C'è una scena che più di altra colpisce la mia sensibilità di spettatore durante la visione di "Sound of Metal" di Darius Marder, candidato a sei premi oscar tra cui miglior film e miglior attore protagonista (Riz Ahmed) . Un gruppo di ragazzini non udenti si ritrova con Ruben, batterista di un duo rock improvvisamente colpito da sordità durante un tour, con le mani su un pianoforte per "sentire" la musica nell'unico modo in cui possono farlo: con le vibrazioni. Quegli sguardi, quelle palpebre abbassate, perchè la musica non ha bisogno di occhi, valgono più di mille ascolti superficiali a cui siamo abituati ogni giorno, quando un brano più che emozione è quasi sempre sottofondo mentre facciamo altro. Perchè in questo mondo dove la musica è ovunque, dal supermercato, al bar, alle infinite playlist liquide sullo smarthphone, quel gesto rimette al centro l'importanza di "sentire" la musica e di lasciare che entri nel nostro corpo per avvolgerci. Quante volte durante il giorno lasciamo che nelle nostre orecchie transitino note quasi sempre poco più che insopportabili che ci accompagnano in ogni azione e di cui non ci rimarrà niente dentro?. Oppure quante volte saltiamo, fermiamo, godiamo di parte un brano per il semplice ritornello quando magari la composizione è complessa e figlia di innumerevoli "particolari" che la riproduzione in streaming appiattisce? Quel gesto, quelle vibrazioni, quell'emozione che entra nel corpo di ragazzi che possono solo "sentirla" ma non "ascoltarla" è la chiave di tutto il film perchè non riguarda solo la musica. Ruben vive il dramma devastante di ritrovarsi sordo ed escluso dal suo mondo fatto di concerti, successo e del privilegio di vivere di musica con la propria compagna. Scopre una dimensione alternativa, fatta di silenzi, di sguardi, di vibrazioni, di esseri umani, di un linguaggio dei segni che non lascia spazio a fraintendimenti e a giri di parole. Una società, quella "normale", a cui Ruben cerca disperatamente di aggrapparsi con un'operazione che gli ridarà una parvenza di udito, schiava della forma ma soprattutto dell'apparenza di tante, troppe, spesso inutili, parole. Il film è un pugno allo stomaco, pesante, forte, che solo un giudizio marginale potrebbe limitare alla scoperta di un mondo, quello delle persone affette da problemi uditivi, di cui è troppo facile limitarsi alla compassione, ma è soprattutto una riflessione sulle nostre vite costantemente connesse 24 ore al giorno e ricche di video, audio, rumori, messaggi, parole, e povere di quel silenzio di cui abbiamo paura e che ci permetterebbe di ascoltare il bene più prezioso di ognuno di noi: la nostra anima.
Nessun commento:
Posta un commento