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venerdì 15 maggio 2020

"TORINO TOSSICA, CREATIVA E KURT COBAIN" - DOMENICO MUNGO RACCONTA "WITH LOVE" E LA TORINO SOCIALE E MUSICALE DEGLI ANNI 90 - INTERVISTA DI MAURIZIO CASTAGNA


Abbiamo intervistato Domenico Mungo per parlarci del suo ultimo libro "With Love. Epifanie di Kurt Cobain e di me nella Torino musicale degli anni 90."



Dedico questa intervista al Maestro Ezio Bosso
mio amico di gioventù
compagno di scuola
Genio gentile
bello ed Immortale
come un Dio Greco.
D.M.


Ciao Domenico e grazie della disponibilità. Parliamo di "With love", il tuo ultimo libro uscito per Miraggi in cui unisci idealmente due città molto lontane tra loro come Seattle e Torino. Qual è il filo, personale e musicale, che le unisce? Inoltre Kurt Cobain è diventato nel corso del tempo un'icona. Cosa ha rappresentato per te nei primi anni 90 e cosa pensi affascini di questo personaggio oggi?

Kurt Cobain in un certo senso era una sorta di Cristo: blasfemo, laico, punk, sessualmente incerto, tossico, creativo, borderline, bipolare, ipocondriaco. Cagava sangue per i dolori di stomaco psicosomatici e li curava con l'eroina: quando scoprì l'Imodium era troppo tardi, ci fece su una canzone che poi la Geffen, dopo averlo scippato a suon di milioni alla Sub Pop, intitolò Lithium per non pagare i diritti alla casa farmaceutica. Kurt fece una cosa che solo Cristo avrebbe potuto compiere. Resuscitare un morto. Un morto che si chiamava rock’n’roll. Non solo il punk, non solo la musica alternativa, ma tutto il rock era morto nel 1994: Rock is dead! E Kurt con quel colpo di fucile a spappolargli il cranio sembrò scuotere il cadavere del rock. E a lui lasciare il passo. Perdendo l’anima. Precipitata nell’inferno. Missione di questo libro è prelevare l’anima di Kurt Cobain da quell’inferno e spedirla dove merita. Nel nostro amore. Trascinarlo via da quell’inferno rosso e zolfo, col cranio sfondato e il cartello “Suicida” posto al collo nel museo delle cere dove lo hanno messo fra Jimi Hendrix e Jim Morrison, nel “club dei 27". Ma Kurt non era come loro. No, Kurt morirà più come Cesare Pavese o come Céline. Con un colpo di fucile che fa esplodere il cinema che ha nel cervello. Come uno scrittore o un poeta, non come una rockstar.  O forse sì. O forse, ancora, come un grande regista stanco di continuare a girare lo stesso film con un copione già scritto. Ma With Love è anche la formula attraverso la quale ho sempre cercato di vivere la mia esistenza. Ho sempre vissuto seguendo il sentimento, la passione, quello in cui credo e credevo e riversandovi sopra tutto il mio amore. E naturalmente questa prerogativa ad affrontare la vita in maniera impulsiva, passionale, con il cuore e raramente con il cervello ha avuto i suoi effetti collaterali talvolta fatali per me. With Love è il ponte ideale tra due città, Torino e Seattle, ammalate del virus della crisi post-industriale della fine del Secolo Breve: due città operaie decadute e decadenti, dove la Boeing e la Fiat implodono sulle carni vive degli operai e scatenano migliaia di suicidi sociali e reali, due città by the River, ai confini dell'Impero della musica e della neo-cultura mainstream e degli incroci delle mode massimaliste, ma influenti e all'avanguardia nel riuscire a catalizzare la disperazione di una generazione disorientata dalla dissoluzione del Capitalismo in una linfa creativa artistica dirompente e seminale, che inonderà, dalle rispettive coordinate centrifughe, tutto il mondo a venire. With Love è la sceneggiatura sghemba di un filmaccio di apparente pessima qualità, un B-Movie girato da Rob Zombie con 500 dollari di budget, sul cui sfondo si dipana una colonna sonora digrignante, romantica, caotica, rumorosa, poetica come non mai da allora in avanti. Il brulicare di pensieri e azione della mia vita si è innestata anche, ma non solo, anzi tutt'altro che sugli accordi dei Nirvana, sicuramente, ed è per questo che ne ho fatto il tema fondante di questo romanzo/antiromanzo, ma anche di tutti gli altri libri di sangue che suonavano, urlavano, pregavano e creavano linfa allora e nei secoli a perpetua memoria. With Love è una confessione, mia ma anche di Kurt. E di una intera generazione di sconfitti dal sogno utopico del Secolo Breve. Kurt che per molti è un esempio da rinnegare, per altri un’icona da santificare. Per me semplicemente il miglior cantante chitarrista che avrei mai potuto arruolare in una band di cover dei Pixies. Questo non è l’ennesimo libro sui Nirvana. In senso stretto non è nemmeno una biografia di Kurt Cobain. È altro. È un tentativo falso di trovare la mia verità. È un’aureola di pattume che orbita intorno alla testa sfondata di Kurt. E attorno alla mia vita. È un mobilificio dove costruire finalmente la bara a forma di cuore in cui riporrò tutti i miei demoni. Ed i suoi. Per sempre.


Ogni generazione ha bisogno di eroi. E quasi sempre nessuno è profeta in patria. Nella Torino 80/90 c'erano eroi locali? Personaggi che magari anche senza diventare icone hanno rappresentato un riferimento per la scena indipendente non solo musicale?

Noi eravamo esegeti del nichilismo e della furia iconoclasta. Esaltavamo l'abbattimento degli idoli e degli eroi, soprattutto in ambito musicale, artistico e politico. Eravamo punk anarchici, forse inconsapevoli della dottrina politica ortodossa, ma molto più pragmatici ed operativi. Alcuni dei più letterati ed istruiti tra noi citavano sì Bakunin, De Bord, Paul Eluard, Benjiamin Perèt, Chomsky, Popper, Pasolini, Berneri ed Hakim Bay come numi tutelari, ma anche e soprattutto H.R. dei Bad Brains, Iggy Pop, i Ramones, Henry Rollins, Jello Biafra, GG Allin, ICE T ed i Body Count, i Public Enemy, il metal aggressivo di Megadeth e Metallica ed il thrash dei Sepultura e degli Slayer, i Misfits, gli Attitude, i Black Flag, gli Stooges, gli MC5, gli Sham 69, i Discharge e i Nofx di Fat Mike, i Fugazi, i Television, i Killing Joke, i Damned, gli Stranglers, i Bauhaus, i Rage Against The Machine di Tom Morello e Zack, gli Youth of Today, i Prong, i Madball, i NIN di Reznor ed i Ministry di Al Jourgensen, Mike Muir ed i Suicidal Tendencies e gli Infectious Grooves, quei bacchettoni vegani degli Shelter e dei Gorilla Biscuits, i Minor Threat, i Dead Kennedys, il metal negro funky dei Living Colour, il crossover meta-razziale di Jane's Addiction, Faith No More, George Clinton, Fishbone, Primus ed F.F.F., la teutonica imponenza industrial sinfonica degli Einsturzende Neubaten, gli hardcorer svedesi “kill the Abba” Refused, tutta la matassa industriale neuro-dialettica di Pitch Shifter, Front Line Assembly, Laibach, Neurosis, il gotico sguardo malinconico di Nick Cave, l'Alternative Tentacles, The Ex, il noise intellettuale dei Sonic Youth, dei Jesus Lizard, dei Morphine, degli Helmet, il post rock di June of '44, Gastr de Sol, Don Caballero e Tindersticks, qualche residuo grunge ante Nirvana come Tad, Mother Love Bone, Dinosaur Jr e Husker Du, Afghan Whigs e Soundgarden, i Pixies dal pop-punk neoromantico, la nascente rave culture derivativa dalle feste illegali nei boschi dello Yorkshire e del Sussex e dei capannoni abbandonati di Madchester e South London, la 4AD ed i figli suicidi dei Joy Division, “finanche il free jazz punk Inglese e la new wave italiana” e la scuola punk-rock autoctona fine anni Ottanta ed ispirata da quel sano “do it yourself” che ci portava a essere il microfono di noi stessi: i Kina, i Wretched, gli Infected, i CCCP, i Disciplinatha, i Negazione, i Nerorgasmo, gli Skiantos. Basta Guccini e fiaschi di vin! hippies e freakkettoni con i sandali, i cannoni rollati ed i djambè. Al massimo gli Area di Demetrio e il De Andrè letterario ed anarchico iniettato però in un sogno biomeccanico di H.R.Giger e con i testi di Battiato e Giusto Pio. Eravamo belli, emaciati, tamarri. Senza creste e chiodi da Variety o Vogue London, ma con indosso quello che trovavamo al mercato delle pulci del Balon di Torino lungo la Dora Riparia e che assemblavamo secondo un gusto ed una esigenza tutta individuale, senza stilisti di professione e uniformi da indossare ad uso dei fotografi e della TV. Eravamo ultimi e primi moichani scapigliati con la voglia di riprenderci tutto quello che stava crollando attorno a noi nel rutilante digrignare di una catena di montaggio in coma profondo. Occupavamo scuole, università e spazi morti che diventavano d'improvviso fucine virulente di creatività. Avevamo sostituito al piombo degli anni Settanta e Ottanta i multicromatici sbuffi della ribellione che seppure spesso erano venati dal nero che uniforma nella battaglia contro il sistema, sapeva far rivivere le diverse anime multietniche e multiculturali della più grande città portuale senza il mare che eravamo noi di Torino Motorcity. Il punk hardcore abbandonava la retorica politica ed anthemica per slogan stereotipati e si faceva trascendenza introspettiva e altrettanto rivoluzionaria, lirica e visionaria nei versi ispirati ed intimisti dei Negazione di Tax, Zazzo ed il caro Marco Mathieu ed i Declino di “Mungo” V.R. Bertotti e degli Ifix-Tcen-Tcen. La noia era il Moloch da abbattere in una città grigia dove non succede mai niente, nemmeno marcire in una officina di Mirafiori, come cantavano i Rough di Piero Maccarino tra uno striscione degli Ultras Granata, una rissa con i mods e la rabbia dei figli del Boom fallito. I Nerorgasmo del compianto Luca Abort Bortolusso erano poesia in putrefazione, degna del Baudelaire del Male, capaci di scardinare con quattro accordi e una voce resa roca dalle lamate dei naziskin i capisaldi ipocriti del materialismo e dell'omologazione del Capitale e del Consumismo, con maggior efficacia che mille proclami marxisti forgiati nelle fumose assemblee senza fiato e prospettiva dei collettivi universitari e dei centri sociali autonomi. Era l'estetica situazionista e post-atomica e post-industriale del né centro né sociale El Paso, felice isola nel niente, quello che frequentavo insieme ai miei amici sfigati, fieramente occupata dal 1987 nel cuore del quartiere operaio di Mirafiori, a cinque metri dalla stazione di Lingotto e dell'omonimo ex stabilimento Fiat, tanto caro a Mussolini, di via Nizza oppure del Prinz Eugen a due passi da Piazza Statuto, o ancora alla Delta House nel cuore della Torino periferia Nord, all'intersezione di Barriera di Milano e Madonna di Campagna. O il Kinoz di Via Giordano Bruno in piena zona Lingotto, davanti il mitico Filadelfia del Toro Immortale e covo di Ultras Granata, anarchici e tamarri di Mirafiori dediti all'arte del Cylum. Luoghi che frequentavo, sostenevo, occupavo ed In cui si forgiava la dialettica dell'HC di matrice ipercinetica e all'essenza di Ganjia dei Bad Brains con l'esilarante, cinica e romantica parlata pugliese di Gigio dei Church of Violence. Era la quadrangolare e possente forza dell'incedere dell'hardcore di matrice Helmet e Newyorkese con cui i Fluxus di Luca Pastore e Franz Goria salmodiavano disarmanti verità sulla società di classe, sulla comunicazione di regime e sulla barbarica assuefazione delle masse al pensiero unico, diluendo nello stesso percorso musicale para-artistico De Bord appunto e i situazionisti, il dadaismo, Salinger e Pasolini, la bruttura del sistema di fabbrica e della scuola pubblica lager dei poveri attraverso le struggenti voci campionate da un documentario Rai sui figli degli operai Fiat. Vedi ho citato alcune persone – tra le mille che potrei ricordare e che sono raccontate nel romanzo - luoghi, storie che qualcuno potrebbe considerare icone, miti, archetipi della controcultura italiana contemporanea, invece per me sono solo fratelli di percorso che mi hanno donato tutto il loro sangue, le loro membra, la loro capacità di essere vivi oltre la morte di questa società.


Parliamo del tuo rapporto con Torino in quegli anni. Come si è costruita quella scena, quali sono stati i luoghi simbolo di quel periodo?

With Love è questo libro dedicato agli anni Ottanta e Novanta, alla Torino tossica, creativa, pregna di vita pulsante, alternativa a se stessa, figlia della rabbia operaia e alla ricerca della propria dignità e della propria identità delle esperienze antagoniste di quella sequenza sgamba di lustri che cambiarono il mondo, la politica, la musica, l’arte, il pensiero, Torino stessa e la mia vita. I gruppi, le case occupate, gli scontri, le occupazioni. I dischi, i libri, le avventurose prime esperienze musicali in prima persona, l’epopea effimera ma significativa della mia band, gli Unconditional poi Malasangre, condivisa con i padri fondatori Nino Azzarà e Marcello Marcelli che ancora annovero tra i miei amici più cari. Le case occupate ovvero Le isole felici in un mare di niente e noia. Quelle corazzate di stoffa nera che attraversavano i marosi di asfalto e pregiudizio per creare avarie nel sistema e sopravvivere a esso. With Love è la dichiarazione d’amore a una città e alla sua gente che ho amato, odiato, ripudiato. Una città che non mi ha mai accettato del tutto, che mi ha spesso deriso e sputato via e che io ho voluto invece sempre vivere fino in fondo.

Guardandoti alle spalle cosa ti manca di più di quegli anni?

L'esercizio della nostalgia è un atto retorico che spetta a coloro che hanno fallito o compiuto una missione. Lo spiega la sua etimologia stessa che fa ricorso ai nostòi, ovvero il ritorno emotivo e malinconico a qualcosa del passato o alla propria terra d'origine, la trama dell'Odissea ad esempio. Ma è velatamente anche permeata di rimpianti o rimorsi. Ed io non ne ho. Ho sempre agito consapevole di quello che facevo, anche nell'errore esuberante dell'idea che affascina e ottenebra fino a sostituirsi alla ragione. Ma l'anelito di libertà non sente la ragione delle ragioni e viceversa. Noi volevamo libertà. Libertà di essere, di fare, di dire, di suonare, di cantare, di dipingere, di scopare, di scrivere, di pogare, di correre su scarpe di gomma e anfibi di cemento, di sventolare cenci di stoffa nera con un teschio orbo da un occhio nel cielo senza stelle della metropoli. Di urlare controvento. Di prenderci quello spazio vitale tra la gente che ingombra e sgombera che ci era negato dalla prassi del dovere prima che del diritto, dell'ingiustizia prima che della giustizia, dell'abuso di potere anziché dalla condivisione dei bisogni. Abbiamo visto compagne e compagni inerti e violentati dai cingoli della repressione sull'asfalto insanguinato, battuti da manganelli di piombo e proiettili di carta straccia, altri ciondolanti da cappi di Stato con i piedi dei suicidi penzolanti neri di sangue raggrumato e di coagulo. Abbiamo lanciato sassi ed estintori contro il cielo del niente che ci circondava, abbiamo infranto vetrine di miele al veleno, eretto barricate di sorrisi irridenti, sbertucciato l'autorità con l'ironia del calembour. Abbiamo combattuto: chi con la forza di un accordo e quattro strofe, chi opponendosi inerme alla violenza figlia della velocità di un treno ad alta mortalità, chi sopra un tetto di un asilo abbandonato, chi nelle università dei baroni, dei borghesi e dei fascisti. Almeno noi abbiamo vissuto, disse qualcuno. Ecco noi abbiamo vissuto. Padroni delle nostre esistenze, senza essere servi dei padroni e senza fare gli schiavi. Certo mi manca l'insensata ed ingenua giovinezza, i capelli neri e lo sguardo perennemente in avanti, come un fiammifero che sa di consumarsi in un istante e che se sbaglia a cadere potrebbe spegnersi senza appiccare il fuoco. Noi abbiamo appiccato il fuoco, nonostante gli sbirri, il sistema, gli ipocriti, gli opportunisti, i borghesi annoiati che si celavano anche tra noi, che ci hanno tradito ma che abbiamo difeso lo stesso. Il popolo lo devi amare, anche se spesso nel popolo ci sono gli stronzi. Gli opportunisti trasformisti un poco meno. Non mi manca nulla perché nulla volevo se non quello che ho preso. E che ho perso.


Quel contesto di radio libere, negozi di dischi, centri sociali occupati che fanno arte e non dj set trash anni 80, le fanzine, e soprattutto i dischi "fisici" ormai è sparito. Secondo te si è evoluto, trasformato in qualcos'altro o è letteralmente sparito? Sarebbe replicabile oggi un'esperienza come quella che hai vissuto in quegli anni a Torino?

La Torino contemporanea è quasi completamente un'altra città da quella che era. Il piano di riqualificazione urbano – eufemismo di urbanisti, architetti e burocrati lottizzati – ha ridisegnato una città che mantiene solo l'ortogonalità della superficie delle cose rispetto all'originario castrum romano. Come diceva Calvino, l'occhio edotto dello scrittore – un privilegiato tra gli schiavi del Tempo - percepisce la capacità di vedere anche le mutazioni ed i mille anfratti della superficie delle città invisibili. Quella Torino era superficie trascendente la fabbrica sullo sfondo, il grande burattinaio i cui fili invisibili ogni mattina alle cinque suonavano sveglie morte per condurre ricurvi operai in tuta blu a timbrare il cartellino della disumanizzazione. Invece noi eravamo gli anfratti sbilenchi della città invisibile, per dirla sempre con Calvino. Eravamo i figli di quegli operai senza più la fabbrica. Le nostre sveglie suonavano per farci andare e scuola, all'università, oppure a ciondolare davanti i negozi di dischi alternativi stravaccati zingari sul pavimento di marmo del centro buono, a skateare sulle rampe del Teatro Regio, a ricordarci il corteo contro la Nato, la guerra nel Golfo o in Jugoslavia e la scuola della Falcucci e di Berlinguer o l'occupazione di quella casa lì o a che ora suonavano i Jawbox a El Paso o i Negazione ad Hiroshima Mon Amour. Avevamo altri bisogni ed altri sogni rispetto i nostri padri e le nostre madri: loro il lavoro, la casa di proprietà, l'utilitaria del padrone, una vita tranquilla fatta di pochi diritti devoluti dal potere sotto forma di partiti, sindacati e referendum abrogativi. Noi no. Noi volevamo tutto. Oggi il mondo apparentemente ti dà tutto, ti offre libertà virtuali, vite parallele, sogni in silicio. Ti illude che tu puoi decidere con un click, che puoi essere uno nella rete dei mille e mille. In realtà sei un pesce nella rete dei tuoi aguzzini. Come nella mattanza dei tonni. Senza scampo, nella camera della Morte dove ti indirizzano con una lanterna luminosa attaccata a un osso di seppia e poi ti rinchiudono dentro finché l'azzurro del mare non si fa rosso sangue e la rete diventa un capestro. E questo modello di società liquida, individualista, atomizzata nei desideri e nelle rivendicazioni corporative, ha disintegrato quel sogno di riscatto materialista e nichilista insieme, quel desiderio idealisticamente hegeliano fatto prassi dalla conflittualità marxista per alcuni, della rivolta bakuniana per altri che ci muoveva. I ragazzi di oggi non riuscirebbero a essere i noi di allora, non per colpa loro, ma per dirla appunto con Marx, per colpa della sovrastruttura.


Torino è da sempre una città operaia ma non solo. Chi erano quelli che alimentavano il circuito alternativo musicale? A chi parlavano i vari Negazione e Franti? Quanto la politica influenzava la scena?

Eravamo noi, più giovani ed epigoni di quelli che citi. Abbiamo fatto tesoro della loro avanguardia, del loro coraggio, della loro originalità. E loro ci trattavano come benevoli fratelli maggiori, non come spocchiosi maestri di rivolte destinate ad abbruttirsi in un posto fisso in banca o nella pubblica amministrazione. I Negazione e i Franti, gli S.P.A. A cerchiata, i KGB, i Creepin' Death, i Truzzi Brothers e i Blind Halley come i Kina ed i Declino e mille altri avevano solo meno di un lustro o poco più di differenza d'età con la mia generazione, erano i grandi che andavamo a vedere e sentire suonare in ogni dove si potesse montare una backline ed una amplificazione, anzi se non si poteva era proprio lì che si faceva. E prendevamo appunti, copiavamo, rubavamo loro il sacro sapere, la visione trascendente di cosa si doveva essere e come si poteva fare. Poi noi per emulazione e gusti personali facevamo il punk o il metal core, il Grind o l'hash core: i Nerorgasmo di Luca e Marco Klemenz angeli disperati e Simone il Prof, i C.O.V. Di Gigio e Bellarosa, i Fluxus di Franz, Luca e Adriano, i miei Malasangre, i satanisti Pollution Mass, i Jester Beast di Dan Solo, i Macello Comunale di Orso che suonava un basso con una sola corda, i Frammenti di Luca Saini e Simone, i Fichissimi di Pomini che non suonavano cover ma hanno fatto un disco 7 pollici con la cover di Pappalardo “Ricominciamo” su tutti e due i lati, i Craxi Acidi, gli Arturo di Alfio, Aeroplani Cadono, i Panico di Sdrò, i Bellicosì di Sabino, gli Z.O.T. del compianto Mauzed, i Medusa di Diegone e Fabri, i giovani Linea77 di Paolino, Dade, Emo, Tozzo e Nitto, Nuvola Blu da Ivrea nel seno dei Kina, i T.A.O.Z. di Vitari, le mille performance di Tury Megazeppa con i This Evol Taste, i Fuori controllo OI! Di Jena, i primi Perturbazione, La banda Cavallero di Villa e Salizzoni il figlio del grande chirurgo, la banda Manera dei fratelli Paolo ed Enrico, e mille altri e mettiamoci anche i Marlene Kuntz e i Mambassa che da Fossano e Cuneo e Bra venivano una settimana sì e l'altra pure a Torino. Mao faceva il Pop britannico imbevuto di Porta Palazzo, San Salvario e Barriera di Milano in salsa take away, i Loschi Dezi, gli Statuto di Oskar, Naska ed Ezio Bosso (sì, proprio il Sublime Maestro, mio compagno alle medie e amico di adolescenza), i Persiana Jones dei fratelli bianconeri Carruozzo, gli Africa Unite di Mada, Bunna, Cato, Parpaglione, Ru Catania e Papa Nico, i Fratelli di Soledad di Bobo e Zorro, i primigeni Blue Beaters ed anche i Casino Royale, che seppur milanesi avevano Torino come seconda casa, se la giocavano tra reggae, combat rock-steady e ska tra Pinerolo, Barriera di Milano, Mirafiori Sud e Borgo San Paolo. Così come i Subsonica, nati come costola del dissidente ex Africa Unite Max Casacci attingeranno da quell'humus trasversale e melting-pot per codificare il loro successo mainstream. E poi a Torino arrivavano da tutte le province dell'impero per suonare, registrare, trascorrere notti nei posti occupati o da Giancarlo, il circolo Arci mitico avamposto bohemien dei Murazzi del Po: Roy Paci, Vinicio Capossela, Frankie Hg NRG, Neffa, Sud Sound System, 99 Posse, Almamegretta, Afterhours, Disciplinatha, C.S.I., Ustmamò, Umberto Palazzo, Diaframma, Bluvertigo, Timoria, Massimo Volume, Zu, Senzabenza, Strike, Gang, Uzeda, Parto delle Nuvole Pesanti, Marta sui Tubi, Ulan Bator, One Dimensional Man, Killerclown per tacere dei mirabolanti nomi stranieri che Mario Lo Spesso, deus ex – machina di El Paso occupato arruolava con due lire e una cena vegetariana per suonare nell'asilo di Via Passo Buole sotto il soffitto di argento e lo striscione col teschio che sorride: Nofx, Mano Negra, Jawbox, New Bomb Turks, Clock dva, Sabot, Offspring, Doctor & The Medics, Youth Brigade, Killdozer, Zeni Geva, Teengenerate, Mike Patton dei Faith No More che ci spuntò all'improvviso una sera per curiosare prima del concerto con i Guns e i Soundgarden al Delle Alpi e ne rimase talmente affascinato tanto da trovarci moglie e sposarsela. Era un Maelstrom di concerti, di suoni, di parole, di corpi in movimento, teste pensanti e ossa rotte, di rumori e colori. Ma poi c'era chi scriveva, chi faceva la radio da Radio Torino popolare a Radioflash la radio di Gargarone del Big Nepentha e di Hiroshima, storico caposaldo della cultura comunista e accentratrice capace di portare tutti a suonare in Corso Brescia, alla Pellerina o alla Certosa di Collegno e in Via Belfiore – dai Ramones ai Living Colour, dai Faith No More ai Quicksand, dagli Helmet agli Urban Dance Squad, dai Fabolous Cadillac ai Tambour du Bronx, dal Maciste Contro Tutti del Consorzio di Ferretti e Zamboni a 99 Posse ed Almamegretta, da Ben Harper ai Fugazi e Sonic Youth, dagli Orbital ai Daft Punk e Underworld ai Sex Pistols ed Iggy Pop and The Stooges alla Fura del Baus, da Lou Reed a Manu Chao, dai New Order ai Fugees e che forgiò speaker e critici musicali e dj come Alberto Campo, Giorgio Valletta, Fabrizio Vespa e prima ancora Mixo e Spallacci. Le mille fanzine autoprodotte che divulgavano rivolta e musicassette pirata. Fino al nostro orgoglio radiofonico antagonista: un orgasmo di emittenza su 105,250 FM, one station against the nation- RADIO BLACK OUT. Per Radio Black Out organizzammo feste, baccanali, concerti e tornei di calcio benefit. Per Radio Black Out distribuimmo opuscoli clandestini su come farti una radio libera sul balcone di casa tra una pianta di Marja e un grappolo di peperoncino calabrese piccante. Per Radio Black Out occupammo una redazione in un appartamento in via San Secondo sulla testa di un covo di fasci al pianterreno. Ma Radio Black Out avrebbe poi accompagnato tutti i nostri passi con dirette mirabolanti e pericolose, dal cuore dei cortei in fiamme di Ivrea e Torino per Sole e Baleno, al ponte elettromagnetico nel settembre del 1994 con radio Popolare di Milano per trasmettere di quando i milanesi ribaltarono la città da bere perché il sindaco di centrosinistra aveva sgomberato il Leonkavallo fino alle strade cieche di Genova 2001. La politica non era la partenza ma l'approdo. Eravamo l'anti-politica extra tutto, oltre i comunisti autonomi, oltre i vecchi anarchici di Umanità Nova con la barba bianca e la bomba ananas sotto il caminetto, oltre gli indiani metropolitani autoriduttori e pistolettatori. Odiavamo gli sbirri, i fascisti, i borghesi, i baroni universitari e gli sfruttatori del nascente lavoro precario e flessibile, ma anche i direttori artistici, gli addetti alla cultura e gli assessori alla gioventù. Il sistema che elemosina cultura e spazi elargendo contentini di parrocchia, a capibastone elettorali, ad ARCI ed Associazioni e Cooperative SPA. Prendevamo tutto quello che il demanio abbandonava a se stesso e lo facevamo vivere di luci, suoni, installazioni, murales e cani pulciosi. Eravamo molesti ed irrequieti, imprevedibili ed ingenui come Eurialo e Niso. Prima si prendeva un posto, poi si suonava, poi si capiva cosa si voleva suonare e cosa si voleva raccontare, poi siccome raccontavamo di noi stessi, cittadini della polis, delle nostre emozioni, dei nostri bisogni, delle nostre follie, dei nostri amori ed odi, facevamo politica perché essere cittadini liberi di essere implicava quel minimo di coscienza politica libertaria ed autogestita che ci poneva al di fuori di quel sistema che volevamo cambiare con la forza della nostra musica e delle nostre braccia rivolte verso il cielo.


Hai militato in un paio di band dell'epoca. Che ricordi hai di quella esperienza?

Un ricordo tenero, struggente, ingenuo, creativo. Ho fatto quello che desideravo, ero il cantante degli Unconditional poi divenuti Malasangre. Potevo essere una rock star ma con il cuore di un operaio. Non sapevo suonare nemmeno il citofono e cantavo imitando onomatopeicamente i miei idoli d'oltremanica e d'oltreoceano: devo ringraziare Nino Azzarà – chitarrista sublime, compositore e arrangiatore che ancora mi affianca nei miei reading musical letterari attuali dopo quasi trent'anni di amicizia – e Marcello Marcelli al basso e alla guida spirituale dell'esistenza se sono diventato un cantante credibile sebbene in mezzo alla pletora di mostri sacri della scena torinese coeva, che sapevano cantare e suonare sul serio. Avevo però sfacciataggine, bella presenza, carisma e sensualità, arroganza e presunzione, che a vent'anni sono doti non difetti, avevo una discreta capacità di scrittura e un paio di settimane di lezioni in una scuola di canto da cui fuggii per non pagare la prima rata e una voce selvatica e potente, indisciplinata e usurata dalle mille fumate e bevute dell'epoca ma che se indirizzata saggiamente e armonizzata dai due geni di cui sopra, riusciva a essere anche melodica, intonata e impostata. Mi dirigevo sui registri di quel postgrunge americano minimalista lontano dalla retorica dei Pearl Jam, più vicino alla sabbia dello stoner e alla visione post punk di Fugazi e Quicksand e in Italia di Fluxus, Marlene Kuntz e Massimo Volume.

Com'è Torino oggi? Continui ad amarla/odiarla? Come è cambiata nel corso del tempo la sua scena? E se qualcuno cercasse l'alternativa oggi dove dovrebbe cercarla?

With Love, come dicevo prima, è la dichiarazione d’amore a una città e alla sua gente che ho amato, odiato, ripudiato. Una città che non mi ha mai accettato del tutto, che mi ha spesso deriso e sputato via e che io ho voluto invece sempre vivere fino in fondo. Con la cocciutaggine dell'amante blandito e respinto, illuso e titillato. Non ho mai fatto nulla per la gloria, ma solo per Amore. E l'amore non vuole gratitudine e riconoscenza. L'amore vive per se stesso. Di se stesso.

Grazie per l'attenzione Domenico e prima di chiudere vorremmo sapere come poter acquistare "With love".

Grazie a voi per aver ospitato le mie evanescenti e velleitarie disquisizioni e memorie e grazie per lo spazio che avreste potuto dedicare a un vero scrittore e non a un artigiano della scrittura sperimentale come me. Il libro lo trovate nelle librerie delle medie distribuzioni, ordinandolo al vostro libraio di fiducia all'angolo, sul sito di Miraggi Edizioni – che ringrazio devotamente nelle figure di Fabio, Alessandro, Davide (il mio paziente e prezioso editor) e di Natalia e Lea per il professionale e amorevole ufficio stampa – casa editrice che contiene nella sua collana “contrappunti” oltre che With Love che è la seconda puntata, anche il Suono di Torino, prima puntata della trilogia torinese che concluderò con L'Altro Suono di Torino, spero a breve. Lo potete anche ordinare al vostro spacciatore di sogni o scrivendomi personalmente. Nelle fiere del libro e ai banchetti dei luoghi: librerie, club, case occupate, festival musicali e letterari in cui mi esibisco e mi esibirò con il fido Nino Azzarà per promuovere With Love raccontandolo nell'unico modo in cui so fare, ovvero con reading musicali letterari post punk.
Stay Tuned. With Love...



Domenico Mungo (Torino, 1971)

Docente di Lettere, Storia e Geografia presso il MIUR dal 2007, è scrittore, saggista, giornalista, poeta ed editore.
Ricercatore di Storia e Letteratura Contemporanea e Antropologia sociale.
Ha tenuto seminari e collaborato con l'Università di Torino, la Technishe Universitat di Dresda e con L'Universitè Sorbonne di Parigi.
Ha collaborato con Sky Arte (Rotte Indipendenti- Torino. 2016), Sky/Current Vanguard, Rai 2 e Rai 3, ZDF TV (Ger) ARTE TV (Fr/Ge).
Si è occupato di musica, letteratura e cinema contemporaneo per il mensile Rumore dal 2002 al 2016.
Attualmente collabora come corrispondente dall'Italia con il mensile di cultura e critica sportiva austriaco Ballesterer Fußballmagazin di Vienna.
É stato direttore editoriale del Mensile di Cultura e Critica Sportiva Supertifo e del Magazine Musicale Flash.
È direttore editoriale del magazine Cannabis&Salute Periodico di divulgazione Scientifica e Culturale.
Organizza, conduce e dirige eventi culturali, performance e rassegne musicali e divulgative.

Romanzi e racconti:
Sensomutanti (Tirrenia Stampatori, Torino 2003/Boogaloo Publishing, Rovereto 2008).
Cani Sciolti (Boogaloo Publishing, 2008).
Streunende Koter (Burkhardt&Partner, Berlino 2011).
The Final - AAVV (Boogaloo Publishing, Rovereto 2010).
Avevamo Ragione Noi – Storie di ragazzi a Genova 2001. (Eris Edizioni, Torino 2016).
Il Suono di Torino. Racconti Urbani con Colonna Sonora Punk. (MiraggiEdizioni, Torino 2018). Come spiriti adolescenti. 25 scrittori per Kurt Cobain. 25 scrittori per 25 racconti ispirati a 25 canzoni dei Nirvana. A cura di P. Ferrante. AAVV. (Radici Future, Torino 2019).
With Love. Epifanie di Kurt Cobain e di me nella Torino Musicale e Sociale degli anni Novanta. Romanzo Punk (MiraggiEdizioni, Torino 2020).

Poesie:
La raccolta Avevate Ragione Voi (Zona Editore, Arezzo 2010).
L'audiolibro La Grande Discesa feat. Totozingaro Contromungo (I Dischi de L'amico Immaginario, Torino 2007).

Saggi:
@Ultras. Parole e suoni dalle curve. Raccolta di saggi e racconti ultras. AAVV. A cura di D. Mungo e G. Ranieri. (Il Galeone Edizioni. Roma, 2017).
Noi Odiamo Tutti. Storia del movimento ultras italiano attraverso gli striscioni politicamente scorretti – con Vincenzo Abbatantuono e Gabriele Viganò (Città del Sole, Napoli, 2010).
Stadio Italia – AAVV. I conflitti del calcio moderno (Casa Usher, Firenze, 2010).
Noi Siamo Il Toro – Memoria, identità e immaginazione del tifoso granata. AAVV - A cura di Stefano Radice. (Eclettica, Massa. 2016). Saggi di Domenico Mungo, Marco Peroni, Daniele Segre, Domenico Beccaria, Marco Bonetto, Gian Paolo Ormezzano.
Odio la Juve. Tredici ragioni per detestare il più forte (Meltemi, Roma 2018).
Ha curato la prefazione di ULTRA'- Le sottoculture giovanili negli stadi europei di Valerio Marchi Ristampa – (RedStarpress/Hellnation, Roma, 2015).
Ha curato la prefazione della traduzione in italiano di Il Peschereccio di Granchi di Kobayashi Takiji. Trad. di  Faliero Salis. (Tokyo 1929, Tirrenia Stampatori Torino 2007).

Intervista a cura di Maurizio Castagna






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