi quando attraversa momenti di difficoltà pesanti come la depressione, quando non si riesce a vedere una via d’uscita. E’ una canzone che può essere letta sotto diversi aspetti, ma comunque ci sono delle frasi che fanno riferimento a quelle problematiche. 
- L’attacco di “Life” con gli “whoo whoo” in realtà più che l’hard rock o il post grunge ricorda il britpop inglese. Volevate ottenere un effetto spiazzante?
ALESSANDRO – E’ stata una mia idea. In realtà quei cori nel brano non c’erano ed è una cosa nata durante le registrazioni. Una cantilena che mi è venuta in mente in macchina, mentre ascoltavo i premix del brano che ci aveva dato Alberto, da cui abbiamo registrato e che poi è diventato nostro chitarrista. Quando siamo andati a registrare le voci ho proposto questa mia idea dicendo “ragazzi secondo me ci sta bene”, l’abbiamo provata e ci piaceva. Però fino all’ultimo avevamo due versioni, una senza i cori e una senza e alla fine abbiamo scelto quella con i cori. 
- Il riff di chitarra di “Life” che sfocia nel ritornello mi ricorda la prima parte di quello di “Daytripper” dei Beatles. E’ un’assonanza voluta?
PAOLO – E’ un riferimento decisamente voluto, una citazione, tant’è che nel finale viene ripreso pressoché interamente, una sorta di cameo, oltre che una citazione, un omaggio a un gruppo che, pur essendo nel 2025, continua a dare tanto a chiunque faccia musica.
- La fusione tra potenza e melodia caratterizza tutto il disco. Quanto è importante per voi la “cantabilità” dei brani?
PAOLO – E’ molto importante. Siamo cresciuti negli anni 90 e quel mix di potenza e armonia ci contraddistingue, fa parte di noi e non potrebbe essere altrimenti. 
MARTINA – Anche se tutti abbiamo avuto dei progetti diversi nel passato, Ale ha suonato con un gruppo hardcore, io ho suonato con un gruppo alternative rock, Alberto ha suonato con un gruppo metal, però la melodia è qualcosa che unisce tutti e quattro. Abbiamo trovato un compromesso. 
- Avete dedicato un pezzo al 2016 che è anche un brano interessante perché ha molti cambi di tempo. Qual è il motivo?
ALESSANDRO -  Il 2016 è stato un anno particolare per tanti aspetti legati sia a fattori personali, sia a livello musicale come band. Comunque sono anche cose nostre personali che vogliamo tenere per noi. Nel 2016 comunque ci siamo formati. Il testo è scritto da Paolo come tutti i testi del disco, a parte “Alive” che è stato scritto da Martina, Paolo ed io.
- I vostri brani nascono da jam session oppure arrivate in studio già con delle idee che poi sviluppate tutti insieme?
PAOLO – I brani nascono principalmente da idee che ho io, solo perché poi è più semplice per chi deve cantare i brani avere un’idea precisa sullo spirito del pezzo. Quindi arrivo con un’idea e poi con i ragazzi la si sviluppa in sala prove. Capita anche a volte che abbia un brano pronto e poi cerchi gli arrangiamenti con i ragazzi. 
ALESSANDRO – Qualche volta è capitato che anche io abbia portato qualche riff di chitarra. Sono il batterista però mi diletto a suonare la chitarra a casa e quindi qualcosa di buono l’ho sfornato anch’io anche se succede di rado. E’ anche capitato che un pezzo nascesse da una linea di basso o da un giro di batteria, però diciamo che nella maggior parte dei casi è Paolo che porta i riff in sala e poi si sviluppano tutti insieme. Strutture e cambi vengono decisi insieme. 
- Cosa volete trasmettere con la sezione centrale di “Miracles (Alive)” in cui restano in primo piano solo la chitarra e la voce effettate?
PAOLO – E’ un momento legato all’introspezione, quando ti rendi conto che per quanto le difficoltà della vita possano essere toste c’è sempre qualcosa che ti può portare a sentirti vivo, a vedere che c’è anche qualcosa di bello. 
MARTINA – Questo album è pesantemente segnato dall’evento di cui ti parlavamo prima, cioè la morte del nostro amico Carlo per suicidio. Era molto importante per tutti noi e questo fatto ci ha segnato nel personale e continua a influenzarci anche nella musica, perché nella musica esprimi quello che hai dentro, cose di cui spesso non riesci neanche a parlare. L’album risente tanto di quell’evento. Malgrado siano passati anni quasi tutti i pezzi contengono riferimenti a ciò che è avvenuto.
- Scrivete in inglese, avete mai pensato di scrivere in italiano per arrivare a un pubblico più vasto? Perché per quanto l’inglese sia una lingua veicolare non tutti gli italiani la capiscono.
ALBERTO – Premetto che essendo io arrivato a disco finito, cioè l’hanno registrato da me ma mi hanno chiesto dopo di unirmi per suonare la seconda chitarra, non ho messo bocca sui brani, sugli arrangiamenti, sui testi. Penso che sia bello essere un po’ campanilisti, ma se andiamo a vedere i numeri del pubblico anglofono ha un senso cantare in inglese e poter andare in tutto il mondo piuttosto che solo in Italia. Poi per noi allontanarci dalla Sardegna è sempre un impegno, una conquista e diciamo che stiamo andando “in continente”. Però quando si prende un aereo per Londra o Los Angeles, rispetto a prenderlo per Torino o per Milano dura di più il viaggio ma hai una visibilità molto più ampia, si aprono più porte. E’ proprio una questione di numeri. Secondo me si possono fare dei brani in italiano nel futuro però l’inglese è preferibile. 
PAOLO – Oltre al discorso che ha fatto Alberto, che è condivisibilissimo, è anche legato al fatto che cantare in italiano è più complicato che cantare in inglese, a livello proprio musicale. Non è facile fare un genere come il nostro e renderlo allo stesso modo cantato in italiano.
- In Sardegna, la vostra terra d’origine, è stato inventato il genere “spaghetti western” ad opera di Sergio Leone anche grazie ai paesaggi che sono simili a quelli del West americano. Quanto c’è della Sardegna nella musica che fate?
ALESSANDRO – In realtà nulla.
PAOLO – Non è in realtà una cosa che controlli, ma che, volente o nolente, hai dentro. Il fatto di vivere su un’isola, essere diciamo “recluso” dal resto del mondo e trovarti in un ambiente anche arduo da affrontare porta a delle sonorità che rispecchiano questa situazione. Questo vale per noi ma penso per tutte le band che arrivano dalla Sardegna.
MARTINA – Diciamo che c’è più fame di esplorare, di uscire, di far conoscere la propria musica anche a un pubblico diverso dal solito, perché alla fine in Sardegna ci conosciamo tutti, interagiamo nei vari progetti, però la necessità di far conoscere quello che facciamo anche a qualcuno che non ci ha mai visto è forte.
- Una band qui di Torino che si chiama “Band Pensanti” ha un motto molto acuto, ossia “il rock non è morto, lo hanno nascosto, sta riposando”. 
PAOLO – Sono decisamente d’accordo perché la storia è ciclica, ci sono cose che torneranno sempre perché quando qualcosa è bello va riscoperto. Poi ovviamente c’è un’evoluzione nei generi, non è mai un ripetersi ma è evolvere quello che c’è stato in un modo nuovo, pur con le stesse basi. Quindi “rock n’ roll never dies”, il rock non muore. 
- Ultima domanda su “Phoenicopter”, il vostro primissimo EP. Volevo parlare con voi di “Silence your mind”, che ha quell’attacco alla Biffy Clyro molto bello.
PAOLO – Anche quelli sono brani scritti da me, nati a casa, magari con una chitarra acustica. Tra l’altro io i Biffy Clyro li ho scoperti nel momento in cui mi hanno detto che certi nostri brani li ricordassero. Sono contento che sia una cosa che a qualcuno piace. 
- Dato che voi fate post grunge mi è venuto in mente, pensando ai Pearl Jam, che ad ogni concerto, nei tour dei primi anni 2000 in cui li seguivo, facevano uscire una locandina diversa, personalizzata, disegnata appositamente per quella data. Ho notato che per la vostra data di Como avete messo su Instagram una locandina che non mi pare sia riportata altrove. Fareste mai come i Pearl Jam dal punto di vista grafico?
MARTINA – Avendo la possibilità sì ma purtroppo nessuno di noi è un grafico. 
PAOLO – Mio fratello Mirko è un grafico fighissimo e lavora a Berlino con tante belle realtà, soprattutto stoner, metal. Ci siamo affidati sempre a lui per le copertine. Così come anche tutte le grafiche del nostro merchandising. La tua idea è molto bella ma, come diceva Martina, non essendo nessuno di noi grafico è una spesa. Ci autofinanziamo tramite i live, quello che andiamo a guadagnare viene utilizzato per pagare le spese.
MARTINA – Anche perché ti puoi immaginare che noi per arrivare dalla Sardegna abbiamo preso otto biglietti aerei all’andata e otto al ritorno perché avevamo gli strumenti da trasportare. Alessandro ha portato solo i piatti della batteria ma è comunque un ingombro notevole. Quando diventeremo ricchi e famosi lo faremo (ride).


Ho avuto occasione di vedere anche la band in azione. Infatti la sera del 16 ottobre 2025 i Plasticdrop si sono esibiti al Blah Blah di via Po a Torino, storico locale dell’indie alternative rock. Il concerto, di durata relativamente breve a causa di ritardi indipendenti dalla volontà del gruppo, è stato comunque una fedele cartina di tornasole del sound della band sarda. L’attitudine sul palco è espressione della loro esperienza, il massimo risalto viene dato alla musica senza particolari istrionismi per sottolineare l’importanza di concentrarsi sulle canzoni. Anche gli intermezzi parlati si sono limitati al minimo indispensabile per spiegare il significato di alcuni pezzi. L’acustica abbastanza buona ha dato risalto a tutti gli strumenti soffocando però a tratti la voce di Paolo Pani. Eccellente il lavoro di Alessandro Bundu, instancabile alla batteria, che ha trasformato ogni goccia di sudore in energia per l’intera durata del live. Si è trattato insomma di un sano e coinvolgente rock show alla vecchia maniera, di quelli di cui porti a casa piacevoli ricordi. La conclusiva “Miracles (Alive)” è il pezzo in scaletta che ha spiccato maggiormente con una resa dal vivo che supera anche la versione in studio. Complessivamente la resa live dei brani di “Life, Death and Miracles” è stata più che buona.


Recensione e intervista a cura di Luca Stra











 

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