Due orecchie sono più che sufficienti. Il celebre professor Fausto Orecchio sarebbe dunque abbastanza superfluo in questa sede. Due occhi, altresì, non sono minimamente bastevoli. E c’è da immaginare che finanche il terzo occhio invocato in svariate filosofie esotico–esoteriche non riuscirebbe più di tanto a colmare il gap. Così si potrebbe sintetizzare il terzo episodio della mini residency che gli U2 hanno insediato al Mediolanum Forum di Assago, quattro concerti a coppie di due in back to back e altrettanti giorni di pausa nel mezzo. Indi per cui, di seguito troverete una sommaria descrizione delle sensazioni uditive, mentre a ruota un ancor più consunto tentativo di argomentare su ciò che due soli, miseri occhi hanno faticato a tenere sottocontrollo per i centotrenta minuti abbondanti lungo i quali si è dipanato lo show.
Il tour promuove la più recente uscita discografica “Songs of experience”, le cui canzoni occupano un buon 30% della scaletta. Materiale dignitoso e per nulla disprezzabile. Certo è che con un repertorio che annovera pietre miliari in quantità sesquipedale, eh, insomma… I quattro ragazzi irlandesi partiti da Dublino, alla periferia dell’impero, per conquistare il mondo, a quarant’anni dagli esordi hanno mantenuto la conformazione originaria, caso rarissimo in un music business popolato di ragioni sociali spesso gloriose ma intestate per lo più a carneadi, magari accompagnati da qualche reduce degli albori. L’ineffabile batterista Larry Mullen, jr, il canuto bassista Adam Clayton, il chitarrista The Edge con l’immancabile zuccotto a prova di alopecia e il gran cerimoniere Bono, cantante e portavoce del concept imbastito dagli U2 nello “Innocence & experience tour”. Sono sempre loro. Icone inossidabili che pur cambiando pelle disco dopo disco hanno saputo registrare un marchio inconfondibile e bramato da frotte di band che hanno tentato di calcare le loro orme (“Volevamo essere gli U2”, recita il titolo di un film già vecchio di oltre un quarto di secolo). Pure troppo, perlomeno dai 2000 in poi, con la formula vincente in modalità pilota automatico che non ha più concesso grosso spazio a salti nel vuoto e azzardi artistici. Poco male in sede di concerto: c’è da divertirsi ed emozionarsi sulle note di “I will follow”, “Stay”, “Elevation” (proposta pure al Festival di Sanremo, con scarse fortune, dagli aretini Negrita), “Vertigo”, “Even better than the real thing”, “One”, “New year’s day” e altre ancora. Molte di queste presentano piccoli accorgimenti che le caratterizzano, citazioni di altri brani, arrangiamenti diversi eccetera. Il convitato di pietra si chiama “The Joshua Tree”, celebrato nello scorso tour, abiurato questo giro. In compenso c’è molto “Achtung baby”, il disco che ha traghettato sulle sue onde la musica dagli anni Ottanta, sancendo di fatto l’inizio dei Novanta con un impasto sonoro che per il mainstream era piuttosto sconvolgente. Inutile disperdersi a rimarcare l’efficacia della prestazione di questi abili professionisti, che senza ostentare troppo sforzo sanno toccare le corde giuste nel cuore e nella testa dei presenti.
Le orecchie e i loro derivati hanno trovato una comfort zone in quel di Assago. Poco altro da aggiungere. Di contro, il campo visivo è messo sostanzialmente a durissima prova. In primis, la band ha a disposizione non uno, non due ma addirittura tre palchi (e mezzo…). Per fare un raffronto impietoso, l’amato/odiato festival Firenze Rocks (che al di là delle sterili polemiche sul tasso di “rockitudine” degli headliner dell’edizione 2019 era e rimane una manifestazione mediocre) ne ha soltanto uno. Una lunghissima passerella taglia in due l’intera platea, ma non si tratta di un mero espediente di transito per raggiungere i palchi che si trovano ai vertici opposti della medesima, giacché è un vero e proprio stage che, una volta alzatasi la parte superiore degli schermi posti ai suoi lati e messo a tacere il discorso all’umanità del “Grande dittatore” di Chaplin, disvela la band intenta a suonare le prime canzoni in postazione centrale. Di lì in poi, è un inesauribile caleidoscopio che spesso e volentieri tende a prendere prepotentemente il sopravvento sull’esecuzione musicale, disorientando gli astanti, folla eterogenea e multigenerazionale come solo le più acclamate rockstar sanno radunare, costretti a volgere il capo in ogni direzione, fino a esodi biblici avanti e indietro per il parterre, cercando di cogliere tutti i messaggi lanciati dal circo multimediale degli U2.
L’apogeo in tal senso è toccato su “Pride”, che vede i quattro performer suonare all’unisono pur trovandosi a distanze siderali l’uno dall’altro: i chitarristi su piani rialzati all’interno delle “Red Zone”, due costosi pit incastonati più o meno centralmente rispetto alla lunghezza della passerella ed equidistanti da quest’ultima e le tribune, il batterista su uno dei palchi standard e il cantante sull’altro, riuniti solo sul maxischermo. Gli esodi di cui sopra trascendono in sorte di trenini di mutanti cibernetici col braccio alzato ormai fuso con lo smartphone. Ecco, da queste frequenze non leggerete mai stucchevoli ritornelli tipo “si stava meglio quando si stava peggio”. Però, insomma, difficile affermare d’aver assistito a scene edificanti in quell’esatto frangente. Videoproiezioni, cartoni animati con tanto di fumetti in italiano, l’amore per la melodia dell’opera italiana, la perdizione e la ritrovata saggezza, l’inquietante MacPhisto, messaggi visivi, scritti e verbali, hashtag, bandiere dell’Unione Europea. E, ogni tanto, anche qualche canzone. Qualche grande canzone che ha segnato la Storia della Musica nei decenni più recenti.
Testo e foto di Ljubo Ungherelli
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